Necessita però di un humus adatto allo sviluppo cerebrale (...)
oggi sono a rischio di sviluppo non ottimale (...) ben 250 milioni di bambini tra 0 e 5 anni, vale a dire quattro su dieci
Repubblica 26.5.18
La ricetta per farli crescere bene: latte naturale, dieta vitaminica, dialogo coi genitori e più asili nido
Infanzia. Le raccomandazioni di Oms e Unicef
Quei primi tre anni che plasmano il cervello
di Giuliano Aluffi
Nei primi tre anni di vita il cervello è un portento: ogni secondo i neuroni formano da 700 a 1000 connessioni, ritmo frenetico che non si verificherà più nel resto della vita. Questa grande velocità di conformazione (fa sì che al terzo anno l’80% del cervello sia già sviluppato) risponde al bisogno del bambino di apprendere il più possibile dall’ambiente che lo circonda.
Necessita però di un humus adatto allo sviluppo cerebrale: una famiglia che gli dedichi attenzioni, gli parli di continuo e gli dia stimoli in quel periodo così cruciale. È lo spirito del documento Le cure per lo sviluppo infantile precoce, presentato a Ginevra da un gruppo internazionale di esperti coordinato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dall’Unicef. Che rispondono a un’emergenza: oggi sono a rischio di sviluppo non ottimale — termine che comprende l’abbandono scolastico e capacità mentali non adeguate all’età — ben 250 milioni di bambini tra 0 e 5 anni, vale a dire quattro su dieci. Il testo dell’Oms sprona governi e società civile a cooperare per assicurare ai bimbi — tramite interventi a sostegno delle famiglie, come un aumento dell’offerta di asili nido di qualità e più licenze di maternità e paternità — la migliore partenza possibile nella gara della vita. Dove, purtroppo, la linea di partenza non è uguale per tutti: all’età di 3 anni, come mostrano gli studi della pediatra americana Dana Suskind, i bambini più poveri hanno infatti sentito in media 30 milioni di parole in meno di quelli nati in famiglie benestanti. Gap iniziale che si traduce in uno svantaggio permanente anche nell’età adulta. «Nei primi anni si creano le basi neuro-biologiche di quelle che saranno le nostre competenze cognitive e affettive», spiega uno dei firmatari del testo Oms, Giorgio Tamburlini, pediatra all’Istituto Burlo Garofolo di Trieste. «Le neuroscienze oggi ci mostrano che i bambini in condizioni disagiate possono avere parti cruciali del cervello, come la corteccia cerebrale e l’ippocampo, più sottili della media di diversi millesimi di millimetro: non è poco, perché il cervello nel suo complesso ha 80-100 miliardi di neuroni, e quindi anche una piccolissima parte in meno corrisponde a milioni di neuroni mancanti.
Uno studio della nutrizionista Susan Walker ha mostrato che se due gruppi di bambini malnutriti di un anno vengono alimentati adeguatamente, ma solo un gruppo ha la fortuna di avere una madre che può giocare e parlare con loro, il recupero fisico e mentale è maggiore per quest’ultimo», osserva Tamburlini. «Non solo: Walker ha rintracciato quei bambini a 20 anni dall’esperimento. Esistevano ancora differenze significative tra i due gruppi: quoziente di intelligenza, vocabolario e comprensione di un testo». La soluzione alle disparità è investire in nutrizione, salute, istruzione e protezione sociale dei bambini tra 0 e 3 anni, perché il ritorno per la società — stimano gli esperti Oms — può arrivare a 13 volte l’investimento iniziale. «Il guadagno nel nutrire le menti giovani è sia per la società — che vede meno abbandono scolastico — che per l’individuo», spiega Tamburlini.
«Studi mostrano che i bambini che hanno avversità nei primi anni di vita finiscono per guadagnare un terzo in meno rispetto ai coetanei». Ciò che può fare la differenza è coinvolgere i genitori in maggiori difficoltà economiche o con un’istruzione carente, con strategie come la “lettura di relazione”: educatori che insegnano a papà e mamme il piacere di leggere una storia ai bebé. Una tra le tante esperienze che si faranno nei dieci “Villaggi per crescere” coordinati da Giorgio Tamburlini, che da giugno a settembre si apriranno in 10 quartieri difficili da Trieste a Siracusa. Come esempio virtuoso del nuovo corso Oms.
La Stampa 26.5.18
La ricerca della felicità
di Mattia Feltri
Uno sconosciuto mi scrive che «la discrezionalità del presidente della Repubblica nella scelta dei ministri è nulla. Punto e basta» (mi ricorda un amico credente che chiudeva le discussioni attorno a Dio dicendo «è ontologico». Cioè: punto e basta). Ma non è soltanto il primo che passa, lo dicono in molti, lo dice anche Giorgia Meloni - focosa custode della Costituzione contro la riforma di Matteo Renzi - allibita dalle «ingerenze» di Sergio Mattarella. Una prerogativa costituzionale diventa ingerenza: punto e basta. E del resto - come scrive Giovanni Orsina nel suo imperdibile «La democrazia del narcisismo» - la democrazia fu il trasferimento della promessa di felicità dall’aldilà all’aldiquà.
Per questo si tagliò la testa a Carlo I e poi a Luigi XVI, per stabilire che la loro autorità non era di origine divina, che ogni uomo non si sarebbe più accontentato di ubbidire al re e a Dio in attesa di una felicità come ricompensa ultraterrena, ma che ogni uomo sarebbe diventato titolare del diritto di essere felice in vita. Questo ha imposto alle democrazie di rilanciare all’infinito, e ormai come giocatori di poker impazziti, con promesse di felicità sempre più mirabolanti e irraggiungibili, ancora più chimeriche della felicità celeste. E di conseguenza, come la crisi della religione porta ognuno a costruirsi un Dio su misura, così la crisi della politica porta ognuno a costruirsi una democrazia su misura, in obbedienza all’unico folle imperativo: ho il diritto di essere felice. Punto e basta.
il manifesto 26.5.18
I giovani irlandesi affollano le urne, gli espatriati tornano per votare Sì
Irlanda. I risultati del referendum previsti per oggi pomeriggio. L'alta affluenza fa sperare i sostenitori del diritto all'aborto
L'Irlanda ieri alle urne per il referendum sull'aborto
di Vincenzo Maccarrone
DUBLINO Si prospetta una buona affluenza al referendum per il diritto all’aborto tenutosi ieri in Irlanda. Nel corso del pomeriggio vari seggi hanno riportato un flusso di votanti maggiore di quanto registrato alle elezioni del 2016 e allo storico referendum del 2015, che introdusse il matrimonio fra persone dello stesso sesso. La conta dei voti inizia alle 9 di oggi, i risultati arriveranno nel pomeriggio.
Dati più definitivi sull’affluenza sono arrivati già ieri notte insieme ai primi exit poll, purtroppo a giornale già chiuso. Diversi analisti hanno notato che un’alta affluenza favorirebbe i sostenitori del diritto all’aborto, poiché implicherebbe un voto significativo della componente giovanile, largamente a favore dell’aborto secondo i sondaggi.
Intanto migliaia di irlandesi di ogni età sono tornati per votare da ogni parte del mondo. Molti di loro hanno condiviso il proprio viaggio su Twitter usando l’hashtag #hometovote (‘a casa per votare’), speranzosi in quello che si prospetta un momento decisivo per i diritti civili per il paese.
Al momento la legislazione sull’aborto in Irlanda è fra le più restrittive al mondo, a causa dell’ottavo emendamento della costituzione che, eguagliando il diritto alla vita della madre a quello del feto, rende l’aborto quasi impossibile. Agli elettori irlandesi è stato chiesto se intendessero abrogare l’ottavo emendamento e sostituirlo con una dicitura costituzionale che lasci il parlamento legiferare sulla questione.
Se dovesse vincere il Sì, il governo del partito conservatore Fine Gael si è impegnato a proporre una legge che permetta l’aborto senza condizione fino a 12 settimane dal concepimento, con deroghe in caso di malformazioni fatali del feto o rischi per la salute della madre.
