l’espresso 6.5.18
Ribelli in nome della terra colloquio con Paolo Giordano e Roberto Saviano
di Sabina Minardi
La
rivoluzione. I sogni. La natura. La fede. E l’impegno degli
intellettuali. Due scrittori si confrontano sui temi del Maggio
francese. 50 anni dopo
Comincia con uno scambio di
letture: Roberto Saviano suggerisce Mark Fisher, “Il Realismo
capitalista”, la sfida è «immaginare un mondo che non esiste più». Paolo
Giordano propone Wolfgang Streeck, “Come finirà il capitalismo?”: «Il
problema è immaginare il dopo».
Intanto, qui e ora, arriva in
libreria “Divorare il cielo” (Einaudi), l’ultimo romanzo di Paolo
Giordano. L’occasione per un faccia a faccia tra due protagonisti della
generazione anni Ottanta. E si capisce subito che il dialogo andrà
lontano: tra responsabilità e disimpegno, desiderio di sacro e ideismo
tecnologico, le pagine del libro - il sogno alternativo di un gruppo di
ragazzi che diventano adulti intorno a una masseria pugliese - guidano
un percorso di temi comuni. E di atteggiamenti che più agli antipodi non
potrebbero essere: Saviano immerge le mani nella vita, a partire dal
marcio. Giordano la osserva con distacco: perché siano fantasia e
preveggenza a guidare il suo racconto. Sullo sfondo, quel maggio
francese che esattamente 50 anni fa incendiò le strade di Parigi, diede
la parola a studenti e operai, illuse tutti di un cambiamento radicale. E
lasciò un falò di sogni: realizzare un mondo giusto, amare senza
convenzioni, rispettare l’ambiente e la natura. Gli stessi ideali di
Bern, Tommaso, Nicola e Teresa, gli adolescenti di Giordano che
rinnovano il sogno di vivere liberi e di condividere tutto, persino la
stessa ragazza. Finché non si ritrovano spalle al muro. E allora il
collettivo ritorna individuale, sul pubblico prevale il privato. Credo
che questo romanzo chiami in causa di continuo il tema della
responsabilità. Cosa vuol dire essere responsabili oggi: come
generazione, come individui? Saviano: «Ho trovato l’operazione
letteraria di Giordano molto coraggiosa. Da equilibrista, quasi: ha
affrontato il tema del rifondare un mondo dentro una dinamica
comunitaria e il tema ecologista senza mettere in ridicolo chi lo
pratica oggi in modo quasi mistico: penso ai melariani, ai seguaci di
Osho, ai davidiani. Giordano smonta l’illusione di poter essere
veramente diversi. Da un lato dà l’impressione che l’unica strada per la
libertà sia fuggire dalla responsabilità, dall’altro affida a questo
gruppo di persone il compito di fondare una nuova forma di
responsabilità: un nuovo rapporto con la natura, coi sessi, di
fratellanza. Ma scatta un corto circuito: l’idea del fallimento è
implicita in loro. È come se tutti sapessero che qualunque sarà la
scelta non potrà che andare male. Anch’io ho trovato la responsabilità
il centro del romanzo. Ma è un “assalto al cielo”, per citare il Maggio
francese, che la condizione umana zavorra: non c’è speranza di spiccare
veramente il volo». Giordano: «Non mi ero reso conto che il fallimento
fosse un’idea così intrinseca. Avevo chiaro che questi ragazzi reiterano
la stessa dinamica per tutto il libro: Bern ricerca la fede persa e la
reincarna ogni volta in un credo differente. Ma che ci fosse un
fallimento a priori nel suo modo di fare è una falla inconscia. E una
differenza sostanziale con l’idea di cambiamento concreto predicato nel
’68». Il maggio francese, in realtà, è stato letto da molti come un
fallimento. Ma anche il misticismo del romanzo richiama il ’68: penso
alla figura del santone Cesare, una specie di sadhu indiano, che predica
la metempsicosi. Come le è venuto in mente? Giordano: «Un paio di anni
