martedì 8 maggio 2018

l’espresso 6.5.18
Il nostro calvario non è finito
Di Valeria Parrella


Il senso più bello, più profondo, per cui essere orgogliosi dopo quarant’anni dalla 194, e quello più abietto, più vergognoso, passano per due racconti del terrore. Il primo, quello che ci dice tutta la bellezza di vivere in un paese liberato dalle nostre madri, è il racconto delle nostre nonne. Delle donne che oggi hanno ottanta e novant’anni: se ne sentono molti, soprattutto al sud, soprattutto nei paesi. Sono racconti intimi, personali, difficile che arrivino alle orecchie degli uomini: essi passano sotto quelli accettati e comuni che riguardano i bombardamenti, la fame, e la conquista del voto. Sono, ancora adesso, ancora dopo cinquant’anni da quando accaddero, racconti clandestini: perché si nutrono di un dolore che vive nelle cavità del corpo. Vivono nelle braccia artritiche, sotto i capelli bianchi. E dicono che tra le violenze più atroci agite sul corpo delle donne, c’è il portare in grembo per nove mesi un bambino non voluto. Questa pena non si può comminare a nessuno, nessun maschio la tollererebbe. Bisogna prestare ascolto a queste donne avvizzite, con gli occhi buoni, che hanno sfaccendato per i loro mariti una vita sana, bambine di fronte alla tecnologia, le donne incapaci di prendere da sole un autobus perché il perimetro della loro libertà finiva al fruttivendolo sotto casa. Raccontano tutte le stesse storie: «all’epoca tante cose non si sapevano» dicono delle sette, dieci volte in cui sono rimaste incinta, credendo davvero che anche i loro mariti non sapessero, o giustificando la loro inettitudine, perché tanto ormai è fatta. Farsi raccontare i giorni di terrore in attesa del mestruo, e l’oltraggio infinito del non poter fare nulla. O arrischiar la vita dalle mammane illecite «come le prostitute» dicono, e non c’è giudizio: c’è solo compassione per una sorte ancora più grama. Bisogna ascoltare la ricetta dell’infuso di prezzemolo. I dolori. Quelle belle mani nodose che si stringono tra di loro, come se le contrazioni fossero ora. È contro questa immagine di strazio che si levarono le nostre madri in piazza. E quei padri che volevano vivere accanto a donne libere e fiere. La storia della nostra vergogna passa per il racconto delle nostre figlie: delle ragazze che sciamano dalle università, giovani donne fragili e bellissime che custodiscono il futuro. Un racconto in cui il proprio corpo diventa campo di battaglia di ginecologi obiettori di coscienza, delle asl che lo consentono, di un sistema che garantisce l’impunità a chi non applica la legge. È la storia del calvario a cui le nostre ragazze sono sottoposte se decidono di abortire. La corsa contro il tempo, lo spostamento di distretto in distretto, lo sconfinamento in altre regioni e poi, lo raccontano tutte: l’atteggiamento supponente, lo sdegno dei sanitari. Lo raccontano tutte, anche chi quel figlio lo voleva e ha dovuto praticare l’aborto terapeutico: il giudizio intollerabile, la mancanza di assistenza nella fase finale. Pensare “adesso muoio” e non poter chiedere a nessuno se è vero, perché l’ultimo infermiere non obiettore aveva finito proprio allora il suo turno. Sono storie di roghi e inquisizioni del nuovo millennio davanti alle quali nessun padre- neppure il medico obiettore vorrebbe si trovasse mai la propria figlia, pericolose e buie come quelle di allora: perché dai sensi di colpa esalano le dittature. Mentre la legge 194 nacque dall’afflato opposto: liberare gli esseri umani dal senso di colpa sociale dell’essere artefici della propria esistenza.