l’espresso 6.5.18
DOSSIER Quarant’anni dopo la 194 
L’aborto dimenticato
Una
 grande battaglia civile. Vinta con una buona legge. Il numero è in 
calo. Ma ancor oggi per tante donne è una drammatica lotteria
di Susanna Turco
Era
 una «tragedia italiana», è stata una battaglia collettiva, simbolica, 
epocale. Una rivoluzione. «Imperfetta ma riuscita», come ha detto il 
medico e scrittore Carlo Flamigni. Dove è finita, quarant’anni dopo, la 
legge 194? Dirlo fuori dai cliché è difficilissimo. «Qualche tempo fa 
eravamo stati chiamati dagli studenti di un liceo di Roma, per discutere
 Mina Welby del fine vita e io di aborto. Mentre parlava lei i ragazzi 
erano affascinati, quando è venuto il mio turno erano, invece, 
distratti. Come se, sotto sotto, si domandassero: questo non è un 
problema, perché ti riscaldi tanto? Ma che cosa vuoi?». Mirella 
Parachini, ginecologa pioniera della 194 e attivista radicale, racconta 
così, con franchezza e ironia, l’ultima frontiera, il punto in cui la 
ruota si è fermata, per adesso almeno. Per i liceali del 2018 del resto,
 la legge che rende le donne libere di scegliere sull’interruzione di 
gravidanza è ancora più lontana di quanto non fosse, per i liceali del 
1978 , il diritto di voto femminile. Un frammento delle cronache 
dell’epoca aiuta a misurare i passi: «Per noi l’autodeterminazione della
 donna, ormai, è diventata un principio intoccabile», proclamava alla 
Camera, in piena trattativa sulla legge, D’Alema a Ciriaco De Mita. Ma 
era D’Alema nel senso di Giuseppe, il padre di Massimo. Da quell’«ormai»
 sono passati quarant’anni. Dal milione e mezzo di aborti clandestini 
stimati dall’Unesco per l’Italia dei primi anni Settanta, e gli 84 mila 
effettuati nel 2016 secondo legge, i termini della questione si sono 
fatti «più sottili». Tra l’applicazione a macchia di leopardo, che in 
alcune regioni d’Italia muta il diritto «in una drammatica lotteria», 
come dice Stefania Cantore dell’Unione donne in Italia parlando della 
situazione difficile di Napoli e Campania, i toni spesso a torto 
pimpanti delle relazioni ministeriali, le campagne violente da parte 
degli anti-abortisti, che si sono preparati all’anniversario affiggendo a
 Roma il cartellone con il feto più grande che la storia ricordi. In 
mezzo a tutto ciò, si viaggia anche su altri canali di un diritto 
acquisito. Che va difeso “Per non tornare nel buio” come recita il 
recente libro di Livia Turco: ricordando, come dice Filomena Gallo, 
segretaria dell’Associazione Luca Coscioni, che «la 194 tutela la salute
 delle donne, che quindi renderla inapplicabile significa volerle 
colpire»; o lottando per migliorare, con una maggior diffusione dei 
farmaci, o per la contraccezione gratuita. Ma senza tralasciare il dato 
di fondo: la legge funziona, nonostante molte criticità. «Ci sono cose 
che non vanno, ma non bisogna fermarsi alla lamentela. Se guardo 
indietro, benedico una legge che è servita
a portare avanti la 
libertà delle donne di scegliere su se stesse», dice ancora Parachini. 