fa ho cominciato a interessarmi a una storia che aveva al centro un
guaritore. E un tema sul quale riletto da tempo è l’assenza di fede di
oggi. Se osservo i miei coetanei tutti hanno un guru, che sia
l’osteopata o lo psicanalista, e inseguono forme di guarigioni personali
che sfamano quella parte di assoluto che manca. Lentamente il
personaggio di Cesare è diventato anche quello del padre, la cui assenza
è un mio tipico tema». Saviano: «Il punto di vista di un mondo nuovo,
mistico, in effetti si riallaccia a un pezzo dell’insurrezione
movimentista degli anni Sessanta. Penso alla vicenda di Mauro Rostagno,
che ho sentito riecheggiare dentro il libro. Visto il fallimento della
possibilità di riformare la società attraverso il socialismo, la
reazione è stata realizzare il cambiamento dentro di sé. Tiziano Terzani
fu maestro in questo, perché riuscì a traghettare una scelta che poteva
persino sembrare ridicola in una rivoluzione
interiore. Il libro
di Giordano oscilla tra questi due piani: cambiare l’esterno e
l’interno. Io invece sono proteso verso il fuori, tendo a raccontare
dinamiche esterne. E vedo oggi un rapporto col sacro continuamente
condizionato da aspetti contingenti. Persino la forma più folle, il
radicalismo islamista che porta a morire, nella realtà non ha nulla di
metafisico, perché prevede una ricompensa con tanto di vergini, di
droga, di riscatto dal ghetto. Nelle pagine del libro c’è una
riflessione sulla ricerca di un assoluto che vada oltre il profitto e lo
scambio. Le generazioni precedenti più facilmente hanno trovato una
strada verso il trascendente. Oggi è impossibile: c’è sempre qualcosa
che ti ricorda che ciò in cui stai credendo non vale la pena». C’è un
vuoto di sacro. Ma anche di sogni. I ragazzi del maggio francese, “The
Dreamers” di Bernardo Bertolucci, forse non sapevano come conquistare il
potere, ma di certo sapevano sognare. La sera del 6 maggio 1968
migliaia di ragazzi inondano il Quartiere Latino. La piccola bastiglia
di Nanterre ha acceso la miccia e un fiume di giovani festosi invade gli
Champs-Élysées, canta l’Internazionale, chiede la riforma
dell’università e salari più giusti. Anche i protagonisti del libro
fanno sogni grandi. Perché i ragazzi, di fronte a ingiustizie continue,
non scendono più in piazza? Giordano: «Io non scendevo in piazza neanche
al liceo, quando si manifestava contro la globalizzazione. A 17 anni
sentivo tutto troppo astratto. E non prendevo parte alle manifestazioni
perché mi sembrava una forma di omologazione». Saviano: «È interessante
questa tua esperienza, che nel libro ti ha permesso di avere una
posizione non ideologica. Se guardi i libri su chi ha tentato l’assalto
al cielo c’è sempre una simpatia, una nostalgia. A partire dagli
avversari contro cui ci si scagliava, che erano giganti: penso ad André
Malraux, antifascista, eppure visto come l’establishment nemico della
fantasia al potere. C’è nostalgia per quella gioventù, per la libertà
dei corpi in cui credeva. Oggi non è che si sia persa la voglia di stare
in strada: è diventato un gesto conformista, sono d’accordo. Anche se
io, da studente, manifestavo: però con l’illusione di farlo in modo
diverso. Non volevo far parte di una comunità, volevo entrare in una
comunità per cambiarla». Giordano: «Tu scendevi in piazza, io no. Si
vedeva quello che saremmo diventati». Saviano: «Credo che oggi il web
abbia sostituito la partecipazione isica. Anche in bene. Qualche
settimana fa è partita in Italia l’iniziativa del selie con la mano sul
volto. L’ho innescata io per denunciare gli attacchi con gas in Siria.
