l’espresso 6.5.18
Il nostro calvario non è finito
Di Valeria Parrella
Il
senso più bello, più profondo, per cui essere orgogliosi dopo
quarant’anni dalla 194, e quello più abietto, più vergognoso, passano
per due racconti del terrore. Il primo, quello che ci dice tutta la
bellezza di vivere in un paese liberato dalle nostre madri, è il
racconto delle nostre nonne. Delle donne che oggi hanno ottanta e
novant’anni: se ne sentono molti, soprattutto al sud, soprattutto nei
paesi. Sono racconti intimi, personali, difficile che arrivino alle
orecchie degli uomini: essi passano sotto quelli accettati e comuni che
riguardano i bombardamenti, la fame, e la conquista del voto. Sono,
ancora adesso, ancora dopo cinquant’anni da quando accaddero, racconti
clandestini: perché si nutrono di un dolore che vive nelle cavità del
corpo. Vivono nelle braccia artritiche, sotto i capelli bianchi. E
dicono che tra le violenze più atroci agite sul corpo delle donne, c’è
il portare in grembo per nove mesi un bambino non voluto. Questa pena
non si può comminare a nessuno, nessun maschio la tollererebbe. Bisogna
prestare ascolto a queste donne avvizzite, con gli occhi buoni, che
hanno sfaccendato per i loro mariti una vita sana, bambine di fronte
alla tecnologia, le donne incapaci di prendere da sole un autobus perché
il perimetro della loro libertà finiva al fruttivendolo sotto casa.
Raccontano tutte le stesse storie: «all’epoca tante cose non si
sapevano» dicono delle sette, dieci volte in cui sono rimaste incinta,
credendo davvero che anche i loro mariti non sapessero, o giustificando
la loro inettitudine, perché tanto ormai è fatta. Farsi raccontare i
giorni di terrore in attesa del mestruo, e l’oltraggio infinito del non
poter fare nulla. O arrischiar la vita dalle mammane illecite «come le
prostitute» dicono, e non c’è giudizio: c’è solo compassione per una
sorte ancora più grama. Bisogna ascoltare la ricetta dell’infuso di
prezzemolo. I dolori. Quelle belle mani nodose che si stringono tra di
loro, come se le contrazioni fossero ora. È contro questa immagine di
strazio che si levarono le nostre madri in piazza. E quei padri che
volevano vivere accanto a donne libere e fiere. La storia della nostra
vergogna passa per il racconto delle nostre figlie: delle ragazze che
sciamano dalle università, giovani donne fragili e bellissime che
custodiscono il futuro. Un racconto in cui il proprio corpo diventa
campo di battaglia di ginecologi obiettori di coscienza, delle asl che
lo consentono, di un sistema che garantisce l’impunità a chi non applica
la legge. È la storia del calvario a cui le nostre ragazze sono
sottoposte se decidono di abortire. La corsa contro il tempo, lo
spostamento di distretto in distretto, lo sconfinamento in altre regioni
e poi, lo raccontano tutte: l’atteggiamento supponente, lo sdegno dei
sanitari. Lo raccontano tutte, anche chi quel figlio lo voleva e ha
dovuto praticare l’aborto terapeutico: il giudizio intollerabile, la
mancanza di assistenza nella fase finale. Pensare “adesso muoio” e non
poter chiedere a nessuno se è vero, perché l’ultimo infermiere non
obiettore aveva finito proprio allora il suo turno. Sono storie di roghi
e inquisizioni del nuovo millennio davanti alle quali nessun padre-
neppure il medico obiettore vorrebbe si trovasse mai la propria figlia,
pericolose e buie come quelle di allora: perché dai sensi di colpa
esalano le dittature. Mentre la legge 194 nacque dall’afflato opposto:
liberare gli esseri umani dal senso di colpa sociale dell’essere
artefici della propria esistenza.