venerdì 25 maggio 2018


internazionale 18.5.18
Parole
Domenico Starnone
Esercizio permanente

Essere di destra come di sinistra richiede studio e capacità di maneggiare concetti che hanno una loro complessa tradizione. Ma diciamolo: appena si semplifica, andar giù per la china che porta a destra è assai più agevole che restare a sinistra. Prendiamo Salvini: lui è pura destra e anche se giurasse di non esserlo voi non riuscireste a credergli, tanto si muove con naturalezza dentro pochi ma inequivocabili concetti. S’è dato una fisionomia così marcata che, perfino quando sgarra, i suoi fan sempre più numerosi esclamano: ah, che mossa abile. Prendiamo invece Di Maio. È un sinisdestro, rimescola di qua, rimescola di là. La conseguenza è che lui parla e voi pensate: bene; poi lui riparla e voi ripensate: macché. Alla prova dei fatti, cioè, la postideologia, il trasversalismo, rischiano di fruttargli solo una fisionomia politica incerta. Tanto che mentre Salvini è ormai una manna per la destra – leghista, berlusconiana, a cinquestelle – Di Maio è in un bel guaio: se va alla sua destra sembra al servizio di Salvini e se va alla sua sinistra trova facce storte. O peggio: franose. Perché collocarsi a sinistra, in questi tempi duri, richiede un esercizio permanente. E se ci si lascia andare, non si diventa postideologici e trasversali, ma si comincia a dire: sì, dimezzare le tasse, lavoro agli italiani, fuori i pezzenti stranieri, una pistola in casa può servire.

internazionale 18.5.18
Guerra ai giornalisti in Messico
La Jornada, Messico

Il 15 maggio, nell’anniversario dell’omicidio del corrispondente della Jornada Javier Valdez Cárdenas, il conduttore radiofonico Juan Carlos Huerta è stato ucciso davanti alla sua casa a Villahermosa. È il quarto lavoratore dell’informazione ucciso in Messico dall’inizio dell’anno. Con la sua morte il bilancio degli ultimi sei anni è salito a 43 omicidi di giornalisti, mentre dal 2000 a oggi ne sono stati commessi 134. La Commissione nazionale per i diritti umani ha chiesto d’indagare sull’attività giornalistica della vittima e ha invitato il governo a rivedere le misure di protezione per i giornalisti. L’assassinio di un giornalista è un attacco alla libertà di espressione e al diritto all’informazione. Questi crimini sono una minaccia per la democrazia e la stabilità istituzionale del paese. Ma a giudicare dai numeri, uno degli aspetti della violenza esasperata che affligge il Messico sembra essere una guerra contro l’informazione in cui diversi attori – esponenti della criminalità organizzata o, peggio ancora, criminali infiltrati nel potere politico e finanziario – ricorrono all’omicidio per mettere a tacere le voci che documentano il disfacimento dello stato e che colpiscono gli interessi di chi agisce nell’ombra. Il 14 maggio avevamo scritto: “A un anno dalla morte di Javier Valdez e a 14 mesi da quella di Miroslava Breach, un’altra corrispondente della Jornada, entrambi i delitti sono ancora avvolti nel mistero. Sappiamo solo che sono stati uccisi dall’impunità, e finché non sarà fatta giustizia ci saranno altre vittime”. Nel giro di poche ore la previsione si è avverata.

internazionale 18.5.18
La festa e il massacro
La cerimonia di apertura dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme dimostra che gli Stati Uniti e Israele hanno perso il contatto con la realtà
Di David Hearst, Middle East Eye, Regno Unito

Quattro giorni dopo l’incoronazione dello zar di Russia Nicola II e di sua moglie Alexandra fu organizzato un banchetto per le persone comuni nel campo di Khodynka, a Mosca. ogni partecipante avrebbe ricevuto una pagnotta, un pezzo di salsiccia, un pretzel, un pan di zenzero e un bicchiere di birra. La voce si sparse e centinaia di migliaia di persone si radunarono prima dell’alba per ottenere i loro omaggi. In mattinata cominciò a circolare la voce che la birra era finita e che i bicchieri contenevano una moneta d’oro. La folla insorse, fu presa dal panico e 1.389 persone morirono calpestate. L’imperatore e l’imperatrice furono informati. Nicola voleva cancellare il ballo previsto all’ambasciata di Francia quella sera. Ma alla fine prevalse il buonsenso: la sua assenza avrebbe offeso i francesi e così i festeggiamenti andarono avanti. Gli imperatori visitarono il luogo della tragedia, ripulito dai cadaveri, e andarono al ballo.
Jared Kushner e Ivanka Trump non hanno la scusa di non sapere: non vivono nella Russia zarista, dove le notizie si diffondevano lentamente. Mentre partecipavano alla cerimonia per l’apertura dell’ambasciata statunitense, a Gerusalemme, il 14 maggio, una certa preoccupazione avvolgeva l’evento festoso, man mano che il bilancio dei morti a Gaza continuava a salire. Cinquantanove morti e 2.400 feriti non erano abbastanza per smorzare il loro entusiasmo. Jared Kushner non ha pensato neanche un attimo di modificare il suo discorso. Negli occhi aveva uno sguardo messianico: “Sono fiero di essere qui a Gerusalemme, il cuore eterno del popolo ebraico. Noi, Stati Uniti e Israele, siamo uniti perché crediamo nella libertà, perché crediamo nei diritti umani, perché crediamo che valga la pena difendere la democrazia”. Jared Kushner era lì non solo come rappresentante del presidente degli Stati Uniti, ma anche come mediatore di pace. E a proposito del massacro che stava avvenendo a 75 chilometri di distanza ha commentato: “Chi provoca violenza fa parte del problema, non della soluzione”. Lui e la moglie non hanno neanche la scusa di assistere a un disastro imprevisto, come a Khodynka. Le uccisioni di massa erano premeditate. I cecchini israeliani hanno obbedito agli ordini del ministro della difesa Avigdor Lieberman, secondo cui non esistono persone innocenti a Gaza. Nessun rimorso Hind Khoudary, collaboratore di Middle East Eye, si trovava a Gaza il 14 maggio e ha riferito: “L’unica cosa che ho visto nell’ultima ora è sangue. Le persone sono state ferite alla testa, al collo e al torace. Gli israeliani hanno sparato a caso appena i manifestanti hanno cercato di varcare le recinzioni. Alcuni corpi sono ancora intrappolati e le ambulanze non possono raggiungerli”. All’interno dell’ospedale Indonesia, nel nord della Striscia, gli obitori erano pieni. Maram Humaid ha raccontato ad Al Jazeera: “I feriti sono per terra, non ci sono più letti. Gli ospedali sono stracolmi e domina uno stato di ansia. Le ambulanze continuano ad arrivare e centinaia di persone accorrono”. Ma la folla gioiosa che partecipava alla cerimonia di Gerusalemme continuava ad applaudire, alzandosi in piedi quando Kushner si congratulava con il suocero per essere uscito da un accordo con l’Iran “pericoloso, sbagliato e unilaterale”. Gioivano tutti insieme, perché a forza di fare “la cosa giusta” hanno perso il contatto con la realtà. Il mondo esterno, quello dove vivono davvero, con i fiumi di sangue, gli arti recisi e le vite distrutte, è stato rimosso dalle loro coscienze. L’ex portavoce dell’esercito israeliano Peter Lerner ha scritto su Twitter che gli abitanti di Gaza stavano cercando di rovinare la loro festa. È quello che devono aver pensato anche lo zar e la zarina. Cinquantanove morti e 2.400 feriti sono diventati una cosa normale. Almeno lo zar russo mostrò qualche rimorso, gli attuali signori del mondo no. Il massacro di Khodynka avvenne nel 1896. Quello di Gaza avviene ora, davanti ai nostri occhi.
David Hearst è il direttore di Middle East Eye, un sito britannico d’informazione sul Medio Oriente

