«Non sono mai stato ateo o anti religioso»
Repubblica 8.5.18
Intervista a Marco Bellocchio
“Era un incantatore e ha fatto sempre quello che voleva”
di Arianna Finos
Non eravamo amici in senso confidenziale, ma ci siamo incontrati più volte nelle nostre lunghe vite», dice Marco Bellocchio. «Ero un ragazzino quando rimasi folgorato da Il posto, mi colpì il realismo discreto e quel modo di fare cinema con pochi soldi. L’albero degli zoccoli e Il mestiere delle armi sono film memorabili».
Olmi era un cineasta cattolico, lei non credente.
«Non sono mai stato ateo o anti religioso, ma mi stupiva quella sua arte che rimandava ai grandi, da Alighieri a Manzoni. Ermanno era un artista credente mio contemporaneo: il suo produrre bellezza mi faceva capire che non esistono confini. Un tempo si contrapponevano le estetiche, come se marxismo e cattolicesimo producessero bellezze diverse. Ma la bellezza è universale».
Olmi difese il suo “L’ora di religione”.
«Sì, e in modo esplicito, non so se in nome della libertà di pensiero o
della bellezza».
Avete aperto due scuole: Ipotesi cinema e Fare cinema.
«Ermanno aveva il dono della comunicazione verbale. Era un incantatore, oltre a essere molto spiritoso. Una di quelle persone che ami ascoltare, qualità tipica dei Maestri. Mentre io, che non amo parlare, faccio prevalere l’esperienza e realizzo corti insieme ai miei allievi. Olmi aveva anche una grande capacità di gestire i rapporti, difendere la sua libertà anche nei confronti delle istituzioni: ha sempre fatto esattamente quello che voleva».
La Stampa 8.5.18
Il Libano nelle mani di Hezbollah
Alle urne avanza il fronte sciita
Il premier Hariri: “Le armi dei miliziani un problema di tutta la regione”
di Giordano Stabile
Hezbollah e gli alleati cristiani conquistano oltre metà dei deputati e ridimensionano il premier sunnita Saad Hariri, garante degli interessi occidentali e sauditi nel Paese, che perde un terzo dei seggi all’Assemblea. È il dato più importante che emerge dalle elezioni in Libano. Fra ritardi e contestazioni l’annuncio dei risultati definitivi è stato rinviato a questa mattina. Ma intanto ieri sera il leader del Partito di Dio Hassan Nasrallah ha celebrato in diretta tv la «grande vittoria».
«Trionfa l’asse della resistenza», cioè il fronte sciita allineato all’Iran «che protegge la sovranità del Paese» contro Israele.
Nasrallah ha parlato di «missione compiuta» e dal volto pacioso traspariva una soddisfazione enorme. Hezbollah ora dispone della più potente forza armata libanese, 40 mila uomini meglio equipaggiati dello stesso esercito, e del principale blocco in Parlamento, 26 seggi assieme all’altro partito sciita Amal. Sommati ai deputati dei partiti alleati, a cominciare Al-Tayyar al-Watani al-Hor, il Movimento libero patriottico del presidente cristiano Michel Aoun, più gli indipendenti e formazioni minori, si arriva a 67, oltre la metà dei 128 dell’Assemblea. È un dato preoccupante per Hariri. Anche se sarà confermato premier, i suoi spazi di manovra saranno ristretti. Il suo partito Mostaqbal, Futuro, ha conquistato soltanto 21 seggi, contro i 33 delle precedenti elezioni. Ed Hezbollah è riuscito anche a far eleggere alcuni deputati sunniti suoi alleati, tanto che voci nel partito fanno trapelare che c’è il rischio «di perdere la rappresentanza dei sunniti», mentre il quotidiano filosiriano Al-Akhbar ha titolato «schiaffo» al premier. Hariri ha cercato di minimizzare. Ha detto che comunque il voto «è un segnale positivo per la comunità internazionale», che ha messo sul piatto 11 miliardi di aiuti a patto che il Paese proceda «con le riforme».
La prova democratica in effetti è riuscita, anche se l’affluenza è calata dal 55% del 2009 al 49 di ieri, ma sarà comunque difficile per il premier convincere americani ed europei a finanziare infrastrutture e soprattutto le forze armate visto lo strapotere di Hezbollah, l’unico a festeggiare ieri notte con le auto che sfrecciavano fino alla Corniche imbandierate di giallo e verde.
Hariri ha confermato che resterà nel patto con il presidente Aoun ed Hezbollah, che gli ha permesso di arrivare alla guida del governo, e ammesso che le armi in possesso del movimento sciita sono un problema ma che «deve essere affrontato a livello regionale».
Il premier è stato «trattenuto» in Arabia Saudita lo scorso novembre perché rompesse con Hezbollah ma la mossa ha portato a scarsi risultati, e alla fine ha solo indebolito il cavallo saudita. Come ha notato l’editorialista Michel Georgiu del quotidiano francofono L’Orient Le Jour queste elezioni segnano la fine del movimento «14 marzo», nato dopo l’uccisione del padre di Hariri, Rafik, e che aveva guidato le proteste di massa fino al ritiro delle truppe di Bashar al-Assad alla fine del 2005.
Ora invece Assad fa un ritorno alla grande, piazza in Parlamento il generale Jamil al-Sayyed, ex comandante della Sûreté Générale, suo uomo di fiducia in Libano. La sua candidatura, contestata, ha fatto perdere voti a Hezbollah nella valle della Bekaa e ne ha fatti guadagnare molti alle Qouet al-libnaniya, le Forze libanesi guidate da Samir Geagea, la destra cristiana che ora costituisce la maggiore forza di opposizione e ha raddoppiato i seggi da 8 a 15. Ma l’elezione di Al-Sayyed dà il segno del vento che soffia nel Mashrek, il Levante arabo, e fa scattare l’allarme rosso in Israele, che vede in pericolo il «fronte Nord», il confine con il Libano e la Siria, e teme attacchi missilistici.
Il «fronte della resistenza» anti-israeliano potrebbe segnare un altro colpo nelle elezioni di sabato in Iraq, e a quel punto il «corridoio sciita» sarà bello che consolidato, mentre Assad spazza via i ribelli e si è già ripreso due terzi della Siria. La prima reazione è arrivata dal ministro dell’Educazione Naftali Bennett, membro del Consiglio di sicurezza del governo di Benjamin Netanyahu: «Ormai il Libano è indistinguibile da Hezbollah – ha commentato – e Israele non farà distinzione fra Hezbollah e lo Stato libanese se ci sarà una guerra».
La Stampa 8.5.18
Cyberguerra, tra Israele e Iran, la battaglia è già cominciata
Attacchi informatici e laboratori segreti. Gli hacker ingannano i siriani con un falso raid
Che la cyberguerra sia già in corso lo conferma anche un raid in Siria mai avvenuto, ma che è stato registrato dai radar di Damasco
di Francesco Bussoletti
La guerra tra Israele e l’Iran è già cominciata, passa dai pc e si combatte in tutto il mondo. Lo conferma il secondo presunto raid Usa-Gran Bretagna-Francia in Siria, che non è mai avvenuto. Ma che è stato registrato dai radar di Damasco, i quali hanno attivato le difese anti-aeree. Fonti militari internazionali affermano, infatti, che qualcuno – si guarda a Usa e Stato ebraico - abbia lanciato un’azione di cyberwarfare contro il centro di riporto e controllo di Damasco. La struttura che riceve tutte le informazioni legate alla protezione dello spazio aereo nazionale e le smista alle unità competenti.
