l’espresso 6.5.18
Grazie Gigliola, contadina veneta Anno 1973, una ragazza finisce alla sbarra: fu così che tutto iniziò
di Chiara Valentini
Il
momento d’inizio della lunga battaglia per la legge sull’interruzione
volontaria di gravidanza fu, probabilmente, il processo a Gigliola
Pierobon: una ragazza figlia di contadini di San Martino di Lupara,
provincia di Padova, processata nel maggio del 1973 per aver abortito.
Rimasta incinta a 17 anni e abbandonata dal suo ragazzo, terrorizzata
dall’idea di essere cacciata di casa, Gigliola aveva conosciuto il
triste percorso dell’aborto clandestino: il tavolo di cucina di una
mammana, una sonda rudimentale piantata in corpo, un dolore atroce, una
grave infezione. La sua avvocata, Bianca Guidetti Serra, trasformò il
processo in un evento politico-mediatico. E Gigliola in un’aula gremita
di pubblico femminile, scandì: «La mia storia è quella di tante altre e
il mio “reato” è un fatto commesso ogni anno in Italia da più di tre
milioni di donne». Il dato era forse esagerato (secondo il ministero
della Sanità la cifra, comunque impressionante, era di 750 mila). Ma il
problema dell’aborto, ancora vietato dalle norme di epoca fascista e
inserito fra i delitti “contro l’integrità e la sanità della stirpe” con
pene da due a cinque anni, era troppo drammatico e contraddittorio con
la nuova aria dei tempi, specie dopo la vittoria del divorzio nel
referendum del 1974. Così attorno al tema nacque e si sviluppò il
movimento delle donne, con tutte le sue varianti. Il primo, tra i gruppi
organizzati, fu il “Movimento di liberazione della donna” (Mld), presto
federato con il partito Radicale di Marco Pannella: fra i suoi
obiettivi principali, proprio la legalizzazione dell’aborto e un
referendum per ottenerla. Al contrario “Rivolta femminile”, il movimento
che faceva capo alla neofemminista Carla Lonzi, nel suo manifesto
dichiarava “decaduta di fatto” la legge antiabortiva «in nome dei
milioni di aborti a cui sono costrette le donne». In un’ottica ancora
diversa un’altra propaggine radicale, il Cisa diretto da Adele Faccio
(dove presto si attiverà la giovane Emma Bonino) che scelse le
iniziative concrete della disobbedienza civile: Bonino accompagnava
periodicamente gruppi di donne di altre città ad abortire
clandestinamente a Firenze, nell’ambulatorio del ginecologo radicale
Giorgio Conciani; un altro gruppo femminista, il Crac, organizzava
viaggi analoghi a Londra. Tutto questo andirivieni non sfuggì alla
polizia, che nel gennaio del 1975 fece irruzione nella clinica
fiorentina e oltre a Conciani arrestò quaranta donne in attesa
dell’intervento. Scattarono le manette anche per Adele Faccio ed Emma
Bonino, oltre che per il segretario radicale Gianfranco Spadaccia. Era
la prima volta dalla ine del fascismo che veniva arrestato un segretario
di partito. Anche la stampa finì sotto tiro: “L’Espresso”, che aveva
pubblicato in copertina l’immagine di una donna incinta, nuda e
inchiodata a una croce, fu sequestrato per vilipendio della religione e
il direttore Livio Zanetti denunciato. Diverse manifestazioni di
protesta si tennero in varie città italiane e i radicali riuscirono a
raccogliere le firme per un referendum sull’aborto, a cui non si giunse
per lo scioglimento delle Camere, nel 1976. Intervenne però la Corte
Costituzionale che dichiarò non punibile l’aborto terapeutico in base al
principio che il diritto alla vita e alla salute di «chi è già persona»
non è equivalente a quello di chi «persona deve ancora diventare». Fu
un’apertura importante e anche il Parlamento si mosse con un testo dove
l’aborto veniva dichiarato lecito, ma con la decisione finale spettante
al medico anziché alla donna. Il movimento, cresciuto tumultuosamente,
si rivoltò e il 6 dicembre a Roma 20 mila donne sfilarono per le strade
gridando «Vogliamo l’autodeterminazione», cioè la libertà e la
responsabilità di «decidere del nostro corpo». Per sottolineare questa
posizione le donne del movimento chiesero ai maschi di non partecipare
al loro corteo. Vennero contestati anche i leader di sinistra:
«Berlinguer, non passerai sulla pancia delle donne», era uno degli
slogan ricorrenti; negli anni del compromesso storico con la Dc
aleggiava infatti il sospetto di un Pci troppo cedevole su temi cari ai
cattolici e al Vaticano. E in effetti nella proposta comunista era
prevista addirittura, per la decisione finale, una commissione di tre
esperti, quasi un piccolo tribunale. A svolgere una mediazione
importante ci pensò l’Udi, la storica associazione delle donne della
sinistra, che si era battuta per l’autodeterminazione. Così, quando la
Dc e i neofascisti del Msi fecero passare con un colpo di mano un
articolo che di nuovo definiva l’aborto come un reato, il movimento mise
in atto la sua manifestazione più grande, quella “delle 50 mila donne”.
Per la prima volta sfilò anche l’Udi e Berlinguer capì che la libertà
femminile andava riconosciuta ino in fondo. La legge 194 passò nella
primavera del 1978 e fu pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 22
maggio. Non tutti i cattolici la digerirono, e alcuni fra l’altro
rinfacciarono ai laici e alla sinistra di averla fatta approvare nei
giorni drammatici della prigionia e dell’assassinio di Aldo Moro, quasi
approfittando dello sbandamento della Dc. I radicali e un’ala del
femminismo chiedevano al contrario la liberalizzazione completa, anche
per le minorenni. Si arrivò così, nel maggio del 1981, a due referendum
abrogativi di segno opposto: uno per cancellare e uno per ampliare la
legge 194. Entrambi furono bocciati. Quello dei cattolici oltranzisti si
scontrò con il 68 per cento di No, 9 punti in più del referendum sul
divorzio. La legge 194 era salva