internazionale 18.5.18
Canada
Una vita senza figli
The Walrus, Canada

In Canada il numero di donne che decidono di non fare figli è aumentato costantemente negli ultimi anni. “Oggi i nuclei familiari di una singola persona sono il 30 per cento, il dato più alto di sempre”, scrive The Walrus. “Generalmente le donne scelgono di non avere figli perché vogliono dare la priorità alla carriera lavorativa, perché aspettano la relazione giusta o semplicemente perché rifiutano l’idea che il loro posto nella società sia determinato dal fatto di essere madri”. Questa scelta genera una sorta di stigma sociale, ma oggi, molto più che in passato, le donne non hanno paura di parlarne e spesso rivendicano la scelta di non avere figli. “Ogni anno in Nordamerica si tiene il summit delle non-mamme, in cui centinaia di donne si confrontano su cosa significa vivere in società centrate sulla famiglia e su cosa fare per superare i pregiudizi”. Quella delle donne senza figli, conclude the Walrus, è una battaglia che riguarda tutta la società, perché potrebbe portare grandi cambiamenti nel mondo del lavoro.

internazionale 18.5.18
Cile
Occupazioni femministe

 “Le studenti cilene hanno occupato più di quindici università: denunciano gli abusi sessuali negli atenei e protestano contro il modello d’istruzione sessista e discriminatorio diffuso nel paese”, scrive La Tercera. La protesta è cominciata il 17 aprile nell’universidad austral de Valdivia, nel sud del Cile, e in poche settimane si è estesa ad altre università, anche nella capitale Santiago.

Da dove vengono le ripetute violenze sulle donne?
internazionale 18.5.18
India
Bambine trascurate

Ogni anno in India 239mila bambine sotto i cinque anni muoiono perché trascurate dalle famiglie, che dedicano più cura e attenzione ai figli maschi. Lo dice una ricerca pubblicata sulla rivista Lancet, secondo cui alla base di questo fenomeno c’è la discriminazione di genere diffusa nelle zone rurali. Le femmine, spesso nate da gravidanze indesiderate, sono malnutrite, non curate e non vaccinate. Finora gli studi si erano limitati agli aborti selettivi, una pratica ancora diffusa in alcune zone dell’India e della Cina. La ricerca ha evidenziato anche che la mortalità in eccesso, pari alla differenza tra la mortalità stimata e quella reale, è del 22 per cento, e 29 stati indiani su 35 contribuiscono al fenomeno, scrive The Hindu.

internazionale 18.5.18
Polonia
Democratici in piazza

Il 12 maggio cinquantamila persone sono scese in piazza a Varsavia per protestare contro le politiche autoritarie e illiberali del governo, guidato dal partito conservatore Diritto e giustizia (Pis). I partecipanti alla Marcia per la libertà, organizzata dai partiti d’opposizione, tra cui Piattaforma civica (Po), hanno scandito slogan come “Difenderemo la democrazia”, sventolando bandiere dell’Unione europea e della Polonia. Il bersaglio delle proteste erano soprattutto la riforma del settore giudiziario voluta dal governo, e criticata aspramente anche da Bruxelles, e quella della corte costituzionale. Come scrive il quotidiano Gazeta Wyborcza, il corteo si è concluso nella piazza del castello, dove il leader di Po, Grzegorz Schetyna, ha detto che “la Marcia per la democrazia è appena cominciata e finirà solo nella primavera del 2020, con le elezioni presidenziali”.

internazionale 18.5.18
Tutto il potere ai leader
Lega e cinquestelle incarnano un nuovo modo di far politica, in cui l’ambizione individuale prevale sugli interessi collettivi, scrive David Broder
Di David Broder per Internazionale