Il messaggio
La sua compromissione avrebbe generato un falso positivo su un attacco e attivato i sistemi di difesa aerea. Ciò per due obiettivi: saggiare le cyber-difese di Bashar Assad legate soprattutto alla difesa aerea e i tempi di risposta; lanciare un messaggio a Damasco: attenzione alle vostre azioni e al sostegno all’Iran, possiamo colpirvi in qualunque momento e in silenzio. Intanto, Teheran nelle ultime settimane ha schierato il suo esercito informatico per condurre operazioni di cyberwarfare contro Israele. È la risposta alla recentissima conferenza stampa del primo ministro Benjamin Netanyahu, il quale ha presentato una serie di documenti secondo i quali la Repubblica islamica continua a sviluppare in segreto il suo programma nucleare bellico, nonostante il Jcpoa. L’Iran sta impiegando alcuni gruppi hacker: le Advanced Persistent Threats (Apt) Ajax Security Team, Chafer, Infy, Apt33 e 34. L’obiettivo è condurre azioni di cyber-spionaggio (vedi l’operazione Saffron Rose) e infiltrazione per danneggiare le infrastrutture vitali dello Stato ebraico. Per farlo utilizzano attacchi cibernetici tipo «spear phishing». Vengono inviate e-mail a soggetti specifici con vari tipi di esca - da offerte di lavoro a finti documenti di interesse ad altro – affinché siano aperte. Queste, in realtà, contengono link a programmi malevoli (malware), che una volta scaricati e installati permettono all’aggressore di assumere da remoto il controllo del computer della vittima. Poi, progressivamente, gli hacker cercano di arrivare ai network, il loro obiettivo finale. Negli ultimi tempi, gli «incidenti» in Israele causati da formazioni facenti capo all’Iran si sono moltiplicati, anche se senza successo. E ci si attende che il trend aumenti.
Lo Stato ebraico, però, contrappone un «cyber army» multiforme. In campo ci sono circa 8200 esperti delle Idf (Israel Defense Forces), che si addestrano in una base high-tech nel Sud; gli specialisti del Mossad e quelli della neo-costituita unità di combattimento cyber dell’agenzia per la sicurezza interna, lo Shabak (ShinBet). Si chiama Shabacking Team ed è nata nel 2017. A loro si uniscono figure dei settori privato e accademico. Ciò ha garantito un’efficiente protezione dei sistemi vitali del Paese e ottime capacità offensive cibernetiche. Lo dimostrano alcuni cyber attacchi che la Repubblica islamica ha subito recentemente e che non sono ufficialmente stati attribuiti. Ma che diverse fonti ritengono siano opera dello Stato ebraico. Tra questi, quello agli switches Cisco (3500), avvenuto solo pochi giorni fa. In Iran ci sono due organismi che proteggono la nazione dalle minacce del cyberspazio: il «Joint Cyber Army», braccio cibernetico dell’intelligence di Teheran, e il Cyber Defense Command (Gharargah-e Defa-e Saiberi). La struttura è posta sotto la supervisione della «Passive Civil Defense Organization», subdivisione del Comando congiunto delle forze armate.
Difesa debole
Le capacità difensive della nazione, contrariamente a quelle offensive, sono però medie. Lo confermano diversi episodi avvenuti nel corso degli ultimi anni: partendo dall’attacco col virus Stuxnet alle centrifughe a Natanz del 2006 fino agli «incidenti» degli switches, tutte operazioni riuscite. Inoltre, lo stesso capo della «cyber polizia» di Teheran, il generale Kamal Hadianfar, ha ammesso che la nazione nel 2017 ha subito 296 cyber aggressioni gravi contro le infrastrutture vitali. Senza contare che in più occasioni esperti del settore sono morti misteriosamente. Vedi il caso di Mojtaba Ahmadi, comandante del quartier generale della «Cyber War», ucciso nel 2013 da ignoti.
La Stampa 8.5.18
Dalla fantascienza al Pentagono
Gli Usa puntano sugli sciami di droni
I robot salvano la vita ai soldati, ma suscitano dubbi etici
di Paolo Mastrolilli
Fino a ieri li avevamo visti nei sogni della fantascienza, oppure in spettacolari esibizioni, come quella organizzata a febbraio per la cerimonia di apertura delle olimpiadi invernali di Pyeongchang. Gli sciami di droni, però, stanno diventando una realtà anche nel settore della Difesa, dove il Pentagono ha deciso di investire diversi milioni di dollari per svilupparli come armi, o come sistemi di protezione.
Gli spettatori di tutto il mondo sono rimasti a bocca aperta, quando nel febbraio scorso 1218 droni Shooting Star della Intel hanno illuminato il cielo notturno di PyeongChang, muovendosi in coordinazione come ballerini su un palcoscenico, per disegnare i Cerchi olimpici e le immagini degli atleti degli sport invernali. Questa stessa tecnologia, però, è da diversi anni allo studio dei militari, che la considerano una risorsa fondamentale per vincere le guerra del futuro. Infatti l’agenzia del Pentagono per lo sviluppo e la ricerca tecnologica, cioè quella «Darpa» già famosa per aver creato Internet, ad aprile ha firmato un contratto da 38,6 milioni di dollari con la compagnia Dynetics di Huntsville, in Alabama, affinché nei prossimi 21 mesi sviluppi il software per gestire gli «swarming drone». Nello stesso tempo la Kratos di San Diego si occuperà di costruire i piccoli apparecchi «sciamanti». L’operazione si chiama «Gremlins». Lo scopo è metterli in condizione di decollare tutti insieme dalle navi o dagli aerei, raggiungere e colpire gli obiettivi, e tornare in sicurezza da dove erano partiti. Una rivoluzione della strategia bellica, che consentirebbe di asfissiare il nemico con ondate incessanti di attacchi, senza mettere a rischio neppure una vita umana. Anzi, gli sciami potrebbero accompagnare gli aerei pilotati dalle persone, per prendere il fuoco nemico al loro posto e quindi proteggerli.
Questo genere di tecnologia è appartenuta finora alla fantascienza, ed esistono diversi filmati che danno un’idea della sua efficacia e spietatezza. Una volta che un drone è stato programmato per centrare un obiettivo, non si ferma finché non lo colpisce, o non viene abbattuto. Una ferocia computerizzata che ha sollevato anche diversi dubbi etici, nel caso in cui le macchine sfuggissero al controllo degli esseri umani, oppure finissero nelle mani di hacker nemici o intenzionati ad usarle come strumenti terroristici. La strada però è segnata, soprattutto nel campo dei conflitti tra grandi potenze, perché chi non si doterà dei mezzi basati sulla robotica e l’intelligenza artificiale, sarà destinato ad accumulare uno svantaggio tecnologico che lo condannerà sempre alla sconfitta. Il progetto «Gremlins» infatti fa parte del programma «Third Offset», che ha già cominciato a provare i prototipi.
il manifesto 8.5.18
L’Italietta che glorifica Netanyahu
Giro d'Italia dell'apartheid. Ospitare le tappe del Giro è l’ultimo strumento di abbagliamento mediatico di una propaganda mirante a dissolvere l’identità palestinese, a negarne la titolarità, a farne dimenticare l’interminabile tragedia di cui è vittima dietro alla cortina fumogena della mitografia sionista
di Moni Ovadia
Il nostro Gino nazionale come l’avrebbe preso questo espatrio del nostro Giro in terra promessa? Il suo leggendario naso da italiano in gita sarebbe rimasto indifferente o si sarebbe stortato per l’indignazione di fronte alla partecipazione del ciclismo italico alla vergognosa operazione di strumentalizzazione mediatico-retorica di uno sport popolare per fini non certo nobili?