Corriere 26.5.18
La svolta dell’Irlanda Exit poll: il 68 per cento è favorevole all’aborto
In 3, 3 milioni al voto sul referendum. Oggi i dati
Anche le regioni della camagna hanno votato a favore
di Luigi Ippolito
Londra Una valanga di voti ha seppellito una delle più restrittive legislazioni sull’aborto esistenti in Europa. Due terzi degli irlandesi hanno detto sì al referendum che chiedeva di abolire un bando costituzionale che durava da 35 anni. Secondo le prime proiezioni, il 68 per cento degli elettori si è pronunciato a favore dell’abrogazione dell’Ottavo emendamento, che di fatto equiparava la vita del feto a quella della donna e rendeva impossibile quasi sempre l’interruzione di gravidanza.
La più alta percentuale di sì è stata registrata a Dublino, la capitale, col 77 per cento. Ma anche regioni di campagna, che nel 2015 si erano espresse contro i matrimoni gay, hanno votato a favore dell’aborto. Non si è verificato dunque quel sorpasso dell’ultima ora delle campagne sulle città che aveva fatto temere una smentita dei sondaggi, i quali avevano sempre indicato la vittoria del sì.
Il risultato è stato aiutato anche dall’alta partecipazione al voto, favorita dal bel tempo: segno che la questione era particolarmente sentita in un Paese in cui la Chiesa cattolica ha avuto sempre un peso rilevante. Anche se va detto che la campagna referendaria ha visto la Chiesa in seconda fila, con un dibattito che si è svolto su linee sostanzialmente secolarizzate e ha visto protagoniste le donne, dall’una e dall’altra parte, con le loro storie ed esperienze personali. Ma sicuramente il risultato, combinato con l’introduzione tre anni fa delle nozze omosessuali, segnala un definitivo allentamento della presa della tradizionale morale cattolica sull’opinione pubblica irlandese. Il Paese aveva introdotto il divorzio soltanto nel 1975.
Tutti i partiti si erano espressi a favore della liberalizzazione dell’aborto e il primo ministro Leo Varadkar ieri mattina aveva definito il referendum «una possibilità che si presenta una volta sola per generazione»: e si era detto fiducioso del risultato finale. Lo spoglio ufficiale comincia soltanto oggi e un risultato definitivo è atteso nel pomeriggio: ma gli exit poll della notte erano così netti che anche molti sostenitori del no hanno subito riconosciuto la sconfitta.
La questione dell’aborto era potenzialmente divisiva e si era imposta nell’agenda politica già dal 2012 in seguito al dramma di una giovane donna di origine indiana, che era morta di setticemia dopo che i medici si erano rifiutati di interrompere la gravidanza nel timore di violare la costituzione. E fino a oggi sono migliaia le irlandesi che ogni anno sono state costrette a recarsi in Gran Bretagna per abortire, oppure che hanno fatto ricorso a farmaci acquistati clandestinamente.
Il voto ha visto anche l’arrivo in patria di migliaia di irlandesi dall’estero, che si sono mobilitati online in una campagna volta a spingere al massimo la partecipazione: e la grande maggioranza di loro era schierata per il sì al referendum.
La polemica ha investito anche i social media, quando si è scoperto che gran parte delle pubblicità elettorali online, specialmente quelle contrarie all’aborto, erano finanziate dall’estero.
Il Fatto 26.5.18
Il Vaticano non accetta i gay (ma solo se seminaristi)
Le frasi del Papa e un dibattito finito. Se questa è la strada intrapresa, perché non partire da vescovi e rettori?
di Marco Marzano
Incontrando i membri della Cei in Vaticano, Papa Francesco ha fatto un’affermazione importante: evitate, ha detto il papa ai vescovi italiani, di fare entrare gay in seminario e allontanate gli studenti sulla cui identità sessuale nutriate anche il minimo dubbio.
Il papa ha così ribadito, anche su questo punto in perfetta continuità con i suoi predecessori, la cattolica tolleranza zero verso i gay, l’esclusione assoluta degli omosessuali dalla vita della Chiesa. Se si tratta di semplici fedeli, essi, pur presentando, come recita il Catechismo, “un’inclinazione oggettivamente disordinata”, possono essere accolti con misericordia, ma solo a patto che rinuncino a ogni forma di vita sessuale e si mantengano casti e puri. Nel caso di coloro che tra costoro aspirino invece a diventare sacerdoti, ha ricordato il papa, la sola inclinazione deve divenire causa di immediata esclusione.
Le parole di Francesco ci comprovano che il papa è a conoscenza dell’esistenza e delle dimensioni del “problema”, come lui lo ha definito. Dopo esserci occupati del clero pedofilo, ha dichiarato il papa accostando i due fenomeni, dovremo occuparci anche di quello omosessuale. La premessa da cui è partito il papa è corretta: i seminari sono strapieni di gay, così come poi di conseguenza lo sono le case parrocchiali, i monasteri e le altre strutture cattoliche. Alcuni seminaristi e preti omosessuali si astengono dall’avere una vita sessuale attiva, molti altri no.
Dalla letteratura scientifica internazionale giungono delle interessanti conferme di questo dato. Uno dei più autorevoli studiosi della vita sessuale del clero, Richard Sipe, ha sostenuto, analizzando un campione di grandi dimensioni, che circa il 30 per cento del clero americano è omosessuale e che un terzo di questo 20 per cento ha una vita affettiva e sessuale attiva, talvolta accompagnata da un grave senso di colpa. A parere di altri studiosi, il dato fornito da Sipe è da correggere: secondo Nines, più del 40 per cento del clero è omosessuale, mentre secondo Cozzens la stima va corretta verso l’alto e i preti gay sono tra il 45 e il 50 per cento del totale. L’esistenza di una vera e propria subcultura gay nei seminari è confermata (talvolta con fastidio dai chi ne è escluso) dai risultati di altre ricerche sociologiche.
Al di là di quali siano le sue dimensioni reali, io credo che, se vogliono davvero mettere al bando l’omosessualità tra i funzionari dell’organizzazione, il papa e i vescovi debbano assumere alcune decisioni potenzialmente assai dolorose. Ad esempio, il papa dovrebbe iniziare con l’allontanare dalla Chiesa i vescovi “anche solo sospettati” (per usare il suo linguaggio) di essere omosessuali.
La stessa durezza andrebbe usata da parte dei vescovi nei confronti del clero loro sottoposto e soprattutto nei confronti di rettori, prefetti e insegnanti incaricati di formare i futuri preti. Con quale credibilità un rettore di seminario omosessuale può espellere un seminarista gay? E cosa succede, quale dinamica psicologica si instaura, se un prete gay diventa il padre spirituale di un seminarista altrettanto omosessuale? In secondo luogo, bisognerebbe che la Chiesa potenziasse i suoi strumenti inquisitori per scovare, anche rafforzando il ricorso a psicologi professionisti, la presenza di gay tra gli studenti dei seminari. Una rigorosa attività inquisitoria è necessaria perché i seminari sono affollati da ragazzi che non sono consapevoli o che non accettano la loro “inclinazione” verso persone dello stesso sesso e che vanno in seminario proprio per non porsi il problema della loro sessualità, per rimuoverlo. Inoltre, per rimediare al fatto che l’espulsione dei gay determinerebbe un vero e proprio crollo nelle vocazioni, e tenuto conto che la Chiesa europea è già, da questo punto di vista, in una situazione difficilissima, occorrerà incoraggiare fortemente l’importazione di funzionari provenienti da quei territori (ad esempio, l’Africa) dove c’è grande abbondanza di clero. Infine andrebbe probabilmente scoraggiato il ricorso a un abbigliamento troppo tradizionale, fatto di lunghe sottane, pizzi e svolazzi vari, dietro il quale spesso si cela un’omosessualità più o meno repressa.
