martedì 8 maggio 2018

l’espresso 6.5.18
Utero mio non ti conosco
Scarsa consapevolezza e educazione sessuale. Unico aiuto: la Rete. Una ricerca esclusiva tra gli under 18. E un quarto dice no all’aborto
di Elena Testi


L e domande si diffondono tramite un messaggio WhatsApp. I ragazzi aprono il link e compilano. Magari vacillano un po’ di fronte alla dicitura “legge 194” - «che roba è?» - ma una volta compreso che i quesiti riguardano l’interruzione di gravidanza, i dieci interrogativi si diffondono con un passaparola via chat. Da nord a sud, in dieci giorni, al sondaggio proposto in forma anonima dall’Espresso aderiscono 1.500 ragazzi con un’età compresa fra i 15 ed i 18 anni: il 61.4 percento sono femmine, il 35.9 sono maschi. Sono passati 40 anni da quando le adolescenti scendevano in piazza mostrando cartelli con su scritto “l’utero è mio e lo gestisco io”. E molte cose sono cambiate. In meglio, se parliamo di diritti, di leggi, di pillole d’emergenza. Ma anche in peggio, se parliamo di consapevolezza “politica”, conoscenza del problema, dialogo per affrontarlo. Dalle 1.500 risposte, ad esempio, emerge una generazione spaccata: il 58,5 si dice favorevole alla libertà di interrompere la gravidanza mentre il 25,6 è contrario e il 15.9 non ha alcuna opinione in merito. Con differenze geografiche forti e inquietanti: al sud la maggior parte degli intervistati sono contrari, al nord molti si dicono favorevoli ma vedono l’interruzione di gravidanza come «un diritto ormai acquisito e per questo scontato». Dei contrari, il 45,2 per cento si dice tale «per motivi etici», il 40,8 «per motivi personali» mentre il 14 percento «per motivi religiosi». Non tutti sono così, s’intende. Specie nelle grandi città. In un liceo alle porte di Roma, c’è Chiara che ha lo zainetto calato su una spalla, il braccio destro stringe il vocabolario di latino: «È giorno di versione», dice ansiosa. Non ha ancora diciotto anni ma il sesso non le è certo sconosciuto, come del resto per quasi tutte le sue compagne di liceo. Insieme a lei ci sono due ragazze: una è appena maggiorenne, l’altra frequenta la sua stessa classe. «Per me l’aborto è un diritto essenziale», dice una. «Alla ine il corpo è tuo e per quanto il figlio sia di entrambi, quella che deve fare la parte difficile è la donna». Al trio si aggiunge un’altra adolescente dello stesso liceo: «Io conosco una ragazza che ha deciso di non tenere il bambino, penso che alla ine abbia fatto bene perché a 16 anni non abbiamo la maturità per crescere un figlio». Prevale la volontà di continuare con gli studi, di considerare la gravidanza un ostacolo troppo grande per il proprio percorso di vita: sono questi i principali motivi che spingono un adolescente a voler abortire. «Ma c’è chi», dice una di loro, «invece decide di proseguire perché non vuole mettere ine a una vita”. In Italia i dati sono chiari: siamo il paese europeo con il minor numero di aborti tra i giovani. L’ultimo report pubblicato dal Ministero della Salute e datato 2016 parla di «2.596 interruzioni di gravidanza tra giovani che non hanno ancora compiuto 18 anni, con livelli più elevati nell’Italia centrale». È invece in crescita costante il cosiddetto fenomeno delle “baby mamme”, giovani che partoriscono tra i 15 ed i 20 anni: in base agli ultimi numeri pubblicati si parla di più di 20 mila madri minorenni nel nostro Paese. Tra gli adulti del domani c’è chi addossa la colpa proprio ai limiti della legge 194: l’aborto senza il consenso dei genitori passa attraverso l’approvazione del giudice tutelare che entro cinque giorni, come previsto dall’articolo 12, valuta la situazione e concede o meno alla minorenne la possibilità al trattamento chirurgico. Molti non conoscono la procedura e di fronte alla parola “giudice” restano interdetti. Una ragazza si infiamma: «Credo sia una decisione da prendere senza