Il governo israeliano ha presentato le tappe che si sono svolte in Israele come un modo per onorare Gino Bartali, che fu un «giusto fra i popoli», in occasione del 70esimo anniversario della nascita e fondazione dello Stato d’Israele, Stato ebraico che si era proposto di raccogliere gli ebrei dispersi e sopravvissuti alla Shoà e ad altre persecuzioni per dare loro un focolare e invece in sette decenni il «sogno» è diventato un incubo.
Un incubo per l’altro popolo che abita quella terra, il palestinese.
Il presunto focolare è diventato una fortezza sedicente democratica e armata fino ai denti. Il suo comandante in capo, il suo governo sono spasmodicamente impegnati soprattutto in un’impresa: investire su ogni sforzo, ogni risorsa per impedire all’altro popolo presente su quella terra di godere dei suoi legittimi diritti.
Ospitare tappe del Giro d’Italia è l’ultimo strumento di abbagliamento mediatico che si aggiunge alla propaganda mirante a dissolvere l’identità palestinese, a negarne la titolarità, a farne dimenticare l’interminabile tragedia di cui è vittima dietro alla cortina fumogena della mitografia sionista che glorifica i grandi successi tecnici, scientifici ed economici israeliani per giustificare un’impunità ingiustificabile.
L’ideologia ultranazionalista che sorregge tutto ciò si fonda sulla confusione di eredità religiosa ovvero il polpettone mal ricucinato di un interpretazione capziosa del «dono» divino e una lettura falsificata della pretesa elezione, condita da un martellante e costante richiamo alla Shoà come arma di ricatto nei confronti delle vittime dell’oppressione coloniale e militarista e della pavida e ipocrita comunità internazionale che preferisce tacere o vagire qualche pseudo rimprovero tanto patetico quanto inutile.
E non stupisce che l’istituzione sportiva del nostro paese si sia piegata alla strategia del premier israeliano che non vuole la pace ma solo una costante tensione bellicista per restare al potere ininterrottamente per espropriare, rubare, inglobare le risorse delle sue vittime elettive.
La nostra italietta per cosa si è prestata a questa ulteriore e ingiusta sceneggiata. Per soldi? E non poteva farlo per legare l’iniziativa a progetti di pace? Ma siamo matti? La pace è troppo pericolosa per il moderatismo nostrano. Lo sanno quale è il livello di devastazione in cui versa Gaza? Per l’amore del cielo non parliamo di tristezze!
E quale sarà il passo successivo? Il prossimo festivàl di Sanremo condotto da Netanyahu e Trump nella Gerusalemme eterna e unificata dello Stato di Israele in mondovisione?
C’è da aspettarsi di tutto, davvero di tutto, nella Città Santa, fuorché una pace equa basata sull’eguaglianza e la giustizia.
Corriere 8.5.18
Al largo della Libia
L’odissea in mare dei 105 migranti che nessuno voleva
Bloccati per 36 ore sulla nave della Ong Scontro diplomatico prima del via libera
di Paolo G. Brera
Nessuno li voleva, i 105 migranti soccorsi dal veliero Astral. Per due giorni sono rimasti in condizioni igieniche terribili a bordo del vascello di una Ong intrappolato in un assurdo braccio di ferro diplomatico. Dopo averli salvati davanti alla costa libica rispondendo all’Sos della guardia costiera italiana, ha dovuto affrontare lo scaricabarile delle potenze europee oltre a occuparsi di fame, stanchezza e malattie. Vengono da dieci nazioni di due continenti e hanno rischiato di morire su un gommone alla deriva a una dozzina di miglia dalla costa libica, all’interno delle acque territoriali; ma per 36 ore i tre Paesi coinvolti si sono rimpallati la responsabilità di chi dovesse occuparsi di gestire il loro sbarco «in un luogo sicuro» in cui poter chiedere asilo politico, come prevedono le leggi internazionali.
Con sei donne e sei bambini, domenica i naufraghi hanno trascorso una notte difficilissima all’addiaccio sul ponte della Astral, il due alberi gestito dalla Ong ProActiva Open Arms per i soccorsi in mare. Un meraviglioso veliero di cinquant’anni fa, una signora dei mari attempata e totalmente inadatta a prendersi cura di così tanta gente per giorni interi. Cibo e acqua scarseggiano, la toilette delle donne è un catino in un angolo di coperta separata con un telo, quella degli uomini è sporgersi fuoribordo; di lavarsi neanche a parlarne. Leticia, il medico di bordo, ha riscontrato un’otite perforante, alcuni casi di ipotermia e ferite varie, senza contare l’epidemia di vomito.
Fino a poche settimane fa i migranti intercettati dalla Astral sulla base di sos lanciati dall’Imrcc, l’autorità marittima italiana per i soccorsi, venivano poi trasferiti su navi adatte ad ospitarli, come quelle militari. Ma il meccanismo è inceppato.
Adesso è spesso la guardia costiera libica, formata ed equipaggiata dall’Italia, ad avocare la gestione dell’intervento lanciato dall’Imrcc. È successo anche domenica all’alba, ma la guardia costiera libica non collabora con le Ong cui ordina di tenersi alla larga, esponendo i naufraghi a un rischio immotivato. Anche se dei libici non c’era traccia in mare, Astral ha douto ordinare lo stop al gommone lanciato a 50 miglia all’ora per prestare soccorso con personale altamente specializzato. Una procedura insensata che sarebbe potuta costare vite. Mantenendo informata la guardia costiera italiana, alla fine ha raggiunto comunque il gommone grigio dei migranti, alla deriva in una pozza maleodorante di gasolio.
Ai limiti delle acque territoriali i trafficanti hanno staccato il motore e sono rientrati con un secondo gommone. Ma l’incubo è iniziato sulla Astral, quando i naufraghi pensavano di essere salvi: Libia e Gran Bretagna — stato di bandiera del veliero — hanno cominciato a rimpallarsi la responsabilità formale del soccorso e quindi del loro destino.
Dopo averne autorizzato a voce il trasbordo sulla nave attrezzata Aquarius di Sos Mediterranée rifiutavano di fornire l’autorizzazione scritta, chiesta da Aquarius per evitare una denuncia per traffico di esseri umani contestata a diverse Ong.
«Nessuna autorità ha saputo indicarci un posto sicuro dove mettere al riparo queste persone — accusa il deputato di +Europa, Riccardo Magi, imbarcato sulla Astral per verificare la situazione reale dei respingimenti — questo episodio dimostra che non si può fare affidamento sulle autorità libiche: i loro interventi sono un pericolo per i migranti e un affronto ai diritti umani».
Il braccio di ferro è proseguito tra le autorità marittime: «Spetta all’Inghilterra autorizzare il trasbordo — scriveva la guardia costiera italiana — e indicare il porto sicuro». Gli inglesi erano tutt’altro che d’accordo: per loro devono essere gli italiani, i primi ad aver lanciato il soccorso, a occuparsi dei migranti. A bordo, intanto, un bambino vomitava sangue e mentre faceva buio qualcuno ha provato a tuffarsi in mare in direzione della Aquarius che navigava parallela. Cibo e acqua erano razionati e scarsi.
