l’espresso 6.5.18
Le idee
Dis-education
L’abuso dell’inglese. Il modello aziendale. Così il ministero distrugge la scuola
di Raffaele Simone
Tra
le tante iniziative in ricordo di Tullio De Mauro che stanno avendo
luogo a un anno e poco più dalla sua scomparsa, non mi pare di averne
vista nessuna dedicata a una delle imprese a cui teneva di più. Parlo
della sua testarda speranza che l’amministrazione italiana potesse
finalmente imparare, se non a parlare, almeno a scrivere in modo civile e
affabile. A questa speranza dette corpo tra l’altro promuovendo il
“Manuale di stile dei documenti amministrativi” di Alfredo Fioritto
(2009). Se la ministra Fedeli, che in più occasioni si è fatta paladina
della memoria di De Mauro, se ne fosse ricordata, dai suoi uffici non
uscirebbero documenti come il raggelante Sillabo (sic) per l’educazione
all’imprenditorialità destinato alle scuole medie di secondo grado, che
ha fatto scalpore il mese scorso. Il Sillabo, che è accompagnato da una
circolare non meno raggelante, è infatti gremito di espressioni inglesi
fitte fino allo stordimento: molte inutili, parecchie oscure, altre
platealmente ridicole. Su questo punto è insorta l’Accademia della
Crusca, che vigila sulla comunicazione pubblica segnalando eccessi,
abusi e sfondoni. Secondo l’Accademia, il Sillabo sembra promuovere, più
che lo spirito imprenditoriale, «un abbandono sistematico della lingua
italiana». Un vero scoramento deve aver colto l’Accademia, se, alla ine
della nota sul Sillabo, gettando la spugna, dichiara che «in
considerazione della gravità del modello linguistico-concettuale offerto
dal Sillabo» rinuncia del tutto a proporre soluzioni italiane
alternative. È chiaro che per rieducare l’amministrazione italiana (nel
linguaggio e in altri ambiti) non è bastato lo scrupolo di De Mauro né
basta la devozione che la ministra gli dichiara. La Crusca però ha
segnalato con discrezione un altro aspetto critico del Sillabo: oltre
che la lingua in cui è scritto, a creare allarme sono i concetti di cui è
intessuto. Il itto documento (11 pagine) infatti non è che una tetra
lista di frasi all’infinito (alcune senza neanche quello), divise in
gruppi tematici e messe in fila quasi come giaculatorie, che non dicono
nulla a chi si aspetta che i discorsi contengano un senso complessivo.
Ci vuol poco a immaginare che il Sillabo non è che la svelta messa in
pagina di uno di quei Power Point che psicologi e consulenti aziendali
usano a sostegno delle loro chiacchierate. Riporto qui alcuni campioni
pescati a caso, con miei concisi commenti tra parentesi: «Comprendere
l’importanza di avere una visione su possibili scenari futuri e loro
concrete attuazioni (ovvio, banale). Condividere le passioni personali
con il resto della classe anche attraverso giochi di ruolo, quiz
individuali e lavori di gruppo (i quiz come strumento per condividere le
passioni personali?). I pilastri di un’idea: rispondere ad un’esigenza e
creare una soluzione originale (banale).» In qualche caso, si sfiora la
scrittura automatica: «Personas: costruire gli archetipi degli
stakeholder correlati ad una sida/idea specifica (beneficiari, clienti,
ecc.) a supporto dell’implementazione di un’idea. Comprendere le
caratteristiche e le potenzialità della co-progetta zione, anche
attraverso approcci di design thinking e sfruttando tecniche di
prototipazione rapida.» Di queste massime, nel documento ne trovate
centinaia, il che rende la lettura a dir poco disperante. Ma gli
estratti che ho dato qui sopra mostrano che il punto dolente del Sillabo
non è tanto la cascata di espressioni inglesi, e neanche l’inondazione
di platitudes che contiene. È piuttosto il modello di cultura che ne
trapela. Cerco di darne una prototipazione rapida. Il mondo avanzato è
avviluppato da tempo da una spessa coltre di cascami di cultura
aziendal-economica (e del connesso linguaggio), originata nei
dipartimenti di management statunitensi e poi spruzzata in forma
degradata su tutti gli ambienti operativi. Il destinatario di qualunque
servizio (alunno, passeggero, ammalato, detenuto) è ormai un cliente (o
anche un customer), l’ente che gli assicura il servizio è un’azienda, la
soddisfazione dell’utente è la customer satisfaction, le figure
professionali che intervengono sono gli attori (o i players), il
risultato è creazione di valore, bisogna essere non più attivi ma
proattivi, la ricerca di finanziamenti è un fundraising e così via. In
questo universo l’inglese è a casa sua per una sua speciale proprietà:
un banale termine inglese messo al posto di uno italiano comune dà di
colpo l’impressione di essere un ineludibile termine tecnico, magari
elaborato in qualche laboratorio californiano e raffinato da anni di uso
specialistico. In questo modo il senso comune (banalità incluse) viene
spacciato facilmente come scienza avanzata.