Un diritto conquistato e in parte svuotato. Non solo per le difficoltà 
di accesso: anche perché, come racconta uno studio Istat elaborato in 
occasione dei 40 anni della 194, in Italia si fanno meno figli e in età 
più avanzata, è entrata in gioco la contraccezione d’emergenza (enorme 
la crescita di questi anni), e tra bassi tassi di fecondità e bassi 
tassi di aborti (tra i più esigui dei paesi occidentali), la questione 
si è spostata, è andata da un’altra parte. Molise, il caso limite 
Saltano all’occhio, ad esempio, i dati raccolti per L’Espresso e 
riportati nelle pagine seguenti, un sondaggio secondo il quale il 90 per
 cento dei ragazzi interpellati, età compresa tra i 15 e i 18 anni, non è
 mai entrato in un consultorio;
solo il 6 per cento crede che 
funzionino; soltanto il 4 andrebbe lì a parlare di una eventuale 
gravidanza. Fotografia di un fallimento. Ben oltre la realtà di una rete
 che ha sempre faticato ad avviarsi. La 194, in effetti, faceva dei 
consultori una pietra angolare del contatto con le donne, il primo punto
 di riferimento, dall’educazione alla contraccezione al rilascio del 
certificato per abortire. Un ruolo mai davvero sviluppato. Nel 1980 
c’erano 917 consultori - nessuno in Molise, quattro in Sicilia. In 
trentasei anni se ne sono aggiunti appena mille. Nell’ultima relazione 
del ministero della Sanità, infatti, i consultori censiti risultano 
1.944 (4 in Molise), pari a un tasso dello 0,6 per ventimila abitanti 
(per legge quel tasso dovrebbe essere 1, cioè quasi il doppio). «È 
chiaro che i ragazzi non frequentano i consultori, è un dato di 
evidenza: perché non li conoscono», spiega Anna Pompili, cofondatrice di
 Amica (Associazione Medici Italiani Contraccezione e Aborto): «Ormai i 
consultori non riescono più ad andare nelle scuole. Sono ridotti a fare 
le veci degli ambulatori. Hanno equipe ridotte all’osso, non si riesce a
 gestire nemmeno l’ordinario». La realtà è lontana anche dalle 
statistiche: «I dati ministeriali non la fotografano. Nella regione 
Lazio, ad esempio, sotto la voce “consultori” ci sono anche centri 
vaccinali, per disabili, di psichiatria infantile. A Milano, su 33 
consultori, 12 sono privati e, di questi, 10 sono confessionali. Come 
può parlare di contraccezione il consultorio Massimiliano Kolbe? Al 
massimo, se va bene, parla di metodi naturali e della loro straordinaria
 efficacia», dice Pompili. Che porta un altro esempio: «Ho lavorato al 
consultorio di Cesano di Roma, una frazione importante, più di 10 mila 
abitanti e tante donne immigrate. In poco tempo sono andate in pensione,
 progressivamente: assistente sociale, ostetrica, psicologa. Alla fine 
eravamo rimaste in due ginecologhe con una infermiera. La Asl ci ha 
spostato ad altri consultori: ufficialmente però quello di Cesano resta 
aperto, c’è una infermiera due volte a settimana che risponde alle 
telefonate. E una ginecologa che va a fare i pap test ogni tanto». 
Sempre nel Lazio, la consulta dei consultori nel 2014 ha fatto una 
indagine, dalla quale risultava poco più della metà dei consultori 
avevano equipe mediche complete, e nella grande maggioranza dei casi i 
locali riuscivano a restare aperti due giorni su sette. La stessa 
relazione del ministero della Salute, in effetti, non nasconde la 
problematica di una «non adeguata presenza sul territorio». Che è alla 
base anche della scarsa diffusione dei metodi contraccettivi tra i 
giovani, un punto sul quale l’Italia continua a non brillare a paragone 