Molti non otterranno asilo e verranno espulsi senza uscire dai centri in cui saranno accompagnati, ma ci sono volute ore per convincere l’Europa — che assomiglia sempre più alla sua frontiera orientale — ad accogliere 105 naufraghi disperati su una nave vera, in grado di offrire loro una doccia e una scodella di minestra. È accaduto solo ieri sera, grazie alla guardia costiera italiana. E un porto italiano sarà il probabile primo approdo.
il manifesto 8.5.18
A precipizio verso il ballottaggio
di Norma Rangeri
Un tono di voce tranquillo avvolge gli otto minuti del drammatico appello di fronte all’inedito, temuto approdo di «una legislatura che si conclude senza neanche essere stata avviata».
Alla fine del terzo e ultimo giro di consultazioni, il presidente della repubblica, Sergio Mattarella, si presenta davanti alla stampa ed entra nelle case degli italiani con i telegiornali della sera, mettendo tutti di fronte al fallimento del difficile lavoro per la costruzione di una maggioranza di governo.
La crisi politica sfiora quella istituzionale.
Gli appuntamenti europei e la legge finanziaria sono gli scogli principali di fronte ai quali potrebbe naufragare la scialuppa che il capo dello stato tenterà di mettere in mare per una navigazione rapida ma necessaria almeno fino a dicembre.
Tuttavia è evidente, al presidente in primo luogo, che di fronte a un governo «neutrale» ma sfiduciato non resterebbe altra scelta che indire le elezioni, anche nel prossimo mese di luglio.
Qualunque sia la data del ritorno al voto, ieri si davano già i numeri, quelli del futuro «turno di ballottaggio». Di Maio chiede il 40%, Salvini può arrivarci facilmente, con Berlusconi e Forza Italia forza gregaria.
Un turno elettorale supplementare, come del resto aveva anticipato proprio il capo politico dei 5Stelle quando suggeriva di fare la riforma della legge elettorale praticando l’obiettivo, cioè chiamando i cittadini alla nuova sfida.
La Lega farà man bassa nei collegi, misurati con i nuovi rapporti di forza raggiunti dalla destra, e i 5Stelle proveranno a replicare le fortunate prove riscontrate nei ballottaggi delle elezioni locali.
Finalmente Di Maio e Salvini potranno inaugurare la terza repubblica con il loro governo.
E forse gli elettori di sinistra finiti nell’urna pentastellata (e anche in quella della Lega, come ha riconosciuto lo stesso sconsolato Bersani riferendosi alle ex regioni rosse) avranno di che riflettere.
Forse si voterà per la prima volta in piena estate, capiremo meglio nelle prossime ore quando apparirà sulla scena il governo di nessuno destinato a vita breve. Di nessuno perché probabilmente sfiduciato in parlamento e perché con la scadenza sull’etichetta.
Il presidente Mattarella non ha affidato neppure un preincarico a uno dei due gruppi più forti, per non favorire nessuno proprio in vista di un voto ravvicinato.
Con tanti saluti e ringraziamenti a Gentiloni eccoci traghettati dagli esploratori agli elettori.
Una volta i famosi governi balneari, di chiara marca democristiana, duravano almeno il tempo della pausa estiva, il prossimo forse aprirà le urne sulla spiaggia «in piena estate – dice Mattarella – rendendo difficile l’esercizio del voto».
Se invece si scegliesse l’autunno – secondo il Quirinale – sarebbe come cadere dalla padella nella brace «per il rischio di non approvare la manovra finanziaria».
E mentre attendiamo di vedere chi saranno i nostri traghettatori, eccoci di fronte al primo effetto del terremoto elettorale provocato dalle elezioni di marzo. Uno scossone che non ha trovato un assestamento e ci regala invece una specie di container post-terremoto pronto a essere smontato per far posto a un governo politico.
In ogni caso continueremo ancora per un paio di mesi con questo spettacolo politico. Più che innervosire le piazze, come immagina Di Maio, l’eterna campagna elettorale più probabilmente alimenterà il distacco degli elettori.
Se ci mettiamo nei panni di un cittadino che vede comparire in tv volti sconosciuti con la giacca di ministri, non è difficile prevedere una sempre più profonda reazione di rifiuto.
Un sentimento che naturalmente appartiene anche agli sconfortati elettori di sinistra, perché dopo aver buttato il cuore oltre l’ostacolo il 4 marzo, con la scelta di LeU e Potere al popolo, avranno esaurito tutto l’ottimismo della volontà.
Corriere 8.5.18
La Fine dei Giochi
di Antonio Polito
C on un discorso drammatico, perché non ha nascosto nulla della gravità senza precedenti della crisi in corso, Mattarella ha annunciato un suo governo a partiti dimostratisi incapaci di farne uno loro. Un governo «neutrale», «di servizio», composto da persone non ricandidabili, con scadenza comunque a dicembre; perché un governo in ogni caso serve, anche se si vuole tornare alle urne, perfino se si vuole votare, per la prima volta nella storia della Repubblica, in piena estate.
Il problema è che M5S e Lega, cioè più della metà del Parlamento, hanno già risposto che voteranno contro questo governo, negandogli dunque la possibilità di fare ciò che sta a cuore al Presidente, e in verità dovrebbe stare a cuore a tutti: arrivare a dicembre per fermare l’aumento dell’Iva, evitare il rischio di una speculazione sui mercati contro un Paese troppo a lungo senza guida, contare qualcosa quando a giugno in Europa si deciderà su questioni cruciali come i migranti. Avendo finora impedito che nascesse un esecutivo politico, ora i partiti possono impedire anche che ne nasca uno non politico. Il potere di dare la fiducia appartiene a loro, dunque anche la responsabilità.
I l risultato è che, come mai dal 1948, il nostro sistema parlamentare non si è rivelato in grado di dare un esito al voto popolare. La legislatura sta morendo prima di nascere. E niente ci assicura, vista la legge elettorale e i suoi risultati, che la prossima volta sarà diversa. I due «vincitori» del primo turno ovviamente ci sperano, e già definiscono questo secondo turno elettorale un ballottaggio. Ma la storia è piena di democrazie azzoppate dal ripetersi di elezioni inutili: i cittadini votano per avere un governo, non per il gusto dell’agonismo. Soprattutto quando il torneo appare così smaccatamente condizionato dalle ambizioni personali dei leader, dalla fretta che hanno di vincere per non essere disarcionati, o dalla speranza di tornare in pista pur avendo perso.
Così lo scontro politico di questi due mesi si è trasformato, inevitabilmente, in una grave tensione istituzionale. Tra i partiti ha prevalso il giochino del pop corn. È una metafora più volte usata in questa crisi. Ogni volta che qualcuno voleva sfuggire alle sue responsabilità, se ne usciva dicendo: «Ora ci compriamo i pop corn e ci divertiamo». Il che stava a dire: voglio proprio vedere come se la sbrogliano gli altri. O anche: tanto peggio, tanto meglio per me, che almeno mi diverto (sottinteso: conquisto altri voti). Si sono divertiti tutti, pare; e adesso vogliono che il pop corn lo compriamo noi elettori e ci sediamo ad assistere al più straordinario degli spettacoli politici mai visti: la seconda campagna elettorale in sei mesi.