Ciò che più ci
interroga, però, è il fatto che su questa base culturale si son
costruite imprese potenti e aggressive, il cui business è ormai fiorente
su scala mondiale. Uno dei settori più permeabili è la scuola o (come è
meglio dire seguendo il Sillabo) l’education, da tempo diventata un
ghiotto obiettivo (o target) per i privatizzatori di tutto. Ad aprire la
strada è stata la digitalizzazione, che, data la vastità della
popolazione che abita la scuola, fa gola a molti. Soprattutto a quel che
chiamo il blocco educativo-computazionale, il temibile complesso di
multinazionali 4.0 tra informatica e media che stanno divorando tutto
ciò che sul mondo della scuola si impernia: case editrici, attività di
formazione, arredamento e equipaggiamento, strutture per il tempo
libero. Possono contare sull’ingenuità o la furbizia dei decisori e
sull’entusiasmo da neofiti dei professionisti della scuola, che in
questo modo si sentono moderni. Molte delle lavagne elettroniche (LIM)
che inondarono l’Italia una decina di anni fa giacciono abbandonate, ma
furono ugualmente piazzate a tremila euro ciascuna. Da tempo in mezzo
mondo si preme per riempire le scuole di tablet, che un’ideologia
entusiastica diffusa presenta come il rimedio di tutti i mali. La nostra
Fedeli ha perfino insediato una commissione che indichi come sfruttare
il telefonino a scopo didattico. Ai tempi della sua predecessora, la
ministra Giannini, il Miur sbandierò un accordo con TED, multinazionale
dell’education, per tenere nelle scuole corsi di public speaking. Si
tratta di un’organizzazione statunitense «votata (diceva il comunicato
stampa) alle idee che meritano di essere diffuse» (sic). E cos’era il
Public speaking? Nient’altro che il più noto “parlare in pubblico” o,
con termine desueto, l’oratoria, che la multinazionale aveva riscoperto e
trasformato in sillabo per piazzarla nelle scuole. Non so che ine abbia
fatto quell’accordo, ma ricordo che il pacchetto comprendeva anche un
concorso finale, il TEDxYouth, «rivolto a tutti gli studenti italiani
delle scuole superiori che potranno candidarsi e raccontare le proprie
idee in un “discorso” di 18 minuti in 11 diverse categorie.» Nemmeno gli
insegnanti sono risparmiati, se si lasciano tentare dal Global Teacher
Prize, organizzato da una Varkey Foundation, che designa il miglior
insegnante del mondo! Il Sillabo della Fedeli ha fatto giustamente
insorgere l’Accademia della Crusca. Dovrebbe però fare effetto anche ai
cittadini, perché è un segnale minuto ma eloquente dello spirito
aziendalistico e privatizzante che sofia sull’Occidente e ne sta
ristrutturando le istituzioni.