L’ articolo 53 della costituzione italiana assicura che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. È la premessa fondamentale per la solidarietà: riconosce che gli italiani con minori risorse economiche devono contribuire con una tassazione più bassa. Quindi estendere la lat tax, l’aliquota unica sul reddito, dalle piccole partite iva a tutta la società italiana rappresenterebbe un enorme colpo al principio di ridistribuzione. Secondo l’economista Massimo Baldini, se il nuovo governo dovesse adottare la riforma del sistema tributario voluta dal leader della Lega Matteo Salvini, una famiglia con due genitori e due bambini che guadagna trecentomila euro all’anno risparmierebbe 67.940 euro, una che ne guadagna cinquantamila risparmierebbe 469 euro e una che ne guadagna trentamila non risparmierebbe niente. Mentre l’effetto concreto di togliere finanziamenti ai servizi pubblici danneggerebbe soprattutto i più poveri e i più deboli.
Elettori subalterni
Il fatto che il Movimento 5 stelle (M5s) prenda in considerazione questa proposta (anche nella singolare versione prospettata da uno dei suoi dirigenti, Danilo Toninelli, di una lat tax “progressiva” che include contromisure di facciata) è strano, visto che il partito sostiene di essere al di sopra della sinistra e della destra. Se il leader dei cinquestelle Luigi Di Maio ha trasformato il movimento in un partito mainstream, la rivolta antisistema si è trasformata in una politica d’illimitato individualismo. Alcuni non sono d’accordo con questa tesi. Dopo aver sostenuto che il Movimento 5 stelle è il nuovo partito comunista italiano, il sociologo Domenico De Masi ha auspicato un accordo tra i cinquestelle e il centrosinistra, criticando giustamente il cinismo del leader del Partito democratico (Pd) Matteo Renzi, che si è sempre opposto a questo accordo. Ma per De Masi e per Il Fatto quotidiano è stato in troppo facile dire che i cinquestelle incarnano i valori progressisti abbandonati dal Pd solo perché gli elettori che prima votavano a sinistra oggi votano per il Movimento 5 stelle. La convinzione che i dirigenti dei cinquestelle fossero confusi o politicamente analfabeti ha aperto la strada all’illusione che Di Maio o i Casaleggio non volessero dire davvero quello che avevano detto. Ma l’idea dei cinquestelle di un governo “antiideologico” si adatta pienamente all’ideologia del nostro tempo: quella secondo cui l’ambizione individuale prevale sul dibattito o sulle necessità collettive.
La tradizione di solidarietà degli ex elettori del Pci che diventano pentastellati o le speranze degli elettori del sud che votano per il Movimento 5 stelle non condizionano in nessun modo i dirigenti del partito. Questi gruppi di elettori subalterni restano comunque subalterni. Se i loro interessi collettivi non sono espressi apertamente, questi gruppi restano sempre e solo una massa d’individui atomizzati incapaci d’influenzare i principali partiti.
Le lancette della storia
La sinistra storica si fondava su militanti che difendevano i loro interessi. Invece il Movimento 5 stelle ha solo degli “iscritti”. Un’occhiata a una qualsiasi pagina Facebook gestita nelle ultime settimane dai sostenitori più convinti dei cinquestelle, quando gli accordi con il Partito democratico o con la Lega sembravano più probabili, rivela due costanti: una fiducia cieca nella santità di Di Maio, e nessuna fiducia nella possibilità che i sostenitori dei cinquestelle possano determinare in prima persona l’evoluzione del partito. Quando al Forum Ambrosetti di Cernobbio Di Maio ha dichiarato “non vogliamo creare un’Italia populista, antieuropeista, estremista”, non era un trucco. I cinquestelle e la Lega non hanno nessun interesse ad affondare il sistema, visto che possono tranquillamente prendere il posto dei vecchi partiti scomparsi. La terza repubblica non è che una replica postmoderna delle ultime fasi della prima. Ci saranno sicuramente momenti difficili e messe in scena rozze. Possiamo sicuramente aspettarci degli scontri dimostrativi con Bruxelles, nello stile da troll provocatore tanto amato da Salvini. Meno probabile è che tutto questo soddisfi la speranza di Matteo Renzi, secondo cui una dimostrazione pubblica di “populismo al governo” riporterà gli elettori a votare per i vecchi partiti. Renzi e altri divoratori di popcorn potrebbero scoprire di essere di fronte a un film già visto. La convinzione dei democratici statunitensi che l’indignazione suscitata da Donald Trump avrebbe fatto crollare il sostegno nei suoi confronti si è rivelata sbagliata. Allo stesso modo i disastrosi negoziati per la Brexit non hanno fatto aumentare il numero di elettori britannici favorevoli a restare nell’Unione europea. e la gestione caotica di Roma da parte della sindaca dei cinquestelle Virginia Raggi non ha spinto gli elettori a tornare in ginocchio verso il Pd. La ragione fondamentale è che il crollo delle antiche appartenenze politiche è un fenomeno di lungo termine, non un sussulto momentaneo. Forse quindici anni fa gli elettori rimanevano legati a identità ereditate, anche dopo che si erano sgretolate le basi sociali dei partiti del novecento. Ma dopo il loro crollo non è più possibile riportare indietro le lancette della storia. Al di là del cinismo di Renzi, una pia illusione di quel che rimane della sinistra è che il Movimento 5 stelle prima o poi riveli la sua natura reazionaria. In quest’ottica l’alleanza con la Lega “correggerebbe” l’anomalia, allontanando gli ex elettori del Pci dai cinquestelle. Anche se una cosa del genere potrebbe in teoria succedere, la realtà è che il Movimento 5 stelle non si limita a raccogliere una parte del vecchio popolo della sinistra. Semmai è il prodotto (e oggi anche la causa) della distruzione materiale di questa categoria. Raccoglie ampi consensi tra i disoccupati, i lavoratori con bassi salari e i giovani proprio a causa della sconfitta, dell’atomizzazione e della depoliticizzazione di queste stesse categorie. L’inquietudine della stampa estera si concentra sull’euroscetticismo della Lega e dei cinquestelle, “il più grande shock dai tempi della Brexit”. Questi partiti sono in realtà troppo poco ambiziosi per poter ripensare l’ordine europeo. non esprimono una rivolta contro l’Unione europea, semmai sfruttano dei problemi sociali e li incanalano nella forma vuota e rassicurante della protesta identitaria. La loro abilità nel farlo poggia su decenni di fallimenti di una sinistra che ha perso la sua forza. La capacità dei lavoratori di mandare a quel paese un datore di lavoro che gli offre cinque euro all’ora, la fiducia nell’idea di progresso collettivo e gli strumenti culturali per rifiutare la fede cieca nei leader sono in declino. Il sindaco del Pd di Pesaro, Matteo Ricci, ha definito l’avanzata dei cinquestelle come la politica “dell’invidia sociale” nei confronti dei ricchi. Magari fosse così.
David Broder è uno storico britannico della London school of economics.

internazionale 18.5.18
L’opinione
Se l’Italia contagia l’Europa
Di Jacques Hubert-Rodier, Les Echos, Francia