Questa propensione al gioco del cerino non è purtroppo tipica solo del nostro sistema politico: in troppi campi gli italiani preferiscono che perda pure l’avversario, se non possono vincere loro. Ma in politica si gioca con il bene comune. E nessuno tra i protagonisti di questa crisi è esente da colpe. Né chi avendo preso molti voti aveva la responsabilità di accettare i compromessi inevitabili a far nascere un governo di coalizione. Né chi, avendo preso meno voti, ha pensato solo a mettersi di traverso per dimostrare che gli elettori si erano sbagliati. La crisi si è così trasformata in un minuetto: ciascuno dei tre schieramenti maggiori mancava dei parlamentari necessari per fare un governo, ma nessuno dei tre è riuscito ad allearsi con un altro per ottenerli. Lo scambio di accuse finali ha il solo scopo di prendere la posizione migliore per la griglia di partenza del nuovo gran premio elettorale.
Così ora non ci resta che scoprire se si voterà a luglio, addirittura l’otto, la data che con una certa presunzione Di Maio e Salvini hanno ieri indicato a Mattarella, unico titolato in materia; oppure a fine luglio, visto che prima è difficile anche tecnicamente, quando cioè alcuni milioni di italiani saranno in meritate vacanze; o in autunno, come Berlusconi preferirebbe, distinguendosi in questo da Salvini. Fino a dicembre, come vorrebbe Mattarella, nelle attuali condizioni non pare possibile arrivarci. Il suo invito alla responsabilità per il momento non è stato accolto.
C’è ancora qualche ora per ripensarci. Ma la legge di Murphy dice che se una cosa può andare male, andrà male. E questa legislatura è finora andata così male da far disperare che si possa riprendere in articulo mortis.
Repubblica 8.5.18
I democratici
La riunione dei big
Nel Pd l’incubo del tracollo si apre lo scontro su liste e leader
Da Martina a Delrio la previsione di scendere sotto il 18%. Franceschini: “Con le elezioni subito ci spazzeranno via”. Renzi e l’arma delle deroghe contro chi ha già svolto tre mandati
di Tommaso Ciriaco
ROMA Ore 8 del mattino, largo del Nazareno.
Caminetto di guerra convocato da Maurizio Martina. Ci sono tutti i big, senza Matteo Renzi. E basta un giro di tavolo virtuale per incrociare il dramma del Pd. «Se si vota subito - profetizza Dario Franceschini – ci spazzano via». Se si esclude Matteo Orfini, tutti condividono il timore di un’ecatombe elettorale: Marco Minniti, Ettore Rosato, Graziano Delrio, Lorenzo Guerini. «Inutile sperare - ammette Andrea Orlando - prepariamoci al peggio.
Prepariamoci al voto. Sarà un massacro».
Parecchie ore dopo, a Palazzo Giustiniani. A furia di telefonare Renzi quasi fonde il suo iPhone. Si confronta con Luca Lotti e Maria Elena Boschi. È deciso a procedere per priorità. La prima passa dalla gestione del voto ultra anticipato.
Come salvare il renzismo? Ha in mente una tabella di massima. Si parte dalla convocazione dell’assemblea nazionale per il 19 maggio, o al più tardi il 26. In quella sede intende eleggere un segretario pro tempore che traghetti a un congresso in autunno. Sarebbe impossibile organizzarlo prima, a meno di non immaginare primarie a ridosso del pranzo di Ferragosto. Già, ma a chi affidare le chiavi del Nazareno e la gestione delle liste elettorali?
Lorenzo Guerini è il nome più solido. O Maurizio Martina, se accetterà la logica del capo.
La linea di Renzi non prevede sconti, perché è sfida per la sopravvivenza. Primo: bisogna garantire le truppe parlamentari uscenti, con gli stessi equilibri.
Secondo: una soluzione unitaria è possibile. Terzo, e questa è la condizione che suona più minacciosa: se qualcuno cerca la guerra e non accetta la tregua, allora la direzione imporrà le liste al segretario pro tempore e spazzerà via a colpi di deroghe negate i ministri uscenti Andrea Orlando, Dario Franceschini, Marco Minniti, Roberta Pinotti. Il Pd, statuto alla mano, prevede il limite dei tre mandati. E Renzi è pronto a usarlo come una clava.
Martina o Guerini, allora. Ma questo schema non scioglie il nodo dei nodi: chi sarà il front man del Pd, chi vestirà la pettorina del candidato premier? Paolo Gentiloni è il profilo naturale.
Visto che i tempi sono strettissimi, anche l’ex segretario è disposto a sostenerlo. Senza entusiasmi, e con l’intenzione di assicurarsi pure un reggente “amico” che consegni al Giglio Magico la gestione delle liste. Gentiloni, invece, potrebbe occuparsi di ricostruire la coalizione.
Non esiste un copione già scritto, però. Il presidente del Consiglio, ad esempio, fa sapere che no, «la vicenda del candidato leader non esiste» e l’unica cosa a cui si candida adesso è «ex premier». Ma è chiaro che forse soltanto lui sarebbe in grado di ricucire con l’ala dialogante di Liberi e Uguali, oltreché con +Europa. Con il Rosatellum, d’altra parte, un’alleanza sembra inevitabile, anche se Renzi continua a pensare che quella sinistra sia ormai al di sotto del 3% e non possa reclamare molto in un eventuale negoziato.
Prima, comunque, andrà risolto il rapporto tra il leader e Gentiloni.
Che, al momento, resta gelido.
Molto dipenderà dalla data del voto anticipato, ovviamente. Per tutto il giorno circolano ipotesi coraggiose – dalla riapertura del forno con i cinquestelle fino a un sostegno a un esecutivo di centrodestra – ma è chiaro che la crisi si è spinta troppo oltre.
Dovesse partire un esecutivo di tregua, ci sarebbe tempo per ragionare. Ma non sembra questo il caso. «Ormai è andata così», ammette anche Piero Fassino.
È andata male, non c’è dubbio. Se ne riparlerà in un nuovo caminetto convocato per stamattina alle 8. E ripartirà la battaglia. Perché una cosa è certa: ad eccezione dell’ortodossia renziana, nessuno dei big si fida più del ramoscello d’ulivo renziano. Temono che possa finire come per le ultime liste. Temono una nuova, definitiva epurazione.
Corriere 8.5.18
Quella telefonata di Renzi
Il pronostico sbagliato
di Francesco Verderami
Che c’entra Renzi che parla di centrodestra e di Berlusconi con Salvini? E che c’entra Salvini che chiede a Renzi di fargli da mediatore con Berlusconi?
Nel giorno in cui deflagra tutto, accade persino che l’ex leader del Pd, fermamente convinto che un governo sarebbe nato, si accorge di aver sbagliato pronostico. E terrorizzato dal ritorno alle urne chiama il segretario del Carroccio: «Scusa Matteo, davvero non riuscite a convincere Berlusconi a fare un passo indietro?». «No Matteo. Ma visto che ci vai d’accordo molto più di me, prova a convincerlo tu». Non è dato sapere se Renzi ci abbia provato, se così fosse il risultato sarebbe stato modesto: una breve nota di Forza Italia — dettata a fine giornata da Gianni Letta — con la quale si invitano gli alleati a meditare se non sia meglio tornare alle urne in autunno piuttosto che in estate.