Fatto un sommario elenco di cose che la Chiesa dovrebbe fare se volesse combattere la presenza dei gay al suo interno, rimane da dare un modesto consiglio ai gay cattolici. Esso è presto dato: perché ostinarsi a sperare che venga qualche apertura da un’organizzazione irriducibilmente nemica della libertà e della diversità sessuale? Perché non scegliere un altro luogo, e ce ne sono (penso ad esempio, alla chiesa valdese), dove trascorrere serenamente la propria esistenza di cristiani e di omosessuali, venendo accettati e considerati esseri umani perfettamente uguali a tutti gli altri?
il manifesto 26.5.18
Mosca avverte anche Bruxelles: «Il nostro primo partner economico è ormai la Cina»
Macron e Putin: dialogo sulla Siria, uniti sull’ Iran
Incontro a San Pietroburgo
di Yurii Colombo
MOSCA Che il clima dell’incontro tra Putin e Macron, nell’ormai tradizionale cornice del Forum economico di San Pietroburgo, sarebbe stato sereno, lo si è capito ieri quando il presidente francese ha risposto a una domanda dei giornalisti sull’affaire del Boeing malese abbattuto in Ucraina 4 anni fa. Macron ha evitato toni propagandistici sottolineando piuttosto «la disponibilità russa a collaborare alla ricerca della verità». Disponibilità confermata anche da Putin che però ha negato ancora una volta la responsabilità dell’esercito russo per quanto avvenne nei cieli del Donbass.
I DUE LEADER, già dal loro primo incontro parigino di un anno fa usano anche un colloquiale «tu» negli incontri ufficiali, ma questo non significa che non ci siano motivi di contesa. Anzi. A cominciare dalla questione ucraina. Macron in pubblico ha ripetuto il refrain dell’importanza degli accordi di Minsk, ma in privato ha sostenuto che una soluzione per il Donbass non si troverà finché Mosca non rivedrà la sua posizione sullo status della Crimea. Proposta irricevibile per Putin che punta, alla lunga, a un riconoscimento de facto dell’unificazione della penisola alla Russia.
Il presidente russo resta pessimista, per il momento, anche sulla questione del Donbass. «Sono convinto che l’attuale governo di Kiev non voglia trovare una soluzione: pesano fattori di politica interna visto che l’Ucraina si sta preparando alle elezioni parlamentari e presidenziali del 2019».
PROVE DI DIALOGO invece sulla Siria. Macron ha sostenuto l’idea di un dialogo tra i rappresentanti delle attuali autorità siriane, con la partecipazione del gruppo di Astana, nonché delle «forze ribelli dell’opposizione democratica» e «tutte le potenze regionali interessate alla stabilità». «Stiamo cercando di sviluppare un approccio inclusivo che permetta di raggiungere la stabilità nella regione», ha ripetuto Macron. Putin ha invitato, da parte sua, a «depoliticizzare» la questione siriana. «Gli europei possono partecipare con i loro capitali alla ricostruzione del Paese – ha ribadito il capo del Cremlino – favorendo così anche il rientro dei profughi dall’Europa».
Accordo pieno invece sull’Iran: secondo entrambi l’accordo sulle armi atomiche non può essere cancellato. Macron ha confermato l’impegno francese e dei Paesi europei a preservare l’accordo. Per il leader francese, è già stato anche avviato un dialogo con il presidente iraniano Hassan Rouhani su questi punti. Poi da consumato politico si è permesso di strizzare l’occhio al pubblico del Forum, ricevendo in cambio un applauso convinto: «Rompere l’accordo unilateralmente dopo che era stato preparato dieci anni non è un approccio serio» ha detto.
«LA RUSSIA sta facendo di tutto per presentarsi come un partner serio» commentava ieri il Financial Times, a bilancio della serie di incontri avuti da Putin nelle ultime settimane tra Soci e San Pietroburgo (al Forum era presente anche il premier giapponese Abe con cui Putin ha firmato contratti per un miliardo di dollari). Nei colloqui franco-russi non poteva certo mancare un capitolo dedicato ai rapporti economici tra i due paesi. Putin si è lamentato degli scarsi investimenti francesi nel suo Paese: «Una sola società energetica finlandese, la Fortum, ha investito 6 miliardi di euro Russia e l’intera Francia ne investe 15. È normale?» Putin ha chiesto retoricamente al suo omologo francese.
HA POI FATTO APPELLO all’intera Ue perché torni in forze sul mercato russo prima che il suo Paese si rivolga sempre di più verso il partner cinese. «Non è più la Germania, ma ormai da tempo la Cina, il nostro primo partner commerciale. L’interscambio con la Cina è di quasi 85 miliardi e raggiungeremo sicuramente i 100. L’interscambio con l’Unione Europea era di 450 miliardi di dollari e si è ridotto della metà, mentre quello Cina sta crescendo costantemente» ha avvertito il presidente russo.
Il Fatto 26.5.18
Non è democrazia, È bonapartismo
di Eugenio Ripepe
ordinario di Filosofia della Politica all'Università di Pisa
più volte preside della facoltà di Giurisprudenza, direttore del dipartimento di Diritto pubblico e direttore del Centro interdipartimentale di Bioetica
Avete presente la scena di Amleto che indica una nuvola dicendo che somiglia a un cammello e trova d’accordo Polonio? Poi il pallido prence dice che la nuvola somiglia invece a una donnola, e l’altro gli dà ragione, e così pure quando dice che sembra una balena. Ecco, non avrà per caso Shakespeare voluto parodiare con profetica preveggenza i rapporti tra leader e aderenti a un partito, forse non solo in Italia e forse non solo oggi, ma certamente nell’Italia d’oggi? Con la differenza che Polonio si adegua alle cangianti opinioni del suo interlocutore perché pensa che sia pazzo, mentre nei nostri partiti ci si adegua alle cangianti opinioni del leader perché si pensa, o si finge di pensare, che sia un genio.
Il risultato è una dialettica tra base e vertice che ricorda quella tra sergente e truppa in marcia: Avanti march… Destr riga… Sinistr riga… Dietro front… Una (non) dialettica a senso unico, se la scelta della via da percorrere spetta sempre e solo al capo del partito, mentre tutti gli altri sono chiamati tutt’al più a ratificare con plebisciti organizzati ad hoc scelte calate dall’alto. Magari non è solo fumo negli occhi, ma non chiamiamo democrazia quello che si chiama bonapartismo: un bonapartismo senza Napoleone, ma non senza qualcuno che crede di essere Napoleone, o magari il Re Sole, convinto che il partito sia lui. A riprova di questo, un dettaglio rivelatore –perché il buon Dio, come si sa, è nei dettagli; e il diavolo pure − è la… singolare prima persona singolare adoperata dai leader quando parlano a nome e per conto del proprio partito. D’altra parte, è comprensibile che un leader si senta ronzare continuamente nelle orecchie il “Sei tutti noi” dei suoi devoti. No, bisognerebbe però dire a costoro, nessuno può essere tutti voi. A maggior ragione se quando parla anche a nome vostro non dice “noi” ma “io”, quasi che riconoscendovi aprioristicamente in lui vi foste completamente annullati in lui. Persa la bussola dell’ideologia, troppo spesso rivelatasi uno strumento che porta a sbattere sugli scogli, i partiti e i loro succedanei, hanno pensato bene di affidarsi a qualche presunto grand’uomo per farsi guidare da lui come meglio crede. Conseguenza? Un paese di sessanta milioni di abitanti in mano a quattro persone, costretto a trattenere il respiro in trepida (e non poco avvilente) attesa di sapere se e cosa di volta in volta quelle persone hanno deciso, generalmente a due a due. E che persone, del resto. Un pregiudicato spregiudicato, a dir le cui virtù – a parte qualche milione di altre cose – basta il sorriso stampato sulla sua faccia in similbronzo quando auspica che le sorti di uno stato siano affidate a lui che, come risulta per tabulas, lo ha frodato in modo ignobile: sarà che condivide le considerazioni che furono alla base della nomina di un ladro e truffatore come Vidocq a capo della polizia. Poi un ossimoro vivente (non è una parolaccia, eh) che si è sistemato pour la vie come politico professionista dell’antipolitica, continuando a tuonare contro i professionisti della politica. E un altro ossimoro vivente, capo politico di un partito a democrazia diretta, che ti mette davanti a una alternativa secca: o lui ne è davvero il capo, e la democrazia diretta di quel partito è un fandonia; o il suo è davvero un partito a democrazia diretta, ed è una fandonia che lui ne sia il capo. Infine, un caro leader che vive di rendita sul mito fondativo della sua superiore statura politica costituito da una vittoria alle Europee del 2014, che se una cosa dimostra, alla luce delle tante sconfitte che l’hanno seguita, è che all’apertura di credito ottenuta dagli elettori tre mesi dopo la presa di potere, quando ancora lo conoscevano poco, è subentrata una crescente mancanza di fiducia via via che hanno avuto modo di conoscerlo meglio. Quanto ai militanti di partito al seguito di questi leader, l’impressione è che la loro educazione politica sia stata ispirata a una frase di don Milani lievemente modificata: da “l’obbedienza non è più una virtù” a “l’obbedienza è l’unica virtù”, avendo come canone fondamentale il detto evangelico “sia il vostro parlare sì, sì; no, no”, anch’esso però lievemente modificato – amputandolo delle ultime due parole – in “sia il vostro parlare: sì, sì”. Non che tutti i militanti acriticamente proni alle decisioni dei capi-partito lo siano però per conformismo e spirito gregario. Ce ne sono diversi che attribuiscono doti sovrumane e poteri miracolosi al loro leader a giusta ragione, e cioè per averne avuto una dimostrazione empirica quando, da mezze calzette che erano, si sono visti trasformare da lui in ministri, deputati, presidenti o direttori di qualcosa. E senza nemmeno bisogno che li baciasse: altro che le principesse che tramutavano i rospi in principi azzurri! Insomma, d’accordo: sebbene non possa essere considerata il meglio del meglio, la democrazia è pur sempre quello che c’è di meno peggio. Ma anche questa democrazia? E non avremo altra democrazia al di fuori di questa?