con il resto d’Europa Benedette pillole Calano gli aborti: ogni anno 
sono un po’ meno, sulla serie lunga dagli oltre 200 mila della fine dei 
Settanta, ino agli 84 mila del 2016. Ovviamente anche perché cambiano 
gli stili di vita. Di questi anni è ad esempio il boom della 
contraccezione d’emergenza. Con l’entrata in commercio della pillola dei
 cinque giorni dopo (2012) e l’abolizione dell’obbligo di ricetta le 
vendite si sono moltiplicate: secondo i dati Aifa, la distribuzione 
della pillola dei cinque giorni dopo è schizzata dalle quasi 7,7 mila 
confezioni del 2012, alle 189 mila del 2016; e quella della Norlevo, 
nota come “pillola del giorno dopo”, nel 2016 ha registrato un dato di 
vendita pari a 214,532 confezioni, in aumento rispetto al 2015 in cui 
registrava 161,888 confezioni distribuite. Il che porta dritti alla 
domanda: «Visto che proprio per le giovanissime, negli ultimi anni, la 
percentuale di aborti non è calata, perché non rendere più facile 
l’accesso a questi farmaci anche per le minorenni?», dice Parachini. Il 
buco nero del sommerso I dati sono comunque in discesa. Non solo tra le 
italiane. Ma anche tra le immigrate, che rappresentano circa un terzo 
delle interruzioni totali, ma il cui tasso di abortività è in calo da 
qualche tempo. Tutto a posto dunque? Fino a un certo punto. «In ospedale
 poco tempo fa c’erano tante nigeriane, che improvvisamente sono tutte 
scomparse», racconta Pompili: «Il ministero si rallegra per il calo, ma 
non si domanda dove siano finite, quelle nigeriane. Oltre a sbandierare 
che siamo sotto i centomila aborti l’anno, si dovrebbe domandare se 
queste donne abbiano improvvisamente smesso di abortire, o se magari 
siano andate altrove», nota Pompili. Il sospetto, non riscontrabile in 
dati, è che in parte il fenomeno ritorni nel privato, fuorilegge, in 
casa, tra le mura. Non più mammane e ferri da calza, certo. La 
contemporaneità porta strumenti che prima non c’erano: il web e i 
farmaci. Via internet si ricava qualsiasi informazione, comprese tutte 
quelle necessarie ad abortire. Si può sapere a chi rivolgersi per 
ottenere ricette e certificati, si può trovare un qualsiasi aiuto e ogni
 genere di istruzione, ci si può anche procurare i farmaci necessari ad 
abortire. Una procedura più rischiosa, oltreché illegale: ma rendere 
difficili gli aborti spinge anche in quella direzione. Verso il Cytotec,
 ad esempio, un farmaco che una volta serviva per le ulcere gastriche. 
Così, in ospedale ci si finisce d’urgenza. Quanto ai numeri, difficile 
quantificare i fuorilegge. Il ministero della Salute pubblica i dati 
Istat derivati da un modello statistico, che peraltro è invariato da 
anni. Secondo questi studi, a situarsi fuori dalla legge sono tra i 12 e
 i 15 mila aborti l’anno, più 3-5 mila delle straniere. Come racconta 
Filomena Gallo, però, i segnali concreti di questo fenomeno da una parte
 ci sono, dall’altra sono pochi. La relazione annuale del ministero 
della Giustizia (anche in via Arenula devono dire ogni anno come sta 
andando la 194 dal loro punto di vista) segnala che nel 2016 ci sono 
stati 33 procedimenti penali per violazione della 194, con 42 persone 
coinvolte. Troppo poche, in rapporto ai 20 mila stimati dall’Istat. Una 
esiguità che peraltro lo stesso rapporto del ministero della Giustizia 
sottolinea: quasi fosse una buona notizia, quando invece si tratta del 
segno di un mistero. Ma allora, come tornano i conti?