Il Cavaliere ha già lasciato Roma e dorme sull’aereo che lo riporta a Milano, mentre le tenebre calano sulla legislatura. L’estremo tentativo di Mattarella si infrange sui veti dei grillini e dei leghisti, che pure ci avevano provato nel pomeriggio a far cambiare idea al leader azzurro. Preso atto che Berlusconi non cedeva, che l’idea di scambiare l’appoggio esterno per tre ministri d’area e la presidenza della Bicamerale per le riforme non lo convinceva, Di Maio ha allargato le braccia con Salvini: «Oltre non mi posso spingere o mi salta il gruppo». Ne riparleranno (forse) dopo le elezioni, che hanno deciso di affrontare con la stessa tattica: polarizzando il voto. «Sarà un ballottaggio tra noi e Salvini», dice il capo di M5S. «Sarà un referendum tra noi e Di Maio», dice il leader leghista.
Il gioco sembra fatto, tra lo sconcerto dei parlamentari democratici e forzisti, che nelle rispettive chat di partito descrivono le fiamme dell’inferno e temono di venirne inghiottiti. Al Quirinale si consuma l’ultimo atto. Il capo dello Stato avverte le delegazioni dei Cinque Stelle e del centrodestra, spiega che le elezioni anticipate potrebbero provocare un ulteriore strappo con il Paese. «Abbiamo già avuto un crollo nella partecipazione al voto», sottolinea, ricordando le percentuali delle ultime Regionali: «Una reiterazione non aiuterebbe». È chiaro che Berlusconi vorrebbe aiutarlo. E ci prova, a modo suo.
Succede quando gli alleati si mettono a perorare la causa dell’incarico a Salvini, e Mattarella chiede dove siano i numeri e quali gruppi sosterrebbero il tentativo. «Ma i numeri ci sono», replica il Cavaliere: «Saranno in tanti a non voler tornare a casa. E ci sarà anche il gruppo. Le anticipo già il nome: “Gli Indipendenti”». Superato il momento d’imbarazzo, la delegazione si accinge a salutare il presidente della Repubblica, quando — sull’uscio — Berlusconi chiede di poter parlare da solo con il capo dello Stato. La richiesta viene accordata e dietro quella porta chiusa, gli alleati iniziano a insospettirsi. Pochi minuti e l’ex premier riappare: «Non ho parlato di governo. Ho fatto presente al capo dello Stato le condizioni di salute in cui versa Dell’Utri». La Meloni fa in tempo a indossare un sorriso d’ordinanza prima di apparire davanti ai media.
La leader di Fratelli d’Italia in questi mesi ha svolto un ruolo di cerniera nel centrodestra, come quei mediani a cui è delegato il compito di recuperar palloni. Ma l’altra sera al vertice, quando Berlusconi ha provato a parlare di «partito unico del centrodestra» per diluire i suoi numeri con quelli della Lega, non ci ha più visto e ha affondato il tackle : «Silvio, lascia stare. C’era il Pdl e sappiamo com’è andata a finire». Qualcosa però il Cavaliere si dovrà inventare per non concludere la sua storia venticinquennale da junior partner di Salvini, per evitare che sia l’altro a salire su un predellino e fare un boccone di ciò che resta di Forza Italia.
Un terzo dei parlamentari azzurri è convinto infatti che non sarà ricandidato. Ed è sicuro che quei collegi finiranno in quota Lega. Perciò quando ieri Letta esortava Berlusconi a «lasciare aperto uno spiraglio» a Mattarella, loro pensavano piuttosto a un muro che li difendesse. Perché luglio o settembre, il voto si avvicina. Il ministro Franceschini, ormai nei panni dello scrittore, osservando le macerie ha dettato l’incipit: «Per una serie di tragici errori, portarono il Paese ai seggi sotto il sole. Alcuni cittadini dimenticarono la scheda elettorale, altri dimenticarono il costume da bagno». Il libro sarà dedicato a Renzi e Berlusconi.
Il Fatto 8.5.18
L’errore più grave di Di Maio: aver dato fiducia a Renzi
di Andrea Scanzi
Giusto una settimana fa, Ferruccio de Bortoli ha detto a DiMartedì che Luigi Di Maio le aveva indovinate tutte in campagna elettorale per poi sbagliarle tutte nei due mesi post-voto. Non è il solo a pensarlo. Domenica da Lucia Annunziata e ieri dopo l’ottocentesimo giro di consultazioni, il leader 5 Stelle ha dato la sensazione di aver ritrovato lucidità. Sin dal 4 marzo, Di Maio avrebbe dovuto sapere bene due cose: che non c’era nulla da esultare e che l’unica strada (bruttina) era un governo di scopo con Salvini (e basta) per poi andare in fretta al voto. Non a caso, dopo due mesi di straziante e palloso balletto democristianissimo, Di Maio è tornato lì: un contratto (solo) con la Lega con tre cose da fare – reddito di cittadinanza, abolizione legge Fornero, seria legge anticorruzione – e voto. La proposta politica di Luigi Di Maio si riassume così: “Salvini, facci vedere se hai le palle”. Scontato, quindi, il fallimento di una trattativa che – per verificarsi – presupporrebbe la miracolistica trasformazione di Salvini da cazzaro brontolone a statista credibile. Di Maio, così facendo, sta spaccando ancora di più ciò che è di per sé crepatissimo, ovvero centrodestra e centrosinistra.
Era ovvio che Di Maio non sarebbe mai stato premier, come era pressoché certo che – in questa assai ipotetica “Terza Repubblica” – tutti sarebbero potuti andare al governo tranne i 5 Stelle. C’è però un punto su cui Di Maio è indifendibile. Venerdì scorso, nella bella intervista concessa a Luca De Carolis per il Fatto, Di Maio ha detto: “Pensavo che il senatore semplice Renzi potesse permettere un processo di rinnovamento nel Pd, accettando un’autocritica dopo la batosta elettorale. Poi però è andato in tivù e ha rotto tutto, prima della direzione del Pd”. Sono parole sconcertanti: se speri in un’autocritica di Renzi (???), vuol dire che non hai capito nulla di Renzi e dello scenario contemporaneo. Di Maio con Renzi non doveva neanche parlare, men che meno con quell’atteggiamento parso oltremodo dimesso: Renzi va trattato come Berlusconi. Così come i 5 Stelle stanno meritoriamente dicendo no a prescindere a Berlusconi, allo stesso modo dovevano rifiutarsi di sedere a un tavolo che contemplasse la presenza di Renzi e renziani. Bastava dire: “Caro Pd, finché comanda ancora questo qua, tu per noi non esisti. Se invece te ne libererai, allora saremo felici di parlare con voi”. Invece Di Maio ha dato la sensazione di voler governare a tutti i costi. Eppure lo sa, che chi lo ha votato preferisce un’opposizione rigorosa a un annacquamento inaccettabile (e le “tavole di Giacinto della Cananea” restano un momento di mestizia politica assoluta). Ora Di Maio spera di votare a luglio (macché), settembre (difficile), dicembre o primavera 2019 (boh). È sua convinzione che, anche col Rosatellum, il voto si trasformerebbe in un ballottaggio M5S-centrodestra: possibile. Il punto, però, è che se a chiedere il voto non ci sarà anche Salvini allora avrà luogo una mostruosità purulenta: il Renzusconi in salsa leghista. In quel malaugurato caso, il M5S dovrà fare un’opposizione senza sconti: i numeri (enormi) per bloccare quasi tutto ciò che va bloccato, li avrebbe. Questi due mesi democristianissimi (“doppio forno” de che?) sono stati il frutto di ciò che Di Maio aveva anticipato in campagna elettorale (dialogo, contratto), ma sono anche stati caratterizzati da un mix di ingenuità, dabbenaggine e ambizione mal controllata. Riporre fiducia su Renzi, o sulla di lui autocritica (???), è un errore gravissimo da matita blu: se lo ricordi in futuro, onorevole Di Maio.