Il Fatto 26.5.18
All’improvviso tutti scoprono la Costituzione
di Andrea Pertici
ordinario di diritto costituzionale a Pisa
La lunga fase di formazione di questo governo ha avuto un merito: la riscoperta della Costituzione anche da parte di coloro che da anni la trattano con grande disinvoltura, cercando di modificarla piuttosto che di rispettarla. L’attenzione si è fatta particolarmente forte quando il M5S ha avviato un confronto politico con la Lega, producendo il testo di un accordo di governo, di prassi in Germania, ma che in Italia ha destato reazioni che vanno dallo scandalo all’irrisione, fino a un’infondata preoccupazione per le procedure costituzionali.
Questa rinnovata attenzione per la Costituzione consiglia di stare al testo dell’art. 92, secondo cui “Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”. Ora, non è una novità che i partiti politici che intendono sostenere il governo avanzino richieste di ministeri per loro esponenti o per personalità d’area. Questo accade da sempre in Italia come altrove. Naturalmente, è vero che queste richieste debbono essere formulate in modo da risultare rispettose dei ruoli istituzionali riservati al presidente della Repubblica e al presidente del Consiglio, ma ciò non toglie che, ove un partito si ritenesse eccessivamente deluso rispetto alle proprie richieste, probabilmente non voterebbe la fiducia, come fece, ad esempio, il Pri rispetto al settimo governo Andreotti. Mentre in quel caso, però, l’appoggio non era determinante, per il nascituro governo Conte, quello di ciascuno dei due soli partiti che compongono la maggioranza lo è.
La questione di cui però più si discute da alcune ore è se il presidente della Repubblica possa bloccare la nomina di uno o più ministri. In merito, il già ricordato art. 92 è – come spesso accade – sintetico, lasciando aperti i margini per una sua applicazione che risente anche degli equilibri politici che vengono a determinarsi. È chiaro però che la nomina spetta al presidente della Repubblica, come lo è altrettanto che il medesimo non può procedere autonomamente, ma solo su impulso del presidente del Consiglio che avanza la proposta.
Per comprendere cosa possa eccepire il presidente della Repubblica rispetto alla proposta del presidente del Consiglio dobbiamo fare riferimento al suo ruolo, che – come noto – è di garanzia ed estraneo alla determinazione dell’indirizzo politico. Quindi, egli, ad esempio, non solo potrebbe, ma addirittura dovrebbe, respingere proposte di persone prive dei requisiti (ad esempio interdette dai pubblici uffici) e certamente potrebbe – come si dice abbia fatto – non accogliere proposte fortemente discutibili sul piano dell’opportunità, come la nomina del proprio difensore di fiducia a ministro della Giustizia.
Viceversa, in considerazione del suo ruolo non politico, il presidente non può respingere una proposta perché le idee politiche del ministro indicato non gli piacciono, a meno che queste non finiscano per incidere sullo stesso assetto costituzionale della Repubblica, a partire dai suoi principi fondamentali, di cui il presidente è garante. Infatti, il suo ruolo, prima di risultare dalla individuazione dei singoli poteri, è raccolto nell’art. 87, comma 1, della Costituzione in base al quale egli è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale.
Certamente questi confini non sempre risulteranno tracciati in modo netto, ma soprattutto in una situazione delicata come quella relativa alla formazione di un governo che unisce forze politiche distanti tra loro, il presidente della Repubblica e quello del Consiglio saranno prudenti nel reciproco riconoscimento degli spazi che il ruolo, più ancora che la lettera della Costituzione, assegna loro. Altrettanto prudentemente, e con discrezione anche maggiore, però, devono muoversi le forze politiche di maggioranza; altrimenti il risultato più probabile è quello portare nell’immediato al fallimento della formazione dell’esecutivo.
il manifesto 26.5.18
La critica all’Europa, non solo ombre nel contratto Lega-M5S
L'intervento. L’allarme rosso generalizzato su Savona è il segnale che si è toccato un nodo decisivo. Si mette in discussione l’assetto dell’eurozona e i danni causati alla democrazia
di Geminello Preterossi
ordinario di Filosofia del diritto e di Storia delle dottrine politiche all’Università di Salerno
Per inciso, dire ciò non significa negare che di politiche serie per la sicurezza e la legalità ci sia bisogno, così come che sia necessaria una gestione politica della questione dell’immigrazione, che non va da sé, e implica soprattutto politiche sociali di sostegno, inserimento e integrazione, per disinnescare la bomba sociale delle periferie-ghetto e delle guerre tra poveri.
Ancora: un intervento sulle tasse è certamente giusto e augurabile per quello che riguarda i salari medio-bassi, ma la proposta del “contratto” premia i redditi alti, rovesciando un principio fondamentale, quello della progressività, fissato nella Costituzione (di cui giustamente si vuole affermare il primato, anche sui trattati europei, ma evidentemente non su questo punto).
Così come si potrebbe proseguire nello specifico indicando omissioni (una su tutte, la reintroduzione dell’articolo 18), qualche genericità, e alcune proposte condivisibili come quella sull’acqua pubblica.
Ma ci sono due punti, nell’accordo di governo che si profila, che sono da considerarsi dirimenti, e in senso positivo: la messa in discussione per davvero del vincolo esterno (e nella prima bozza, che tanto scandalo ha suscitato, la cosa era detta in maniera ancora più chiara e netta); un intervento significativo sulla nuova questione sociale, contro disoccupazione e impoverimento, sul cui profilo complessivo si può discutere, ma che acquisisce un’indubbia valenza materiale e simbolica, attraverso l’introduzione del reddito di cittadinanza
, investimenti pubblici “keynesiani” e la correzione della legge Fornero (legge che – lo vogliamo dire? – è stato un atto di violenza tecnocratica, oltre che di imperizia, considerando il disastro-esodati; poiché è un cavallo di battaglia di Salvini, dobbiamo far finta di niente e dire che va bene com’è?).
Mi colpisce molto, ma è assai rivelatore dei poteri antidemocratici che si sono messi in moto e della loro presa sul sistema mediatico, che ci si scandalizzi per l’eventuale nomina di Paolo Savona a ministro dell’Economia. Forse questo allarme rosso generalizzato è il segnale che si è toccato un nodo decisivo, dopo anni di cloroformio.
In realtà, ciò che dovrebbe far riflettere è che certe verità fuori dal coro sull’eurozona, fondamentali per il futuro economico e sociale del nostro Paese, le dica con chiarezza un liberaldemocratico come Savona, dal pensiero autonomo, e non la sinistra (a parte alcuni grilli parlanti, che da tempo hanno cercato, inascoltati, di richiamare l’attenzione dei passeggeri del Titanic).