L’Italia non è la malata d’Europa, secondo l’espressione ormai in uso per deinire un paese europeo in difficoltà. È l’Europa che rischia di essere malata d’Italia e dell’ascesa del nazionalismo e del sovranismo. A più di due mesi dalle elezioni legislative del 4 marzo, le trattative per formare un governo in Italia ricordano sempre di più la commedia dell’arte. Ci sono stati ribaltamenti imprevisti, come l’annuncio di un possibile ritorno, a 81 anni, di Silvio Berlusconi in parlamento dopo che un tribunale ha cancellato l’interdizione dai pubblici uffici che lo aveva colpito in seguito alla condanna per frode fiscale. e le trattative per presentare un governo al presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella hanno avuto una durata record. La novità è un’altra: per la prima volta in uno dei grandi paesi fondatori dell’Unione europea i negoziati sono condotti da due movimenti molto diversi tra loro, che però si richiamano entrambi a una forma di nazionalismo e sovranismo, e manifestano una forte opposizione all’immigrazione e sbandierano un atteggiamento euroscettico se non apertamente eurofobico. Per evitare nuove elezioni, il Movimento 5 stelle e la Lega stanno cercando di formare un governo contro natura che sia espressione di due partiti molto diversi. A quanto pare la parte più difficile non è definire una quindicina di punti di un programma comune, ma indicare un capo del governo “neutro” o “tecnico”. Un “terzo uomo” che rispetti i paletti fissati da Mattarella, in particolare la permanenza dell’Italia nell’euro. Il vero rischio è che l’Italia diventi la norma e non più un’eccezione in Europa, dove i partiti tradizionali e l’idea stessa di Europa sono oggetto di forti contestazioni. In Germania, in Austria e in Francia i partiti di estrema destra e di estrema sinistra, tutti ostili al sistema, hanno tratto vantaggio dall’esasperazione degli elettori. La vittoria in Francia dell’europeista Emmanuel Macron, estraneo ai partiti tradizionali di destra e di sinistra, non ha però fermato del tutto l’ascesa del populismo. L’Europa che si è lasciata alle spalle la crisi finanziaria rischia di affondare nell’incertezza politica. L’Italia è il sintomo di una malattia europea.

internazionale 18.5.18
Non fiction
Giuliano Milani
Il cespuglio genealogico
Telmo Pievani
Homo sapiens e altre catastrofi
Meltemi, 352 pagine, 22 euro

Conoscere la storia della nostra specie può farci capire meglio dove stiamo andando. È questa la convinzione di Telmo Pievani, filosofo della scienza, evoluzionista, che da anni, in continuità con le ricerche di Stephen Jay Gould e di Niels Eldridge (che firma la prefazione), studia la vicenda dell’Homo sapiens e la racconta al grande pubblico. Negli ultimi tempi il modo di pensare a questa vicenda è cambiato. Se ino a qualche tempo fa dominava ancora l’“iconografia della speranza”, ovvero l’idea che l’evoluzione umana avesse un senso e che l’uomo attuale fosse il ine ultimo di una storia lineare e progressiva, oggi le nuove scoperte di genetisti, paleontologi ed ecologi lasciano intravedere uno scenario diverso, in cui le specie di ominidi non si sono affatto succeduta dalla più primitiva alla più evoluta, ma hanno a lungo coesistito, formando un albero genealogico che presenta la forma di un fitto cespuglio pieno di diramazioni. In questo libro Pievani prova a sintetizzare questa nuova storia con uno stile ricco che, come quello dei suoi maestri, non rinuncia alle infinite possibilità narrative offerte dalla storia dell’evoluzione umana, ma anzi le sfrutta pienamente. Le molte specie di uomo che hanno abitato la Terra silano sotto gli occhi del lettore, lasciando nella sua memoria una storia meno rassicurante di quella a cui è abituato, ma altrettanto bella, se non di più.

internazionale 18.5.18
Stati Uniti
Trump vuole salvare i cinesi

Il 13 maggio il presidente statunitense Donald Trump ha dichiarato che cercherà di salvare la Zte, un’azienda cinese che produce apparecchiature per le telecomunicazioni finita sull’orlo del fallimento per aver violato le sanzioni degli Stati Uniti contro l’Iran e la Corea del Nord. Ad aprile, spiega la Bbc, la Casa Bianca aveva vietato alle aziende statunitensi di fornire componenti alla Zte, che ora rischia di chiudere. L’apertura di Trump è un segnale a Pechino in occasione dei colloqui con Liu He, l’inviato del governo cinese arrivato a Washington il 15 maggio per parlare della crisi commerciale tra i due paesi.

internazionale 18.5.18
Norvegia
I papà discriminati

“I paesi scandinavi sono orgogliosi delle loro politiche per la famiglia, ma a volte anche da quelle parti non tutto funziona come dovrebbe”, scrive la Neue Zürcher Zeitung. La Norvegia, per esempio, è accusata di discriminare i papà. “Il paese garantisce a ogni coppia di genitori il diritto a 26 settimane di congedo parentale pagato. Per i papà sono previste altre dieci settimane. Il problema è che ricevono solo una parte dello stipendio se le compagne lavorano o studiano. Una simile restrizione non è prevista per le donne”. Il fatto che alle donne siano garantiti più diritti ha portato a “un ricorso alla corte dell’Associazione europea di libero scambio (Efta), di cui la Norvegia fa parte, per violazione della direttiva sulle pari opportunità”.

l’espresso 20.5.18
Cultura Verso la Biennale
Benvenuti nel pianeta Freespace
A Venezia l’architettura stringe un patto con le città. E lancia una sfida: abbattere i muri, rilanciare gli spazi liberi
di Luca Molinari