Repubblica 8.5.18
La violenza dei Casamonica
Un pezzo di Roma senza stato
di Carlo Bonini
Come era già successo il 19 agosto del 2015, quando avevano trasformato Cinecittà in un grottesco set per consegnare ai posteri la dipartita del boss Vittorio, i Casamonica ricordano al Paese che «hic sunt leones», che c’è un quadrante di Roma dove chi comanda sono e restano loro. La Romanina. Due chilometri quadrati di città, 30 chilometri a Sud-Est di piazza Montecitorio e piazza del Campidoglio. Dove una domenica di Pasqua si può lavare l’affronto di non essere stati serviti per primi al bancone di un bar, prima massacrando una donna disabile a cinghiate perché «nun s’è fatta i cazzi suoi» e non «è stata muta» di fronte alla prevaricazione. E quindi finire il lavoro a bottigliate con quel «rumeno demmerda» del barista che non ha capito come vanno le cose nel quartiere e quindi è bene che si strozzi nel suo sangue.
E dove, del resto, ogni giorno dell’anno, da quando esistono i Casamonica — più o meno mezzo secolo — l’intimidazione violenta, l’estorsione, l’umiliazione fisica e verbale sono la regola e lo strumento immediatamente percepibile del comando. Dove lo Stato e le sue istituzioni sono ridotte a un malinconico e disarmante simulacro. Dove un clan di origine Sinti di un migliaio di anime incrociate in una ragnatela di rigida consanguineità tra famiglie (i Casamonica, i Di Silvio, i Di Guglielmo, i Di Rocco, gli Spada, gli Spinelli) controlla ogni angolo di strada. E, in una rappresentazione quasi scolastica dell’anti-Stato, decide l’assegnazione degli alloggi nelle case popolari, impone divieti di sosta e pedaggi, piuttosto che gli orari di apertura e chiusura dei locali per evitare che intralcino le piazze di spaccio, presta a strozzo con tassi del 300 per cento. Mentre, un po’ alla volta, gli si vanno consegnando altri lembi periferici dell’area metropolitana. I Castelli e Ciampino, piuttosto che la Borghesiana e Bracciano.
Come facessero ormai parte dell’arredo urbano della città, né più e né meno delle sue buche o dei suoi cassonetti debordanti di rifiuti, e fossero specchio della sua trasformazione antropologica, i Casamonica fanno i Casamonica, viene da dire. Se necessario ingrassando la loro epica con gli strumenti del reality (per i cultori del genere, YouTube documenta i loro parchi macchine, le loro feste, il loro look) e con la consapevolezza di una raggiunta dimensione «mafiosa», nel significato tecnico del termine, ormai pacificamente documentata nelle inchieste e nei processi che, ciclicamente, li colpiscono. Perché non sanno fare altro. Perché il loro mix di violenza predatoria e primitiva che ne definisce il Dna è direttamente proporzionale al vuoto dell’indifferenza e della rassegnazione che li circonda.
Accade infatti che, in una sproporzione di linguaggi e in una ennesima abdicazione di responsabilità, la sindaca di Roma, Virginia Raggi, scelga di rispondere allo spettacolo, prima con un post su Facebook («Le immagini dell’aggressione dei Casamonica nei confronti di una donna e un barista sono inaccettabili. Le istituzioni non abbassano lo sguardo. Oggi ho portato la solidarietà di Roma alla moglie del titolare del bar in cui è avvenuta la vile aggressione. Sentirò il prefetto e il ministro dell’Interno perché sono convinta che anche loro non vorranno abbassare lo sguardo. Chi denuncia deve essere sempre tutelato. Noi siamo e resteremo sempre con i cittadini onesti. #FuoriLaMafiaDa-Roma») e quindi con una visita al bar dell’aggressione. Come se il recupero di quella parte di città fosse solo questione di sicurezza e ordine pubblico, quindi esclusiva faccenda di polizia, carabinieri e procura della Repubblica. Come se il deserto civico in cui i Casamonica la fanno da padroni non ponesse un problema politico e civile innanzitutto a lei, sindaca della città, e al Movimento Cinque Stelle. Non fosse altro perché alla Romanina, alle ultime consultazioni politiche, il Movimento ha ottenuto il 32,5 per cento dei consensi. In linea con le comunali del 2016 (quando i voti per Raggi erano arrivati al 36,8 per cento al primo turno e al 67,7 al ballottaggio).
La storia delle mafie insegna che non esiste contrasto degno di questo nome, non è data ricostituzione del tessuto connettivo di una comunità, non c’è emancipazione dalla paura, dalla sottomissione, se non in un quadro in cui ciascuna articolazione dello Stato dimostri di esercitare il proprio ruolo e soprattutto di essere in grado di farlo. Possibilmente senza furbizie retoriche o improvvise amnesie.
Ma, a Roma, lo spettacolo è stato e continua a essere un altro. Per avere traccia dell’ultima volta in cui la sindaca si è occupata di cosa accada alla Romanina, bisogna tornare indietro al gennaio scorso, nei giorni della campagna elettorale. Giorgia Meloni aveva postato il video di un maiale grufolante tra i rifiuti del quartiere. Raggi, con espressione insieme desolata e severa, l’aveva pubblicamente rimproverata con queste parole: «Mi dispiace che la campagna elettorale abbia spinto Meloni a rilanciare le immagini di un maiale in strada. La politica dovrebbe essere altro. Ma tant’è. Lo dico perché ci tengo a chiarire che questo animale è di proprietà di un membro della famiglia Casamonica, il quale ha ammesso alla polizia municipale di averne perduto il controllo nel giorno antecedente ».
Ma sì. Alla Romanina è possibile perdere il controllo di un maiale, prendere a cinghiate una disabile, minacciare di morte chi alza la testa. Vorremo forse pensare che è anche un problema della politica?
La Stampa 8.5.18
Champagne di mattina punch e lavoro di notte: altro che veleno, così si logorò Mozart
Tradotta in italiano la prima biografia ufficiale: scritta dal secondo marito della vedova Costanze
di Sandro Cappelletto
«Secondo l’uso corrente, il suo compenso per Le nozze di Figaro fu il guadagno della terza rappresentazione, che dev’essere stato scarso, giacché all’epoca l’opera piacque poco». Ma perché il capolavoro di Mozart al debutto a Vienna non ebbe successo? Perché «il poeta italiano [Lorenzo Da Ponte, ndr] non gli avrebbe dovuto presentare un libretto così spregiudicato, intessuto di parecchie indecenze e scurrilità».
Chi scrive è Georg Nikolaus Nissen, incaricato d’affari del re di Danimarca, secondo marito di Costanze Weber vedova Mozart e autore della prima biografia «ufficiale» di Wolfgang, ora finalmente tradotta in italiano, a cura di Marco Murara (Zecchini editore, pp. 699, € 59).
Georg e Costanze, rimasta vedova con due figli bambini, si conoscono nel 1797, sei anni dopo la morte di Mozart. Si sposano nel 1809 a Bratislava: lei è cattolica, lui luterano, nella bigotta Vienna non potevano essere celebrati matrimoni misti. Sospinto da Costanze, Nissen consulta fonti, contatta musicisti che hanno conosciuto Mozart, può contare su un dono inatteso: 400 lettere familiari che Nannerl, sorella di Wolfgang, ormai anziana e cieca, gli fa recapitare e che nessuno prima di lui aveva consultato.