Non sarà dovuto, questo naufragio della sinistra, anche alla sua adesione cieca all’euro? E non è stato velleitario e irrealista limitarsi a vagheggiare un’altra Europa, senza porsi realisticamente il problema dei rapporti di forza, senza ragionare su un’alternativa, qualora la Germania, come credo, non accetti quell’unione politica della solidarietà – cioè dei trasferimenti interni, della condivisione del rischio-debito, degli eurobond – che sarebbe necessaria per sostenere l’impalcatura dell’euro senza costi sociali e democratici? Davvero l’idea di avere un “piano B” (come peraltro ha sostenuto anche Mélenchon) è così sbagliata? Eppure l’esperienza di Tsipras dovrebbe aver insegnato qualcosa anche a noi.
Le elezioni politiche italiane hanno confermato che la stabilizzazione (temporanea e più apparente che reale) dell’eurozona produce la destabilizzazione dei sistemi politici tradizionali: è il prezzo inevitabile delle politiche antisociali che la difesa fideistica dell’euro ha imposto e che le forze di sistema hanno assunto come un dogma.
Guarda caso, negli ultimi tempi è tutto un profluvio di saggi “contro la democrazia”, i cui autori sono campioni dell’establishment neoliberale occidentale. Non sarà invece il caso di capire che certe parole d’ordine – sovranità popolare, sovranità dello Stato, critica del globalismo, difesa dei ceti popolari contro élites fallimentari e ciniche – debbono essere non rigettate, ma recuperate in chiave “costituzionale”? Certo, è un’operazione complessa, perché arriviamo tardi, e perché di quelle parole d’ordine si è appropriata, distorcendole, la destra. Ma riuscire a fare operazione culturali complesse, coraggiose e non equivoche, è la cifra della grande politica, quella che riesce ad aver presa sulla realtà.
Oggi la partita si gioca nel campo populista. Fuori c’è la spoliticizzazione (quella dell’elitismo tecnocratico e dell’europeismo di maniera, scollegato dalla realtà). L’obiettivo che abbiamo davanti (immane) dovrebbe essere, a mio avviso, quello di usare tatticamente un nuovo “populismo di sinistra” per rilanciare il conflitto sociale e una lotta egemonica.
Per fare questo, però, non serve demonizzare, ma distinguere. E soprattutto riconoscere coraggiosamente l’obiettivo rilievo sociale e politico di certe proposte (come quella del reddito di cittadinanza e del recupero di sovranità democratica contro l’
Il Fatto 26.5.18
Dopo Camusso, scontro per evitare la corsa a tre
Vertice della Cgil - La segretaria, ora alleata di Landini, accusata da Colla, l’uomo del dialogo col Pd
di Salvatore Cannavò
La Cgil torna a dividersi alla vigilia del suo congresso nazionale. Oggetto dello scontro, la designazione del nuovo segretario generale dopo che Susanna Camusso esaurirà il suo mandato di otto anni. La divisione, però, non è più quella tradizionale tra la segretaria nazionale e la Fiom di Maurizio Landini.
Stavolta nella parte dell’oppositore c’è Vincenzo Colla, 56enne piacentino con una carriera interna al sindacato di cui è stato, dal 2010 segretario generale della nevralgica Emilia (856 mila iscritti nel 2017). Colla, sconosciuto ai più, ma con un peso nella Cgil, è entrato in segreteria nel 2016 e, secondo il chiacchiericcio interno rappresenta l’ala del sindacato che guarda ancora al rapporto con il Pd, e con un approccio di vecchio stampo concertativo. La sua candidatura alla segreteria è sul tavolo da mesi, ma è osteggiata sia da Camusso che da Maurizio Landini, anch’egli in predicato di correre per la carica più alta e al momento con un profilo più coperto.
Per sbloccare una situazione che rischia di determinare tre candidature – Camusso infatti avrebbe gradito la segretaria della Funzione pubblica, Serena Sorrentino – la segreteria nazionale ha deciso una prassi inusuale: “L’ascolto informale” dei segretari di categoria, regionali e delle Camere del lavoro. Una consultazione a tappeto comunicata, con una lettera della stessa Camusso ai destinatari il 24 maggio.
In quella lettera il segretario generale informa i consultati che la segreteria avanzerà una serie di criteri per scegliere il leader del sindacato. Proposta che “è stata condivisa da 7 su 9 compagne e compagni della Segreteria”. Un modo per mettere tutti a conoscenza della spaccatura e cercare di costruire una soluzione unitaria facendo fare un passo indietro a Colla.
Il quale, però, non arretra. A stretto giro, infatti, arriva la sua lettera, siglata insieme all’altro membro “dissidente” della segreteria, Roberto Ghiselli, con cui definisce l’iniziativa di Camusso “del tutto inopportuna”, che evidenzia “una divisione interna alla segreteria, forzando e drammatizzando una discussione” che Colla avrebbe voluto tutta interna agli organismi dirigenti: direttivo nazionale o Assemblea generale che, da Statuto, eleggerà il futuro segretario. “Chi ha la massima responsabilità nell’Organizzazione deve cercare di rappresentare un punto di equilibrio”, scrive polemicamente il dirigente emiliano.
Lo scontro è soprattutto sui criteri che dovranno individuare il profilo del prossimo segretario. La segreteria punta a una forte innovazione, a una figura che sappia fare contrattazione, autonoma dalla politica, rappresentativa di quanto di meglio la Cgil ha fatto negli ultimi anni. Colla ritiene che questi criteri “suggeriscono implicitamente delle risposte e inducono a escludere in partenza alcune opzioni”.
Si potrebbe intravedere in quei criteri la figura dello stesso Landini, se il suo patto con Camusso si è spinto fino a tanto, o una figura di maggiore innovazione generazionale. Mentre Colla rappresenterebbe la continuità dell’apparato organizzativo più tradizionale.
Il punto è che, salvo gli alternativi dell’area “Il sindacato è un’altra cosa”, al congresso la Cgil arriva con una forte unità attorno al documento “Il lavoro è” che verrà approvato martedì dal direttivo. Ma sulla discussione politica, unitaria, aleggia quella, di scontro, sulle cariche. Discussione che rischia di rovinare la festa al primo sindacato italiano, una delle realtà della sinistra storica rimaste ancora in piedi.
Il Fatto 26.5.18
De Magistris si fa partito, a sinistra e contro la Lega
Il primo cittadino di Napoli lancia “Dema”. Già pronti a correre per le prossime Europee e le Regionali
di Alessandro Mantovani
Non c’è ancora il governo ma il cosiddetto “contratto” M5S-Lega basta e avanza a Luigi De Magistris per candidarsi a leader dell’opposizione: “Rassegnatevi, vi verremo a prendere. E dico grazie a Di Maio e a Salvini perché senza di loro forse la nascita di questo progetto avrebbe ritardato un po’”. Così il sindaco di Napoli, ieri sera, ha chiuso la giornata del dibattito all’assemblea congressuale del suo movimento, Dema (Democrazia e autonomia). Un’assemblea che più movimentista non si può, in una sala del cinema Modernissimo, nel centro di Napoli, mentre al piano di sopra c’era chi andava a vedere “Dogman”.
Almeno 60 interventi dal mattino alla sera, nessun imbarazzo a chiamarsi “compagne” e “compagni” e gli assessori in giacca e cravatta che si alternavano al microfono con i ragazzi – si fa per dire – dei centri sociali, l’ex giudice costituzionale Paolo Maddalena che è stato il primo ad abbracciare “Giggino ’o sindaco” appena sceso dal palco, i leader di Potere al Popolo, l’eurodeputato della Sinistra unita Curzio Maltese, Anna Falcone senza Tomaso Montanari, il sindaco di Messina Renato Accorinti e quelli di Latina e Cerveteri anche in rappresentanza del parmense Federico Pizzarotti, Enric Bacenà di “Barcelona en Comù” che è l’organizzazione della sindaca Ada Colau e ambasciatori ed emissari della sinistra italiana dispersa o ridotta ai minimi termini, venuti a farsi due conti per capire dove può arrivare De Magistris. Pure un videomessaggio di Laura Boldrini, ex presidente della Camera. Quasi nessuno degli ospiti aderisce a Dema, che apre il suo percorso congressuale destinato a concludersi in autunno. “Una fase costituente”, dice il sindaco ex pm. Dal Modernissimo inizia però la prima fase di un confronto che De Magistris vorrebbe traghettare in una nuova forza politica, magari chiamata Demos, popolo, guardando fin da ora alle Europee dell’anno prossimo e alle Regionali campane del 2020.