Camminando lungo via Cavour, a Firenze, la sagoma imponente del cinquecentesco palazzo Medici Riccardi si palesa con tutta la forza materica e chiarezza compositiva. Il ruvido bugnato del piano terra si assottiglia nei piani superiori a diventare trama regolare mentre le grandi finestre a bifora ritmano con eleganza i due piani nobili che vengono conclusi dall’imponente cornicione della copertura. Tutto è stato pensato per dare la chiara sensazione del potere e della ricchezza dei suoi committenti, mentre c’è solo un elemento che sembra contrastare con questa immagine, una serie di sedute in pietra, che corrono lungo tutto il piano terra del palazzo, offerte ai cittadini o ai pellegrini stanchi. Perché sono state realizzate queste panche? Che senso hanno rispetto al progetto complessivo dell’edificio? Probabilmente si possono interpretare come simbolo della generosità della famiglia più potente di Firenze o come idea che ogni palazzo, indipendentemente dalla scala e importanza, è anche un frammento vivente di un complesso più vasto e complesso di un corpo che noi chiamiamo città. E questa riflessione è confermata dal fatto che questi elementi non si limitano a questo specifico edificio ma che si possono ritrovare in altri manufatti dello stesso periodo storico generando una sottile continuità tra pubblico e privato, tra architettura e città senza apparenti cesure. Le panche in pietra di Firenze sono uno dei sorprendenti esempi citati nel Manifesto “Freespace” che le irlandesi Yvonne Farrel e Shelley McNamara, in arte Grafton Architects, hanno scelto per lanciare l’edizione della 16° Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia. Ma cosa vuole dire Freespace? Non è apparentemente l’opposto di quello che abbiamo sempre definito come architettura? Se lo spazio è “free/libero”, e quindi non è progettato, che ruolo immaginare allora per l’architetto? Andiamo direttamente alle parole delle curatrici: «Freespace rappresenta la generosità di spirito e il senso di umanità che l’architettura colloca al centro della propria agenda, concentrando l’attenzione sulla qualità stessa dello spazio. Freespace si focalizza sulla capacità dell’architettura di offrire in dono spazi liberi e supplementari a coloro che ne fanno uso, nonché sulla sua capacità di rivolgersi ai desideri inespressi dall’estraneo. Freespace celebra l’abilità dell’architettura di trovare una nuova inattesa generosità in ogni progetto, anche nelle condizioni più private, difensive, esclusive, commercialmente limitate». Si tratta dell’incipit di un documento dalla forte valenza simbolica e politica perché carica l’architettura di una funzione pubblica necessaria di cui sentiamo tutti il bisogno in un momento storico in cui il desiderio di alzare muri e creare barriere emerge in ogni parte del mondo. Cosa vuole dire pensare a spazi “generosi” in un periodo dominato dalla paura e dall’esasperazione delle diferenze? Le nostre metropoli sembrano continuamente celebrare la separazione tra le persone e le loro possibilità, costruendo confini quasi invisibili che definiscono città ad accesso limitato e privilegiato. In un mondo in cui tutto apparentemente è aperto e a portata di clic, sono invece aumentate le disuguaglianze rappresentate dagli spazi urbani o i servizi elementari cui è difficile accedere, ingenerando una rabbia sociale sempre più chiara che diventa voto di protesta e violenza sui luoghi e le persone. Tutto questo chiama un ruolo diverso dell’architetto, togliendolo da quell’angolo cieco che lo vede semplice produttore di belle forme per pochi privilegiati, in nome di una figura presente e attiva nella vita sociale dei nostri paesaggi metropolitani. In un tempo votato all’impalpabile, in cui si costruirà sempre di meno per mancanza di territori e risorse, l’architettura diventa arte di gestire complessità crescenti e di ascoltare le voci confuse della società contemporanea offrendo soluzioni e visioni adatte a un tempo nuovo. A questo punto il “Freespace”, lo spazio non costruito, il vuoto tra le cose diventa una risorsa potenzialmente inattesa e preziosa per chi voglia dare forma a nuove relazioni tra persone e spazi abitati. Dobbiamo immaginare che le città moderne, quei conglomerati urbani che a partire dall’inizio dell’Ottocento ad oggi hanno progressivamente accentrato quasi il 60 per cento della popolazione mondiale, sono state costruite sulla negazione degli spazi liberi. La città moderna è stata pensata, pianificata e costruita per organizzare la vita di milioni di persone, il loro tempo, le funzioni primarie e i lussi, secondo modelli razionali che inscatolassero ogni variante riducendo al minimo distorsioni e dispersioni. Il principio occidentale della privacy ha costruito le nostre case e città e ha progressivamente cancellato l’immagine antica della città come luogo d’incontro e scambio fondato sulla centralità degli spazi pubblici. Non esistono più panche di pietra all’ombra dei grattacieli che costruiamo, ma spazi pensati per muoversi rapidamente. Questa condizione sta progressivamente corrodendosi perché emerge sempre di più il bisogno degli individui di tornare a stare insieme, intrecciare relazioni differenti, scambiare storie e condividere programmi concreti con cui cambiare i luoghi che abitiamo. Le persone sono tornate per strada e nelle piazze, occupandole, realizzando orti e giardini dove prima era abbandono, studiando strategie di rinnovamento dal basso che stanno trovando amministrazioni attente, trasformando luoghi pensati per funzioni invecchiate in ambienti per comunità fluide che si rinnovano continuamente. La selezione di molti dei progettisti invitati dalle Grafton a questa Biennale di Architettura sembra portare esempi interessanti su come lavorare attivamente sugli spazi liberi trasformandoli in occasioni. Lo studio londinese Assemble ha costruito la propria fortuna su un cambio radicale del proprio ruolo sociale, costruendo vere piattaforme partecipative in cui comunità locali sono coinvolte nel recupero e trasformazione di edifici abbandonati in nuovi beni comuni. Laboratori di ceramica e colore, autocostruzione e attività didattica condivisa, architetture temporanee, micro teatri realizzati sotto cavalcavia autostradali sono solo alcune delle azioni progettuali immaginate da Assemble per attivare un dialogo differente con il reale. A latitudini differenti, ma con lo stesso impatto sociale, è l’esperienza della messicana Rozana Montiel che da alcuni anni lavora sulla ricostruzione della vita comunitaria nei complessi di case popolari in un’area periferica di Città del Messico. L’azione progettuale è elementare e sta sortendo effetti interessanti grazie alla realizzazione di micro strutture pensate insieme agli abitanti all’interno dei cortili centrali utilizzati ino a quel momento come spazi abusivi privatizzati. La danese Dorte Mandrup da anni utilizza i tetti delle scuole e degli asili che progetta come spazi per il gioco inattesi e coloratissimi. Il ruolo dell’architetto diventa in questa prospettiva molto interessante perché il suo ruolo è quello di mediare tra forme di complessità crescenti e, insieme, di offrire strategie e soluzioni capaci di dare forma a immaginari collettivi nuovi, capaci di creare spazi accoglienti, flessibili e trasversali nell’uso. Pochi anni fa lo studio danese BIG e i berlinesi di Topotek1 hanno realizzato Superkilen, una piazza/parco pubblico in uno dei quartieri di Copenaghen più problematici dal punto di vista dell’integrazione sociale grazie alla presenza di più di sessanta nazionalità differenti. Il risultato è un intervento pieno di vita, un’esplosione di rosa, viola, rosso, blu nel cuore della capitale nordica, realizzato con forme e materiali morbidi e sinuosi. Un luogo immaginato per accogliere le differenze e attivare dialoghi e incontri considerati impossibili, al punto da essere stato premiato con l’Aga Khan Award come testimonianza di un’architettura capace di unire invece che dividere. In una società fluida e potenzialmente conflittuale come quella che popola le nostre metropoli, lavorare sui vuoti esistenti vuole dire caricarli di un ruolo di coesione sociale e culturale molto potente e l’idea che uno spazio libero, non issato rigidamente da funzioni e ruoli riconoscibili culturalmente possa essere posto al centro dell’agenda politica delle nostre città potrebbe rivelarsi una strategia vincente. Si tratta di una scommessa rilevante che, però, richiede una forma di maturità politica e collettiva non scontata, che va costruita quotidianamente e che si basa sulla conoscenza reciproca, l’ascolto e l’attenzione per le differenze che ci circondano. Questi sono alcuni dei presupposti del progetto di Laura Peretti, l’architetto che ha vinto il concorso internazionale per la realizzazione degli spazi pubblici ai piedi del famigerato Corviale, ai margini di Roma. Un astronave progettata negli anni Settanta per ospitare 8000 persone che è diventata uno dei simboli della peggiore periferia italiana insieme allo Zen di Palermo e alle Vele di Secondigliano. Dopo tanta demagogia e rischio di un inutile abbattimento si è deciso di lavorare sugli spazi pubblici e di supporto a questo edificio/città. Una soluzione apparentemente più leggera ma anche il segnale che solo dalla riforma dei vuoti abbandonati che circondano queste cattedrali nel deserto si può lavorare per radicarle al suolo e al paesaggio che le circonda. Il manifesto di FreeSpace chiude con una frase illuminante: «Siamo convinti che tutti abbiano diritto di beneficiare dell’architettura. Il suo ruolo, infatti, è di offrire un riparo ai nostri corpi e di elevare i nostri spiriti». Solo l’architettura come sostanza di cose sperate può essere un rimedio per metropoli fragili che chiedono ambienti a misura d’uomo e progetti capaci di unire e offrire luoghi caldi in cui costruire un futuro migliore per le generazioni che verranno.