Ci sono solo
 piccolissimi segnali che indicano direzioni possibili. Ad esempio Women
 on web, un’organizzazione digitale “per il diritto all’aborto” con sede
 ad Amsterdam, invia per posta, a chiunque ne faccia richiesta, la 
combinazione di misoprostolo e mifepristone (le due pillole per l’aborto
 farmacologico) nei Paesi dove la pratica o è illegale o è 
inaccessibile: ebbene, secondo dati non ufficiali, le italiane li 
cercano sempre di più: 28 donne nel 2013, 53 nel 2014, 278 nel 2015, 
fino alle 474 del 2017. I numeri sono relativi, il trend però 
chiarissimo. Se questi sono i dati di chi sostiene la libera scelta 
della donna senza ini di lucro, c’è solo da supporre cosa possa accadere
 nei vasti mondi in cui il guadagno c’entra eccome. Per lo meno, 
significa che qualcosa non funziona, più di quanto le esultanze 
ministeriali non dicano. In Italia del resto l’aborto farmacologico 
stenta a decollare: entrato in commercio nel 2009, in meno di dieci anni
 è passato dallo 0,7 al quasi 16 per cento del totale degli aborti. Una 
crescita veloce, che però è scarsissima, rispetto agli altri paesi in 
cui è consentito l’utilizzo della Ru486. «Tutti gli altri paesi europei 
sono sopra il 50 per cento», spiega Anna Pompili. Ci sono limitazioni 
oggettive, nel nostro Paese, che potrebbero essere superate. Ad esempio,
 nonostante la commercializzazione sia avvenuta attraverso il meccanismo
 del mutuo riconoscimento, l’Aifa ha stabilito che le italiane possono 
utilizzare la Ru486 ino alle sette settimane (49 giorni) mentre negli 
altri paesi europei il limite è più ampio e arriva a 63 giorni e le 
ultime raccomandazioni della Fda allargano il regime a settanta giorni, 
raccomandando che la somministrazione avvenga in casa. Da noi invece 
nella maggior parte delle regioni è ancora necessario il ricovero 
ospedaliero di tre giorni. Altro che casa. «Gli stessi farmaci servono 
per gli aborti spontanei: ma in quei casi, sempre secondo Aifa, possono 
essere somministrati in ambulatorio. Invece se si tratta di aborti 
volontari, no», dice Pompili. Dove il diritto non esiste Ovviamente, 
come racconta chi se ne occupa, se si affermasse l’aborto farmacologico 
sarebbero superati due dei limiti più gravi nell’applicazione della 194:
 l’obiezione di coscienza dei singoli medici e delle intere strutture 
ospedaliere. L’ultimo elemento, fa si che la 194 sia garantita, di fatto
 in poco più di metà delle strutture (si sfiora giusto adesso il 60 per 
cento): in teoria, invece, dovrebbe essere il cento per cento. Parachini
 è lineare: «La legge lo dice benissimo. L’ente ospedaliero è tenuto in 
ogni caso, in ogni caso ad assicurare l’espletamento. L’espletamento, 
non il trasferimento». In pratica, infatti, tutto ciò significa che per 
interrompere la gravidanza è necessario spostarsi. Di provincia o di 
regione. Anche in questo caso i dati del ministero sbiadiscono il 
fenomeno, perché pubblicano i dati su base regionale. Ma già se, grazie 
all’Istat si scende a livello di provincia, il discorso è un po’ più 
chiaro: città come Isernia, Crotone, Frosinone o Fermo totalizzano zero 
aborti. Là è impossibile interrompere la gravidanza. Le centinaia di 
donne che ne hanno avuto necessità, sono emigrate per lo meno nella 
provincia più vicina. Quando non fuori regione. Accade anche l’inverso, 
come racconta ad esempio il caso di Petralia Sottana, tremila abitanti e
 almeno 300 donne che ogni anno arrivano da fuori per fare gli 
interventi di interruzione di gravidanza, in una regione dove 
l’obiezione supera l’86 per cento. Gli ostacoli che si incontrano sulla 
strada dell’interruzione non sono tutti visibili al primo colpo 
d’occhio. L’ultimo emerso in ordine di tempo è quello di Napoli dove, 
certificato da una inchiesta del Mattino, è saltato fuori che il Pertini
 accetta ino a sette persone al giorno, e il Cardarelli ino a quattro il
 martedì e il giovedì. In una regione dove da anni non si riesce a 
quantificare quanti siano gli obiettori di coscienza. Gli ultimi dati, 
del 2013 e comunque parziali, parlano dell’81,8 per cento dei 
ginecologi. È proprio l’obiezione a restare l’aspetto più critico di 
tutti. Percentuali altissime, picchi che sfiorano il 90 per cento, come 
in Basilicata, o casi da fiction, come il caso di un unico “non 
obiettore” in tutto il Molise. Il tema si è posto in dall’inizio. Già 
nel 1980 gli obiettori erano il 70 per cento della popolazione medica. 