Obiettivo del sindaco di Napoli è costruire “un’alternativa – dice – al governo più di destra della storia repubblicana e alla finta opposizione di Renzi e Berlusconi”, il governo giallo-verde che qualcuno al Modernissimo chiamava “giallo-nero”. Toni durissimi contro i 5stelle “che hanno vinto al Sud per allearsi con la Lega”. E soprattutto contro la Lega: “Ricordiamo cosa diceva Salvini dei meridionali – arringa De Magistris dal palco –, parlava di ruspe contro gli immigrati, governa nelle Regioni con Berlusconi e con persone legate alla mafia, dialogava con CasaPound”. Poi per carità, ci mancherebbe, il sindaco della terza metropoli italiana è naturalmente pronto a “cooperare con il premier Conte se avrà la fiducia in Parlamento ma il nostro – ribadisce – è un progetto alternativo”. E un punto fermo lo mette sul debito di Napoli, oggetto di scontri nei mesi scorsi con il governo di Paolo Gentiloni: “Non firmerò mai il dissesto di Napoli, sono disposto a firmare una delibera che cancella il debito e anche ad andare in galera: mi porterete delle arance, portatemele buone”.
De Magistris rivendica i suoi sette anni alla guida di una città tra le più complicate d’Europa e del mondo: “Siamo una realtà italiana che resiste, che non ha ceduto al compromesso morale, non ha privatizzato i servizi di rilevanza costituzionale e ha rotto il rapporto tra politica e camorra”. Il sindaco ex pm vuol coniugare la “rivoluzione come rottura del sistema” e “l’affidabilità di governo”. Nel contenitore che immagina non troveranno posto “tutti quelli che non stanno a destra”, ma “militanti, amministratori, associazioni, comitati, persone che con la propria storia hanno dimostrato di non cedere mai al compromesso morale, di essere credibili, coerenti, di voler fare la rivoluzione che non è una suonata di violino al Teatro San Carlo”. Uno dei suoi commenta: “Nella sinistra sono rimaste organizzazioni senza leader, noi non abbiamo l’organizzazione ma il leader sì”. Chissà se basterà.
Oggi, intanto, Dema elegge il suo coordinamento e il segretario che sarà Enrico Panini, reggiano, ex sindacalista della Cgil Scuola, voluto a Napoli da De Magistris per il delicato assessorato al Bilancio, al Lavoro e alle Attività economiche. Poi per i mille iscritti dichiarati inizierà il congresso, a tesi, destinato a chiudersi dopo l’estate.
il manifesto 26.5.18
«Spieghiamo ai migranti i rischi del viaggio»
di Luca Tancredi Barone
BARCELLONA La ong catalana ProActiva Open Arms ha lanciato nel porto di Badalona, a nord di Barcellona, una nuova iniziativa umanitaria. Nata dall’indignazione davanti al corpo senza vita del piccolo profugo Aylan Kurdi nel 2016 e guidata dal bagnino Oscar Camps, la ong era saltata agli onori delle cronache italiane in marzo, per il sequestro della sua nave nel porto di Pozzallo e per l’accusa di associazione a delinquere. Un’accusa indignante per difenderli dalla quale si era spesa anche la sindaca di Barcellona Ada Colau. Nelle settimane successive sono state revocate sia le accuse, sia il sequestro.
Ieri Camps, accompagnato da Ousman Oumar, giovane ghanese fondatore di Nasco Feeding Minds, l’associazione partner della nuova iniziativa, ha presentato il progetto: informare i futuri migranti dei moltissimi pericoli che li aspettano se decidono di iniziare il difficile viaggio per l’Europa. «Noi salviamo vite – ha spiegato – finora l’abbiamo fatto in mare. E continueremo a farlo. Ma c’è un altro modo per farlo: a terra. Cercando di spiegare a chi vuole lasciare il proprio paese che le mafie li stanno ingannando: il viaggio non è idillico, non sono un tour operator che ti portano in Europa e ti trovano lavoro». Ricordando che sono moltissimi i migranti che muoiono nel tragitto, nel deserto o nel mare, soffrendo abusi, sequestri, torture, schiavitù, carcere, furti, Camps ha detto che «abbiamo il dovere di smitizzare la realtà che viene loro raccontata. La maggior parte della gente non inizierebbe questo viaggio se sapesse cosa la aspetta».
E nessuno lo sa meglio di Oumar. Condannato a morte dalla sua tribù alla nascita perché la madre morì di parto, e salvato dal fatto che il padre era sciamano e non permise che lo uccidessero, lasciò il Ghana a soli 13 anni in condizioni difficilissime, senza neppure sapere cos’era un passaporto. Arrivò in Spagna nel 2005, a 17 anni, dopo aver passato quasi 4 anni in carceri libiche, algerine, malesi, aver perso amici e compagni di viaggio, fra sofferenze di cui nasconde i dettagli, riesce a raggiungere dopo vari tentativi Fuerteventura, Isole Canarie, in un barcone. Da lì solita trafila: rinchiuso in un Cie, riesce a convincere le autorità di essere ancora minorenne. Per questo può rimanere. Gli chiedono dove vuole andare: a Barcellona, di cui conosce il nome per la squadra di calcio, dove dorme per strada e vive di espedienti. Fino al giorno in cui una signora lo prende e lo porta a casa.
Da lì inizia una nuova vita. Ousman studia con voracità in pochi anni tutto quello che non aveva potuto studiare, impara spagnolo e catalano e decide di fondare una ong per placare la sua coscienza di sopravvissuto e dare un senso alla domanda che lo persegue: perché mi sono salvato? «Sono cosciente di aver vinto una lotteria. Per questo è mio dovere far capire ai ghanesi che è una follia intraprendere il viaggio». Nasco Feeding Minds dal 2012 costruisce scuole e installa computer nelle aule ghanesi. Il nuovo progetto con Proactiva Open Arms li ha già portati a incontrare 1500 giovani.
«Non siamo a conoscenza di nessuna altra iniziativa del genere», ha spiegato Camps. «Sappiamo che è una goccia nel mare. Ma ce lo dicevano anche quando siamo andati a Lesbo e poi nel Mediterraneo. In 30 mesi in mare, abbiamo salvato 60mila vite».
«Quando dopo il nostro racconto sono venuti a parlarmi persone che stavano per cadere nella trappola, mi sono sentito davvero orgoglioso», ha spiegato Oumar, che non si sente un attivista «ma solo un imprenditore sociale, che fornisce i mezzi per dare risposta a un problema che ho vissuto sulla mia pelle». L’intenzione di Camps e Oumar è estendere il progetto a Nigeria, Guinea equatoriale, Costa d’Avorio e Cameron. «Siamo piccoli ma decisi, e sappiamo che il lavoro da fare ora è andare nelle terre d’origine», ha detto Camps. Secondo i dati forniti da Camps, nel 2017, nel Mediterraneo sono state salvate 120mila persone, di cui 15mila minori non accompagnati. Nel 2018, sono entrate 10mila persone in Italia, altrettante in Grecia e 9200 in Spagna. E siamo solo a maggio.
Repubblica 26.5.18
Andrea Camilleri “Ora sono cieco e tutto mi è chiaro”
“Ho scritto un testo su Tiresia e lo porto in scena dando voce all’eroe omerico non vedente
Il mio è un ritorno al teatro e anche il nuovo Montalbano ha un’ambientazione teatrale”
“Conversazione su Tiresia” di e con Andrea Camilleri, regia di Roberto Andò, va in scena l’11 giugno al Festival del teatro greco di Siracusa. Di Camilleri esce inoltre “Il metodo Catalanotti”.
intervista di Raffaella De Santis
«Chiamatemi Tiresia».