E Robin Hood sbarca in Laguna
Sei mesi di appuntamenti, mostre, eventi collaterali, progetti speciali, incontri internazionali, laboratori, visite guidate. E 63 Paesi partecipanti, sei dei quali per la prima volta (Antigua & Barbuda, Arabia Saudita, Guatemala, Libano, Pakistan e Santa Sede). Organismo complesso, la Mostra Internazionale di Architettura (Giardini e Arsenale, 26 maggio-25 novembre, www.labiennale.org), organizzata dalla Biennale di Venezia presieduta da Paolo Baratta. L’edizione numero 16 è a cura di Yvonne Farrell e Shelley McNamara, poliedriche progettiste irlandesi fondatrici dello studio Grafton, che per organizzare la manifestazione si sono basate sul loro Manifesto “Freespace”, ponendo al centro la qualità dello spazio, libero e gratuito. Una visione “militante”, in linea con la scorsa edizione (2016), a cura di Alejandro Aravena. Alcuni temi importanti spiccano nella fitta agenda della Biennale 2018: all’Arsenale verrà allestita “Robin Hood Gardens: a ruin in reverse”, progetto speciale a cura di Christopher Turner e Olivia Horsfall Turner, che porterà in Laguna - in collaborazione con il museo Victoria & Albert di Londra - un elemento costitutivo del complesso di case popolari nell’East London, progettato da Alison e Peter Smithson e completato nel 1972. Simbolo del Nuovo Brutalismo e dell’edilizia popolare utopistica, oggi il complesso è in corso di demolizione per fare spazio a un progetto di riqualificazione urbana da 300 milioni di sterline. Il V&A ha commissionato un film all’artista coreano Do Ho Suh per documentare l’abbattimento, accompagnato da un putiferio di polemiche, in piena emergenza abitativa in Gran Bretagna. Tra i padiglioni nazionali, molto si è parlato della prima volta del Vaticano (curatore Francesco Dal Co), con “Vatican Chapels”, dieci cappelle ispirate alla “Cappella nel bosco” realizzata da Gunnar Asplund nel 1920 per il cimitero di Stoccolma, firmate da altrettanti grandi architetti di fedi e Paesi diversi, (Norman Foster e Eduardo Souto de Moura, tra gli altri) un bosco sull’isola di San Giorgio che diventa metafora di un labirinto per aprire un dialogo tra credenti e non credenti. Di notevole interesse anche “Arcipelago Italia” (all’Arsenale), il padiglione Italia a cura di Mario Cucinella, che concentra l’attenzione sullo spazio urbano che corre lungo la dorsale appenninica, dalle Alpi al Mediterraneo. Sul ilo dell’impegno, infine, il padiglione statunitense “Dimensions of Citizenship”: sette dimensioni, sette team di architetti per esplorare temi cruciali legati alla cittadinanza: casa, confini, migrazione, spazi e monumenti pubblici, con l’intervento di artisti, designer e registi. E.C.

l’espresso 20.5.18
Cultura
Sessantotto in diretta
di Guido Crainz
Il brano qui riportato introduce l’opera “Il Sessantotto” a cura di Wlodek Goldkorn e Gigi Riva, da un progetto editoriale di Bruno Manfellotto