È la spinta decisiva per proseguire l’impresa, che non vedrà completata. Nissen muore nel 1826, Costanze si affida allora a Johann Heinrich Feuerstein, un amico medico e collezionista mozartiano. Il volume esce in edizione di lusso a Lipsia nel 1829. Costanze, che ha sostenuto le ingenti spese della pubblicazione, è felice: «Siano lode e grazie a Dio perché sono arrivata a tanto». La memoria del geniale primo marito è preservata grazie al devoto secondo.
È lei la vera autrice di un volume che, pur non avendo l’andamento di una biografia scientifica, rimane imprescindibile per il coacervo di notizie, episodi, documenti autentici, nel procedere di una narrazione che unisce vita e opere? Costanze espunge le punte polemiche. Scompaiono le lettere che documentano lo sgomento del padre Leopold quando, nella primavera del 1781, a 25 anni, Wolfgang decide di non tornare alla casa paterna a Salisburgo, di licenziarsi dall’arcivescovo Colloredo che lo aveva assunto - gesto allora inconcepibile per un musicista - e di cercare lavoro a Vienna come libero professionista. E per giunta di sposarsi. Tuttavia, nell’Introduzione, Nissen lascia trapelare le tensioni: «Il figlio non era stato proprio contento della sua visita a Salisburgo nel 1783. Aveva sperato che sua moglie avrebbe ricevuto alcuni dei doni risalenti alla sua giovinezza, ma questo non accadde».
La «colpa» delle Nozze di Figaro, opera tratta dalla commedia di Beaumarchais che negli anni di Metternich e della Restaurazione veniva giudicata rivoluzionaria, è attribuita alla spregiudicatezza di Da Ponte, mentre sappiamo che la messa in scena fu voluta da Giuseppe II, imperatore illuminato che si divertiva a provocare la sua stessa corte. Mentre rispetta la volontà di Costanze di attribuire a Wolfgang l’intero Requiem, incompiuto a causa della morte e terminato dagli allievi, Nissen riporta le considerazioni di una breve biografia uscita nel 1803: «Si sa che mise spesso a repentaglio la sua salute, che certe mattine tracannava champagne con Schikaneder [attore e librettista del Flauto magico, ndr], che certe notti beveva il punch e dopo mezzanotte tornava al lavoro, senza accordare il minimo riposo al suo corpo». Altro che veleno e misteriosi messaggeri di morte, di cui pure si racconta: «Le sue forze erano logorate».
L’elogio più affettuoso per Nissen lo scrive Franz Xaver, il secondo dei due tra i sei figli avuti da Wolfgang e Costanze che sopravvivono, senza avere discendenti. A differenza del fratello Carl Thomas, funzionario dell’amministrazione austriaca a Milano, Franz Xaver diventa un apprezzato musicista. Da Leopoli, appresa la morte di Nissen, scrive alla madre: «Egli era per tutti noi, e in particolare per me, il mio migliore, il mio unico amico, il mio padre e il mio benefattore sin dalla mia infanzia».
Marco Murara, di professione notaio, completa così un trittico di traduzioni per il quale dobbiamo essergli grati: prima tutti i testi tedeschi delle opere, poi l’impresa gigantesca dell’epistolario integrale, ora questa biografia.
Il Sole 8.3.18
Gig economy. La società inglese di food delivery annuncia oggi l’accordo in tutti i dodici i Paesi in cui è attiva (Italia compresa)
Deliveroo assicura tutti i rider
Copertura per incidenti e danni a terzi, ma anche rimborso in caso di infortunio
di Biagio Simonetta
Milano. Le evoluzioni degli ultimi anni ci hanno portato a credere che dietro alla gig economy si nasconda un inferno fatto di precariato e nessuna tutela. Troppo spesso, del resto, le cronache relative alle nuove piattaforme del cosiddetto lavoro on demand ci hanno raccontato di abusi e sfruttamenti, di diritti non riconosciuti e vecchie conquiste sindacali calpestate in un solo click. Eppure, se l’economia dei lavoretti – come sostengono in molti – è destinata a consolidarsi, a diventare parte integrante del mercato del lavoro e non solo stagno di ripiego per chi vuole sbarcare il lunario, è logico attendersi un’età della maturità. Una nuova fase in cui gli impianti regolatori tradizionali iniziano a sposare il mondo digitale, senza rimanere nel territorio dell’innovazione a metà.
È in questa direzione che punta Deliveroo, società londinese attiva nel food delivery, che vanta fatturati a nove zeri (un miliardo di euro di ricavi da giugno 2016 a giugno 2017) e accordi con oltre 35mila ristoranti in tutto in mondo, di cui 1.900 in Italia. Oggi, con un accordo che riguarda tutti e dodici i Paesi in cui opera, l’azienda lancia un’assicurazione unica gratuita per tutti i suoi 35mila riders, compresi i circa 1.300 “italiani”.
Un passaggio chiave che ha le potenzialità di dare una scossa importante all’intero settore in fatto di diritti, anche se lo status dei riders rimarrà quello di lavoratore autonomo, con tutto quello che ne consegue in fatto di diritti e precarietà. Ma il nuovo accordo potenzia enormemente il regime assicurativo attuale, prevedendo la copertura fino al 75% del mancato introito in caso di inattività temporanea, aumenti dei massimali per spese mediche, dentistiche e per danni a terzi.
La nuova polizza, che la società londinese ha stipulato con Qover, oltre a garantire - come in passato - la copertura in caso di infortuni e danni a terzi durante l’attività, garantirà massimali più elevati, nonché un rimborso in caso di inattività temporanea del riders a seguito di sinistro, a prescindere dal veicolo utilizzato per svolgere le consegne. La polizza coprirà tutti i “fattorini” connessi all’applicazione, inclusa l’ora successiva al log-off, il momento in cui il rider si sgancia dall’applicazione e non è più attivo, tutelando così anche il rientro verso casa.
Per quanto concerne i massimali sugli infortuni, la nuova assicurazione garantirà fino al 75% delle entrate medie giornaliere per temporanea inattività fino a un massimo di 30 giorni. Coprira in più fino a 7.500 euro di spese mediche, 50 euro per ogni notte trascorsa in ospedale (fino a 60 giorni) e fino a 2mila euro di spese dentistiche. Saranno altresì coperti eventuali danni provvisori o permanenti a seguito di incidenti (udito, vista, parola o attività motoria anche parziale).
Rientra, infine, nel pacchetto anche la copertura per eventuali danni verso terzi, con un aumento del massimale fino a 5 milioni di euro, e la responsabilità civile per tutti i ciclisti, i motociclisti non alla guida (essendo durante la guida già dotati di Rca obbligatoria per legge) e i rider che consegnano a piedi.
«Questa nuova copertura assicurativa – afferma Matteo Sarzana, general manager di Deliveroo Italia al Sole 24 Ore - è un’innovazione fondamentale per tutti i rider che collaborano con noi. Sappiamo che i rider apprezzano la flessibilità offerta da questo lavoro e la possibilità di coniugare al meglio questa attività con la loro vita privata. Tutti meritano la massima sicurezza mentre sono in strada per le consegne. Questa nuova polizza aumenta le garanzie per i rider in caso d’infortunio, mantenendo il livello di flessibilità che chiedono e dando a tutti loro una copertura in caso di impossibilità di lavorare».