chiedere il permesso dell’autorità giudiziaria, perché si tratta di una questione personale, a maggior ragione se riguarda un minore, che ha tutti i diritti del mondo di decidere di rifiutare una gravidanza». Un’altra chiede invece «un adeguato supporto psicologico per chi è intenzionato ad abortire, in modo che possa essere il più informato e consapevole sulla questione». Sembra incredibile ma ancora nel 2018 nella scuola italiana l’insegnamento all’affettività e al sesso viene concepito come un argomento scottante, difficile, che è meglio appaltare alle famiglie, almeno stando ai risultati del sondaggio: per il 68.3 per cento l’educazione sessuale non entra in classe perché «è vista dalle istituzioni come un tabù» e solo il 39 per cento afferma di avere appreso tra i banchi di scuola l’uso dei contraccettivi. Se si va oltre la supericfie si scopre che spesso, anche quando c’è, l’educazione sessuale consiste in una sola lezione in tutti i cinque anni della scuola superiore. Uno studente di un liceo classico di Lodi accusa: «I progetti sono di poche ore e spesso decisamente parziali. Spiegare la sfera della sessualità è un percorso lungo, non ci si può limitare a mostrare quali sono i metodi contraccettivi». Si aggiunge una ragazza di Perugia: «La preside del nostro liceo aveva iniziato un percorso, ma questo si è interrotto dopo che alcuni genitori hanno protesto, ritenendo inopportuno che a scuole si insegnassero “certe cose”». Nel rapporto “Policies for sexuality education in the european union”, pubblicato dal Dipartimento Direzione generale per le politiche interne del Parlamento Ue, si scopre che l’Italia è uno dei sette paesi dove l’insegnamento all’educazione sessuale non è obbligatorio per legge: «Colpa», si legge nel documento, «dell’opposizione della Chiesa cattolica e di alcuni gruppi politici». Nel 1991 (cioè 27 anni fa!) il Parlamento tentò la svolta con un disegno di legge che introduceva l’insegnamento all’affettività con un modulo specifico durante le ore di biologia, ma la proposta naufragò e da allora nessuno ha più posto il problema. Sicché a portare l’educazione all’affettività nelle scuole, a volte, sono gli stessi studenti: come nel caso della Rete degli Studenti Medi che durante alcune assemblee d’istituto, organizzate in varie scuole italiane, ha invitato degli esperti per parlare con i ragazzi, consapevoli del fatto che - se il rapporto con i genitori non è solido e il senso di vergogna prende il sopravvento - per molti non resta che il web. Già: i forum pullulano di richieste d’aiuto di adolescenti allarmati che chiedono cosa devono fare in caso di gravidanza. Una ragazza spiega: «Internet mi dà la possibilità di trovare le informazioni necessarie che non sarebbero reperibili altrove. Naturalmente trovare siti e fonti affidabili non è facile, ma si riesce». Un’altra aggiunge: «Dal momento che nelle famiglie si discute poco di questi argomenti, può capitare che qualcuno preferisca cercare soluzioni sul web a problemi imbarazzanti». Così accade che “dottor Google” prenda il posto dei consultori, spariti dalla vista. Solo il 9,7 per cento dei ragazzi riferisce di avere varcato la soglia di un consultorio almeno una volta e solo per il 6,3 per cento «i consultori funzionano». Quasi un ragazzo su due nemmeno sa rispondere alla domanda. Uno studente di Catanzaro dichiara di non sapere neanche se nella sua città esistono o meno; una ragazza di Roma dice di conoscere pochissime coetanee che hanno deciso di rivolgersi a «uno di quei centri per risolvere un problema». Le risposte al sondaggio sembrano confermare: alla domanda «in caso di gravidanza a chi ti rivolgeresti?» solo il 4 per cento pensa che andrebbe in un consultorio. Una sconfitta pesante per loro ma anche per la generazione precedente: quella che tanto ha lottato per il diritto di averli e di farli funzionare.