Basterebbe la grande qualità giornalistica a rendere preziosa questa antologia de “L’Espresso”. Vi è però qualcosa che la rende davvero insostituibile e che fa cogliere per intero il ruolo svolto allora dal settimanale: la chiarezza con cui sono suggeriti i nessi fra dimensione internazionale e dimensione nazionale (talora nell’intrecciarsi di eventi reali e di trasfigurazioni mitiche), fra fermenti culturali e traumi (o immobilità) della politica, fra le grandi trasformazioni sociali e i radicali mutamenti degli immaginari collettivi, fra il rimodellarsi dei costumi e il ridefinirsi o il deperire delle precedenti culture politiche. Comprendiamo bene, scorrendo queste pagine, che quel 1968 va pienamente collocato nell’arco d’anni ripercorso qui nei suoi rivolgimenti e nelle più sottili permanenze, nei suoi stimoli e negli abbagli. E quel quinquennio è a sua volta il cuore di un più lungo periodo: dalla fine degli anni Cinquanta (con il declinare della fase più tesa della guerra fredda e i bagliori della guerra d’Algeria) sino al delinearsi dei grandi mutamenti degli anni Ottanta. Annunciati dall’avvento di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan, da un lato, e dall’altro dalla rivoluzione khomeinista e dal prender vigore del fondamentalismo islamico, e poi dal crollo del Muro di Berlino. Per l’Italia poi due date-simbolo vengono quasi a suggerire l’idea di un ventennio esatto: dal 1958, anno d’avvio del nostro miracolo economico, a quei funerali di Moro che sembrano segnare la fine di una intera stagione della Repubblica. O, spostandoci più avanti, a quell’addio di popolo a Enrico Berlinguer che oggi ci appare anche un dolente addio ai grandi partiti del Novecento. Sia a livello internazionale che nazionale insomma negli anni Ottanta prenderà corpo un radicale stravolgimento degli scenari, e giova ricordarlo. È fin troppo ovvia dunque la centralità della dimensione internazionale, e le pagine de “L’Espresso” evocano innanzitutto la straordinaria circolazione culturale del quinquennio qui considerato e il suo investire in primissimo luogo i giovani: «Quello che gli adulti americani non riescono a perdonare a questa generazione», scrive Furio Colombo nel 1966, «è di non riuscire a capirli». Ed è difficile capirli, nel vecchio e nel nuovo continente, senza evocare Bob Dylan e Joan Baez (e il loro impatto nella mobilitazione pacifista), la Liverpool dei Beatles o i Rolling Stones (anche nella Varsavia del 1967 ad un loro concerto migliaia di giovani si scontrano con la polizia). Non solo musica, naturalmente, e Alberto Arbasino dialogava con Jack Kerouac o esplorava il cinema underground, mentre Corrado Augias e Camilla Cederna raccontavano il teatro d’avanguardia in Inghilterra e in America, sino a quel Living heater che irrompeva anche sulle scene italiane. Tutto questo si intrecciava alla rivoluzione dei costumi (dalla cultura degli hippies alla Scandinavia), e senza questo clima non comprenderemmo l’eco immediata dei differenti traumi: in primo luogo quelli di un’America scossa dalle lotte per i diritti civili e dalla guerra nel Vietnam. Muovendo da entrambi questi temi prende avvio alcuni anni prima dall’Università di Berkeley (e non solo da qui, come raccontava Mauro Calamandrei) il ’68 internazionale. Un ’68 che precocemente si annuncia anche in Europa sull’onda delle mobilitazioni contro la guerra del Vietnam e della traumatica scoperta che, a cent’anni dalla guerra di secessione, nella “patria della libertà” la fine delle discriminazioni razziali è ancora un sogno, per citare il discorso con cui Martin Luther King conclude nel 1963 la grande marcia su Washington. E proprio nel 1968 verrà assassinato, tre anni dopo Malcolm X e nello stesso anno di Robert Kennedy (Ma se Dio fosse nero? era il testo di Bob pubblicato da “L’Espresso” due anni prima). In uno scenario infiammato dalla rivolta dei ghetti (Detroit «sembra una città dopo un bombardamento: incendi, nuvole di fuoco, edifici crollati», scriveva Mauro Calamandrei) e scandito anche da atti simbolici come il pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos sul podio delle Olimpiadi di Città del Messico («due braccia nere tese verso il cielo ormai scuro», scriveva Carlo Gregoretti). Olimpiadi insanguinate poco prima della strage di studenti in Piazza delle Tre Culture. Senza dimenticare la scelta di Cassius Clay, l’anno precedente: «Nessun Vietcong mi ha mai chiamato sporco negro», diceva, rifiutando il servizio militare (e pagando un prezzo altissimo). «Sporca» era in realtà la guerra del Vietnam (L’arsenale dei veleni), inedita l’importanza della televisione e dei media, e drammatica l’opposizione dei bonzi raccontata da Nello Ajello: e il massacro di Son My (Le furie del tenente Calley) era evocato anche dal Ralph Nelson di “Soldato blu”, che portava sullo schermo una strage di indiani compiuta un secolo prima. Ma già nel 1967 Walter Lippmann scriveva su “L’Espresso”: «Noi non possiamo vincere, così come un’orda di elefanti non può uscire vittoriosa da una lotta contro una nuvola di zanzare». Non era facile sottrarsi al fascino del Davide vietnamita in lotta con il Golia americano: fascino travolto dieci anni dopo dalla fuga disperata dal Vietnam del sud, diventato comunista, di quello che fu chiamato il boat-people. Non era facilissimo neppure criticare altri abbagli di allora: dalla Cina di Mao e della Rivoluzione culturale cinese («il culto della personalità diventa profondo e ossessivo» annotava però, in controtendenza, Camilla Cederna) sino alla “libertaria” Cuba, che la morte e il mito di Guevara fanno risplendere. L’America Latina era poi centrale anche per il mondo cattolico e dava nuove ragioni ai fermenti stimolati da noi, su altri terreni, dal Prete amaro di Barbiana o dall’Isolotto fiorentino di don Mazzi. Del resto i miti vietnamiti e latino-americani accompagnano ovunque il crescere del movimento studentesco europeo: a partire da quello tedesco. Un ’68 europeo segnato poi in profondità dal grande mito del “maggio francese”: ed era difficile resistere al fascino dell’ “immaginazione al potere”, con l’appello alla fantasia e a nuove forme di liberazione. Eppure non erano destinate a svanire quelle profonde crepe nel rapporto fra studenti ed operai di cui “L’Espresso” dava conto (Quando si muove la Francia), mentre Eugenio Scalfari analizzava con attenzione la rivincita conservatrice sancita dal responso elettorale di giugno. Molti anni più tardi lo stesso leader di quelle giornate, Daniel Cohn-Bendit, sottolineerà «l’ambivalenza del maggio, il suo arcaismo e la sua modernità. Era un misto fra l’ultima rivoluzione del XIX secolo e un movimento nuovo, inedito, che poneva i problemi della fine del XX secolo». E concluderà: «Noi siamo stati, allora, prigionieri della mitologia».