Andrea Camilleri a 92 anni non ha paura di rimettersi in gioco. «È una sfida», dice.
Generoso, coraggioso, ironico, lo scrittore salirà sul palco del teatro greco di Siracusa e sarà Tiresia, l’indovino tebano cieco che compare già nell’Odissea per indicare a Ulisse la via del ritorno.
«Da un po’ di tempo non vedo più niente, diciamo che ho scelto Tiresia per affinità elettiva».
Sembra una maledizione dei grandi raccontatori di storie. Da Omero a Borges condannati a cavare fuori le parole dal buio.
Camilleri è un narratore totale, non c’è spunto che in lui non si trasformi in una storia. Anche al telefono non resiste, ogni stimolo è l’occasione di un aneddoto, la molla per un ricordo. Inevitabile che perfino la sua cecità diventasse materia letteraria. L’11 giugno, invitato dall’Inda, l’Istituto nazionale del dramma antico, Camilleri darà voce a Tiresia di fronte a 13 mila spettatori: «A novantadue anni si è un po’ vecchietti. Avevo voglia di vedere se ancora ce la facevo».
Conversazione su Tiresia è un’opera drammaturgica scritta da Camilleri e da lui interpretata.
La regia è di Roberto Andò. È un viaggio nelle metamorfosi letterarie, poetiche e filosofiche del mito attraverso le epoche affidato alla voce pastosa e pacata dello scrittore.
È il ritorno al teatro, un suo antico amore?
«Una fiammata di teatro. La coincidenza divertente è che anche
Il metodo Catalanotti, il nuovo Montalbano, ha un’ambientazione teatrale».
Non deve essere stato semplice orientarsi nella mole di fonti su Tiresia.
«Non c’è stato secolo che scrittori di qualsiasi tipo non si siano interessati a Tiresia. Mi sono trovato di fronte a un diluvio di testi. Per evitare però che la storia diventasse una sorta di lezione universitaria, l’ho trasformata in un racconto».
Attraverso Tiresia ha voluto parlare di sé?
«L’idea è di parlare di Tiresia come se io fossi Tiresia. Chiamatemi Tiresia, per dirla con l’incipit di Melville ( Moby Dick inizia con la frase “Chiamatemi Ismaele”, ndr) ».
La cecità fa vedere meglio?
«Stimola l’intuizione, è un’apertura. E poi quando si è ciechi avviene una cosa strana: tutti gli altri sensi corrono in soccorso del senso mancante. Fumando da sempre come un turco avevo perso gli odori e i sapori, invece ora si sono rafforzati».
E il rapporto con le parole è cambiato?
«Le parole hanno attorno un alone sfumato, una nebbia continua. La stessa nebbia che mi circonda. Ma in questa nebbia in cui sono immerso quello che vedo è estremamente chiaro. Forse la vista mi distraeva dal pensiero».
È cambiato il suo modo di organizzare il lavoro?
«Ormai da tre anni non vedo più ma il processo è stato progressivo, dunque ho avuto modo di creare una difesa strategica. Ho dovuto imparare a dettare a Valentina. Lo posso fare perché lei mi conosce e mi affianca da 16 anni (Valentina Alferj, assistente di Camilleri, è anche agente letterario, ndr).
Lavoriamo ogni mattina almeno tre ore. C’è da dire che anche prima, da vedente, avevo l’abitudine di rileggere la pagina ad alta voce per fare le correzioni. Mi ha aiutato molto, altrimenti le parole rischiano di perdersi nel vuoto».
Torniamo quindi al teatro, all’oralità.
«Per me è qualcosa d’innato. Ho insegnato in passato all’Accademia e al Centro sperimentale di cinematografia. Sono stati miei allievi Emma Dante e Marco Bellocchio. In Il metodo Catalanotti, prendo però un po’ in giro i sistemi alla Grotowski e le avanguardie tipo il Living theatre».
E il suo metodo d’insegnamento com’era?
«Maieutico: scoperta un’idea originale nell’allievo gli davo tutta la corda che voleva per impiccarsi a quella sua idea. Cercavo di scoprire l’originalità che ciascuno aveva dentro, tentavo di tirargliela fuori.
Le storie nascono sempre dal buio?
Una volta scrissi che i poeti greci si accecavano per diventare veri poeti ( sorride)… Ricordo che quando ero bambino in Sicilia si usava accecare i merli e i cardellini per farli cantare meglio. Era un’abitudine crudele che mi faceva piangere».
Esistono però cecità diverse.
Quella di Tiresia ed Edipo non si somigliano affatto.
«A differenza di Tiresia, Edipo vede solo la condizione punitiva della cecità, non sa andare oltre. L’unica sua preoccupazione è non perdere la ragione nello stato in cui si è venuto a trovare».
Nel mito, Tiresia è reso cieco da Giunone.
«Un giorno Zeus e Era stanno discutendo intorno a una domanda: nell’atto sessuale chi prova più piacere l’uomo o la donna? Non sapendo rispondere, chiamano Tiresia, il quale è un esperto di entrambi i sessi, perché, secondo il mito, da maschio era diventato femmina e poi di nuovo uomo.
Insomma era considerato un tecnico».
E Tiresia risponde che gode più la donna.
«No, lui risponde che nell’atto sessuale esistono dieci gradi di piacere. La donna ne gode nove, l’uomo appena uno».
E per questo viene punito?
«Giunone lo punisce quando scopre che i gradi del piacere sono nove.
Solo allora si rende conto che con Zeus non ha mai raggiunto questi nove gradi. Da qui la reazione di ira nei riguardi del rivelatore. Ma è una mia supposizione ( ride) ».
Il suo è un viaggio nelle varie facce di Tiresia di epoca in epoca.
«Tiresia sembra fatto di pongo. Ogni autore lo ha modellato a suo piacimento. Perfino gli scrittori proto-cristiani hanno cercato di appropriarsene».
Una delle trasformazioni che l’hanno più colpita?
«Quella di un commentatore di Dante, un anonimo fiorentino del Trecento. Sostiene che Tiresia era un ermafrodita e che per godere si autopossedeva. La cosa mi ha fatto sghignazzare. Nemmeno un contorsionista da circo equestre riuscirebbe in questo tipo di amplesso».
È la prima volta che scrive una drammaturgia?
«Ho fatto molte riduzioni per il teatro, da raccolte di Pirandello e da miei stessi racconti, ma un testo originale non l’avevo mai scritto.
Anzi ne avevo scritto uno nel 1947.
Un atto unico, aveva vinto il premio Faber, ma l’ho buttato fuori dal finestrino mentre tornavo in Sicilia».
Perché?
«Non mi piaceva. Erano i tempi di A porte chiuse di Sartre. La mia mi sembrò una scopiazzatura e me ne liberai».
Lo fa ancora? Butta via le pagine che non le piacciono?
«Non lascio tracce delle pagine preparatorie di un libro né delle prime stesure. Distruggo tutto, sono un vero assassino. Deve restare solo il libro pubblicato».
Sa che Philip Roth ha dato disposizione di distruggere il suo archivio personale?
«Non lo sapevo. Io lo faccio in vita, così sono più sicuro».
Le piaceva Roth?
«Mi piaceva da matti. Ho sempre maledetto i membri dell’Accademia svedese. Avrebbero dovuto dargli il premio Nobel da anni».
Il Fatto 26.5.18
“Corsivo o stampatello, la mano marca il segno”
L’autrice spiega cosa c’è dietro alla pratica di scrivere a mano. E non c’entra con l’interpretazione del nostro carattere
“Corsivo o stampatello, la mano marca il segno”
di Francesca Biasetton
autrice de “La bellezza del segno”.