E, nonostante la vertiginosa discesa del numero di aborti, la situazione
 non accenna a migliorare, anzi. Il numero dei “non obiettori” continua a
 calare: un po’ perché molti raggiungono l’età della pensione, come ha 
segnalato la Laiga già tre anni fa, un po’ perché la prevalenza di 
medici obiettori ai vertici di ospedali e università non incentiva certo
 a prendere quella strada. Nel 2016, al congresso Fiapac di Lisbona sono
 stati presentati i risultati di un questionario sottoposto agli 
specializzandi in ginecologia delle università romane. Ebbene, un medico
 su tre aveva una conoscenza «insufficiente» della 194 e solo il 15 per 
cento si era occupato di interruzione volontaria, contro il 74 per cento
 che invece aveva afrontato gli aborti spontanei. Senza formazione, è 
difficile poi spingersi a scegliere quelle strade. Idea: cambiare i 
concorsi Ma come mai, anno dopo anno, il ministero certifica che «non ci
 sono particolari criticità nell’erogazione del servizio di Ivg», mentre
 invece dalle realtà locali arrivano notizie talvolta drammatiche? 
Silvana Agatone, presidente di Laiga, spiega: «Per arrivare ai dati che 
diffonde il ministero, ogni anno noi medici riempiamo una scheda, un 
foglio per ogni aborto. Accade che, se io vado in pensione, non faccio 
più schede. La ministra Lorenzin dirà: bene, sono calati gli aborti. Fa 
ridere? È questo quel che accade: non ci sono rilevazioni sulla 
richiesta di interrompere la gravidanza, ma solo sugli aborti 
effettuati. Se, ad esempio, il San Camillo di Roma riesce a offrire 
dieci posti al giorno ma la richiesta è di trenta, delle donne che 
restano fuori nessuno sa nulla, al ministero non arriva. A Trapani c’era
 un “non obiettore”. Faceva ottanta interruzioni al mese. È andato in 
pensione: non si sono fatti ottanta aborti. Domanda: dove sono finite le
 donne che non hanno potuto abortire a Trapani?». Invece, nessuno lo 
chiede: quando diminuisce l’offerta magicamente sembra diminuire anche 
la domanda. Chiosa di Parachini: «Al che, la ministra fa una cosa 
geniale. Prende il numero degli aborti, prende il numero degli 
obiettori, fa la divisione e conclude: ammazza, i “non obiettori” 
avanzano. La verità è che si tratta di un calcolo demenziale». Se è per 
questo, c’è chi l’obiezione vorrebbe toglierla del tutto. E chi pensa 
che i due diritti possano continuare a convivere. Ma, spiega Filomena 
Gallo, comunque «servirebbe una legge per disciplinare l’obiezione di 
coscienza, magari per impiegare in modo diverso chi fa quella scelta. 
Servirebbe anche un albo pubblico dei medici obiettori, cosicché le 
donne possano scegliere da chi farsi seguire, e la garanzia dei concorsi
 divisi a metà: cinquanta per cento dei posti per gli obiettori, l’altro
 cinquanta per i non obiettori». Proprio attorno a questo tema si 
muovevano le (poche) proposte di legge per modificare la 194 nell’ultima
 legislatura: avanzate, in termini diversi, da sinistra, Forza Italia e 
Cinque stelle. Non che gli attacchi alla 194 siano finiti. Anche se 
siamo lontani dall’epoca in cui Giuliano Ferrara chiedeva «la 
moratoria», le associazioni degli integralisti dell’antiaborto non hanno
 perso vigore. L’iniziativa più recente è quella di Pro-vita onlus, che 
si è appoggiata ai senatori di Lega e Fratelli d’Italia per promuovere, 
anche dalle aule del Senato, una campagna in cui chiede al ministero 
della Salute di diffondere fantomatiche informazioni «relative ai danni 
che l’aborto può causare alla salute delle donne». Ed è già alle viste 
un convegno sulla denatalità e un corteo anti-aborto. Buon anniversario,
 legge 194. 
 