‘C’è un rapporto tra pensiero ed energia’.. Davvero? E da dove l’ha preso, questo? Forse da Massimo Fagioli?
l’espresso 20.5.18
Eugenio Scalfari
Il vetro soffiato
In ascolto del pensiero
Il mistero di ciò che accade nella nostra mente. Dove nasce, quale energia lo produce e come cambia con il tempo

Cartesio è rimasto celebre in tutto il mondo della cultura per il suo detto: «Penso, dunque sono». Intorno a quella definizione cambiò profondamente la cultura europea e poi quella di tutto l’Occidente. Lo stesso Descartes ci lavorò sopra per alcuni anni, consapevole che quelle sue poche parole avevano un carattere rivoluzionario, spostando l’attenzione di tutte le persone che hanno il dono della riflessione. Non sono molte. La maggior parte agisce d’impulso ed è il loro carattere a guidarle e gli studi dominati dall’ambiente in cui vivono. Quelli che riflettono sono i cosiddetti saggi ma in realtà non sempre sono mossi dalla saggezza; spesso sono incerti, dominati dal dubbio, talvolta per saggezza e talaltra per mancanza di volontà o per pigrizia o infine per viltà. Resta sempre, ed anzi si confronta con le varie reazioni che abbiamo elencato, la valutazione del pensiero come elemento centrale della nostra specie e quindi rappresenta un evento d’incredibile importanza che fu eguagliato un secolo dopo da Immanuel Kant con un altro detto non meno rivoluzionario: «Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me». Entrambe pensano al pensiero, a ciò che accade fuori o dentro di noi. Il pensiero vede e sente dentro e fuori di noi e qui un’altra do manda si pone: che cos’è il pensiero? Dove nasce? Cambia natura con lo scorrere del tempo e con il soggetto umano le cui facoltà mutano col passare del tempo? E il tempo, a sua volta, che cos’è? Alcuni affermano addirittura che il tempo è Dio, altri che Dio altro non è che il tempo. Vedete? La parte impalpabile della vita è piena di mistero, affascinante e insieme drammatico. Diderot disse: «I miei pensieri sono le mie puttane» cioè vanno e vengono, ti seducono e poi ti piantano dopo che tu ne hai pagato il servizio che ti hanno reso. È un modo assai adeguato di cogliere il fascino e la vitalità del pensiero. Ma dietro l’affermazione rivoluzionaria di Cartesio si affaccia un’altra figura di enorme importanza, il vero elemento fondatore della nostra specie, quello che ci distingue dal genere animalesco da cui proveniamo: l’Io. Secondo Descartes l’Io viene dal pensiero, ma secondo Kant è il pensiero che viene dall’Io. C’è di che passare il tempo su questa duplicità. Il pensiero è volatile, il più volatile di tutti i fenomeni dell’universo, più delle particelle elementari, più delle onde magnetiche, più degli atomi. C’è un altro elemento altrettanto volatile e forse ancora più importante del pensiero ed è l’energia.
C’è un rapporto tra pensiero ed energia: il pensiero può studiare l’energia e l’energia alimenta il pensiero. Il nostro pensiero però non è riuscito finora a capire come nasce l’energia. Ma il pensiero sa invece come e dove nasce: nella nostra mente, che a sua volta è un organo impalpabile del cervello. È naturalmente una creazione del cervello che è un organo corporeo con il quale comunicano tutti gli altri organi del corpo. Se la mente non ci fosse il nostro cervello retrograderebbe e la sua attività diventerebbe più scarsa di quello che conosciamo. Un’immagine che rende più efficace questa situazione si ricava da un altro tipo di confronto: la musica e un qualsiasi strumento musicale. Prendiamo per esempio un pianoforte o un violino o una batteria di tamburi. Se nessuno li suona diventano oggetti privi di qualunque funzione; non c’è musica e lo strumento non ha alcuna ragione per esistere. Se viene invece usato produce un suono impalpabile che è musica, quale che ne sia il valore artistico. Il pensiero e la mente che lo produce hanno un rapporto del tutto simile a quello d’uno strumento con la musica. Naturalmente questo paragone cambia anche secondo l’ambiente in cui viene prodotto: una stanza, un salone, un teatro, dei cantanti. L’ascolto è un ennesimo elemento da considerare per ricondurre al pensiero le nostre convinzioni. Noi ascoltiamo il nostro pensiero con il pensiero che, insieme alle sue tante funzioni, ha anche quella di ascoltare se stesso. Infine consideriamo il rapporto tra il pensiero e l’età anagrafica di chi pensa. Esso dipende molto da questo elemento, ma in modi diversi da persona a persona. La premessa è che pensiamo tutti, salvo i neonati che ancora non sono autonomi dalla madre che li ha creati ma è una dipendenza che dura pochi mesi. Di solito dopo un anno o due al massimo il bambino ha un pensiero autonomo da altre persone; è dominato dagli istinti: se ha sonno dorme, se ha fame vuole mangiare, se soffre per qualunque ragione piange. Non sono pensieri ma sensazioni che col passar dei mesi e degli anni si trasformano in pensieri. Elementari, ma già pensieri. La nascita del vero pensiero arriva con la stagione dell’adolescenza, che è quella fondamentale della vita poiché arriva il sesso che rende sensibili l’uomo e la donna. La persona è ormai completa, il pensiero altrettanto con tutti i suoi attributi, a cominciare dalla riflessione, dal giudizio sugli altri, sull’ambiente in cui vive, sulla famiglia, sul rapporto con i coetanei, infine su tutto ciò che lo circonda. Quando hai superato l’adolescenza il pensiero ha raggiunto anch’esso la sua pienezza che però non è uguale per tutti. Ci sono giovani ancora immaturi oppure è proprio quello il momento della loro maturità. Se prendiamo personaggi come Brodsky o Rilke o Leopardi o Dante o Thomas Mann o Foscolo, troviamo dei giovani o giovanissimi al massimo della loro creatività ma ne troviamo altri già in una vecchiaia avanzata, dopo una vita interamente creativa, che danno ancora il meglio di loro. Un esempio è Giuseppe Verdi che ormai in tarda età scrisse l’ultima e forse più importante partitura della sua musica operistica, o Benedetto Croce che morì ormai vecchio mentre stava scrivendo una delle sue riflessioni filosofiche. La mia personale esperienza è stata abbastanza positiva. Ho cominciato a pensare in modo creativo (nel senso formale del termine) da giovane, da uomo maturo e ora da quelli che i neurologi chiamano vegliardi. Il pensiero è cambiato non nel suo marchio fondamentale ma nelle sue espressioni formali. Resta ancora la sentenza cartesiana: «Penso, dunque sono». Finché durerà.