Nel corso degli anni, a causa della mia professione, mi è stata fatta più volte la seguente richiesta: “Fai la calligrafa, che bello, potresti interpretare la mia calligrafia?” e anche “avremmo piacere di averla in trasmissione, potrebbe interpretare la calligrafia degli altri ospiti…” Richiesta che evidenzia alcuni equivoci: viene confusa la calligrafia con la grafologia (due diverse discipline, entrambi valutano la grafia dal punto di vista delle forme: la bella forma delle lettere e la bella grafia l’una, lo studio della personalità in rapporto alla grafia l’altra). E anche la calligrafia con la grafia: la calligrafia è la pratica della bella scrittura manuale, seguendo regole che governano le forme e le proporzioni delle lettere a seconda dello stile e del modello a cui si fa riferimento. Altro è la nostra grafia, la scrittura “quotidiana” che utilizziamo – quando e se ancora scriviamo a mano, e non utilizzando la tastiera, quando impugniamo uno strumento e tracciamo le parole con la nostra grafia, invece di premere dei tasti che generano delle lettere tutte uguali.
Che siano i segni incerti di chi sta imparando a scrivere, o il corsivo di chi ha imparato “a quei tempi”, lo stampatello indecifrabile di chi non stacca la penna dal foglio (creando legature tra le lettere che generano confusione), o un mix informale e spensierato di segni; una nota su un foglio “volante”, un promemoria su un post-it, un’annotazione sulla tovaglietta di carta della trattoria; una lettera d’amore, un indirizzo su una busta (o una poesia, vero Emily Dickinson?); gli appunti di studio su un quaderno, la lista della spesa su un foglietto, la bozza di un racconto su fogli sparsi; una dichiarazione – di pace, di guerra – su uno striscione, uno slogan su un muro. Che sia con la matita – grigia, colorata, rossa! – con la biro o con la stilografica, con un roller o un pennarello, un pennello, lo spray: blu come il mare, “nero su bianco”, a colori… Segni, successione di segni, righe di segni – tracce del movimento della mano: spigolosi, tondeggianti; in corsivo o in stampatello, un ritmo ordinato o un groviglio disordinato, che invita alla lettura o decifrabile con difficoltà. E poi c’è la firma che assume il ruolo di testimonianza della nostra presenza: sono io, sottoscrivo, sono d’accordo, è da te per me. O l’autografo, che è una firma particolare, testimonianza di un contatto con qualcuno che riteniamo speciale: io c’ero, l’ho incontrato, e questo autografo ne è la prova. La documentazione cartacea, che ha riempito (riempiva?) le case e gli archivi, porta con sé informazioni che ci aiutano a ricostruire il nostro passato – diari, corrispondenze, registri contabili, atti di proprietà, quaderni, prime stesure – non solo attraverso i loro contenuti. La loro fisicità ci informa sui materiali di supporto a questi testi, sugli strumenti utilizzati per scrivere, che a loro volta hanno influenzato la forma delle lettere e lo stile della scrittura. Sfogliando questi documenti manoscritti abbiamo la sensazione di accedere a qualcosa di speciale, di poter “curiosare” tra le carte dell’autore, assistere al processo della creazione – cancellature, correzioni, note a margine, testi “in divenire” – e vivere un’esperienza che difficilmente un testo stampato potrà trasmetterci. Come la nostra voce, il nostro volto e la nostra andatura, anche la nostra scrittura ci assomiglia, presenta caratteristiche che la rendono diversa e unica. Certo l’agilità e la velocità garantite dalle nuove tecnologie sono funzionali per il lavoro e le comunicazioni, ma non ci danno accesso ai contenuti emotivi. Tvb raggiungerà velocemente il destinatario, ma sarà uguale nella forma e nel contenuto a tutti i Tvb digitati. Certo più veloce, ma siamo sicuri che la velocità sia sempre e comunque necessaria? Pensiamoci quando il nostro smartphone ci notifica l’arrivo di una mail mentre siamo in vacanza… È comunque inutile contrapporre i due sistemi, ognuno è necessario e funzionale alla specifica situazione: cosa si vuole dire, come si vuole dire. Senza trascurare che scrivere a mano o con la tastiera sono due processi diversi anche da un punto di vista mentale: la possibilità, attraverso una combinazione di tasti, di “tornare indietro”, e i suggerimenti del correttore automatico influenzano il nostro rapporto con i contenuti. Ma qui si entra in un altro campo, e i calligrafi, tecnici della scrittura, stanno a guardare, continuando a scrivere, a mano…
La Stampa 26.5.18
Scoperto in Arizona un misterioso calendario solare inciso nella pietra
di Noemi Penna
qui
Il Fatto 26.5.18
“Catturate Riina!”: l’arresto raccontato da “Ultimo” e i suoi
Venticinque anni fa, a Palermo, fu arrestato Totò Riina dal capitano Ultimo e dai suoi uomini dei Reparti operativi speciali dei carabinieri. Come andò quella caccia segreta, durata 6 mesi, iniziata dopo i boati di Capaci e via D’Amelio? Come andò quel giorno cruciale a Palermo e i giorni a seguire? Cosa è accaduto a Ultimo e ai suoi uomini negli anni successivi?
Lo raccontano – per la prima volta – i protagonisti di quella impresa, in una lunga intervista-reportage (“Catturate Riina!”, scritto da Pino Corrias e Renato Pezzini, in onda stasera alle 24.20 su Rai1) : Ultimo, Arciere, Aspide, Omar, Vichingo. Sergio De Caprio, ex Capitano Ultimo, ora colonnello, è allenato a vivere mimetizzato da quando Cosa Nostra lo ha condannato a morte. Dal giorno in cui con la sua dozzina di uomini, dopo duecento giorni di indagini bloccarono dentro al traffico di Palermo l’auto su cui viaggiava Toto Riina, il capo dei capi, gli spalancarono la portiera, lo stesero sull’asfalto a faccia in giù, gli dissero “Carabinieri! Sei in arresto” e gli serrarono le manette ai polsi, sigillando l’ultimo giorno di libertà di Riina, dopo 23 anni, 6 mesi e 8 giorni di latitanza. Era il 15 gennaio 1993. Ore 9.01.
«La società, che ha chiuso l’esercizio 2017 con ricavi pari a 15 milioni di euro, è presente con rilevanti quote di mercato sia nella scuola secondaria di primo grado sia di secondo grado in un significativo numero di materie umanistiche, artistiche e tecnico scientifiche»
Corriere 26.5.18
Editrice La Scuola rileva dai Salesiani le edizioni S.E.I.
di Federico De Rosa
Editrice La Scuola ha acquisito il 100% del capitale della società S.E.I. – Società Editrice Internazionale S.p.A.— dall’Oratorio Salesiano San Francesco di Sales e dall’Istituto Salesiano per le Missioni. L’operazione coinvolge due gruppi con alle spalle una storia ultracentenaria. L’Editrice La Scuola è stata fondata a Brescia nel maggio del 1904 per opera, fra gli altri, di Giorgio Montini, Luigi Bazoli (il presidente emerito di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli, è attuale vicepresidente dell’Editrice), Nicolò Rezzara, Angelo Zammarchi, con lo scopo di sostenere e promuovere la rivista magistrale Scuola Italiana Moderna, la più antica pubblicazione scolastica italiana creata nel 1893. Più di cento anni anche per S.E.I., nata a Torino il 31 luglio 1908 per iniziativa di un gruppo di cooperatori salesiani italiani e stranieri, opera da oltre cento anni nel segmento dell’editoria scolastica. La società, che ha chiuso l’esercizio 2017 con ricavi pari a 15 milioni di euro, è presente con rilevanti quote di mercato sia nella scuola secondaria di primo grado sia di secondo grado in un significativo numero di materie umanistiche, artistiche e tecnico scientifiche. L’acquisizione verrà perfezionata nel mese di giugno.
«L’operazione — ha commentato Giorgio Riva, amministratore delegato dell’Editrice La Scuola — oltre a perseguire l’obiettivo di perpetuare la missione educativa che caratterizza sin dalla fondazione entrambe le realtà formative, ha una valenza strategica e industriale. Ci consente infatti di rafforzare decisamente la nostra posizione competitiva nel mercato italiano dell’editoria scolastica e compiere un ulteriore passo nell’ambito della nostra strategia di sviluppo e di focalizzazione sul core business». Alla fine del 2017 l’Editrice La Scuola aveva incastrato un altro importante tassello stringendo un accordo esclusivo per la distribuzione del catalogo Hachette FLE (Français Langue Etrangère) sul mercato italiano.