Non ha inciso sui fatti, però ha generato consapevolezza. Al tempo
stesso il web dà spazio a odio e superficialità, per il solo fatto della
distanza fisica tra le persone: la stessa gente che ti insulta
diicilmente ti direbbe quelle cose in faccia, probabilmente te ne
direbbe di più interessanti». Giordano: «Sono diverso da te anche in
questo: mi tengo fuori dalla piazza del web perché questa furia mi
atterrisce. Bisogna avere gli enzimi per stare dentro questa lotta. Io
ne vengo annichilito. Però Assalto al cielo dalla masseria “Divorare il
cielo” (Einaudi), il nuovo romanzo di Paolo Giordano, arriva in libreria
l’8 maggio. Sarà presentato al Salone del Libro di Torino sabato 12
maggio alle 18,30. Dialogherà con l’autore Manuel Agnelli. Anche Roberto
Saviano, il 12 maggio, sarà protagonista di un appuntamento al Salone
del libro. In un incontro (ore 17) intitolato “Dal reale al seriale”, lo
scrittore farà il punto sul mondo narrativo che ha costruito sulle
pagine dei suoi libri e, da lì, sugli schermi: da Gomorra ad altri
progetti in corso. Insieme con lui Alessandro Cattelan e Francesco
Paciico. Q Foto: M. Frassineti - Agf, M. Chianura - Agf ho l’impressione
che non sia la stessa cosa delle rivolte di una volta: la condivisione
di corpi è diversa dall’anonimato». Ha preso parte a proteste
ambientaliste, per raccontarle nel libro? Giordano: «No. Una cosa che io
non faccio mai prima di scrivere è documentarmi: voglio evitare di
sentirmi inchiodato ai fatti. Sono andato una volta a vedere un presidio
contro l’abbattimento degli ulivi a causa della xylella. Però tutta la
ricerca di documentazione l’ho fatta dopo: solo per vedere se c’erano
stati episodi ai quali mi ero avvicinato. Per me scrivere è presagire,
siorare qualcosa senza ancora conoscerlo». Saviano: «È interessante:
come scrittore riconosci l’impossibilità di cambiare il mondo, e cerchi
di comprometterti il meno possibile. Tutta la tua letteratura è così. Tu
hai detto: io non mi documento mai. Mentre io perdo la vita a
documentarmi. E mentre tu facevi questa afermazione, io sentivo l’enorme
senso di liberazione. I nostri obiettivi sono diversi: lo scrittore non
vuole essere aggredito dalla realtà, vuole sentire le emozioni e non
farsi condizionare. E anche i tuoi personaggi agiscono così: cercano un
modo decente per vivere, senza fare del male agli altri, ma senza
neanche sforzarsi di cambiare il mondo. Rispecchiano la contemporaneità.
Mi spiego meglio. Oggi si dibatte sui limiti enormi di fronte alla
tecnologia. Se io ho bisogno di dormire 8 ore per stare bene, cosa me ne
faccio di una massa di informazioni che dovrei ottenere senza mai
fermarmi? Deve cambiare l’uomo. Nella testa di un ragazzo di 15 anni, la
tecnologia è uno spazio ininitamente superiore rispetto a quello che
può ottenere nella politica e nella società. E questo è terribile,
perché in realtà la tecnologia da sola non porta a nulla». La
rivoluzione si è spostata su un piano personale. E le utopie che fine
hanno fatto? Saviano: «L’utopia, cioè il sogno di una cosa per citare
Marx e Pasolini, si realizza nella possibilità individuale di cambiare:
tua, della tua famiglia, della tua cerchia di amici. Nella società del
web, dove persino il sesso è un gesto conformista, la nuova utopia
diventa poter risolvere il tuo quotidiano. Senza un’idea, se non
marginale, di riscatto e di emancipazione».
Giordano: Mi
appassiona questo aspetto della tecnologia, probabilmente perché
provengo dal mondo della fisica. Nel libro c’è un punto non casuale,
quando i protagonisti passano dall’utopia dell’agricoltura sostenibile
in masseria alla ricerca dell’inseminazione artificiale a Kiev. C’è
discontinuità etica fra le due cose, che però non avvertono perché,
cambiato il desiderio, hanno mutato anche i parametri etici. È un
rischio che sento. Nel senso che abbiamo tanti desideri, in
continuazione, a ogni età, moltissime possibilità per realizzarli, e per
questo adattiamo continuamente i nostri valori». «La verità è morta. È
una lettera dell’alfabeto, una parola, un materiale che posso
utilizzare», dice un personaggio nel libro, a sottolineare questo
relativismo. Ma trovare nel cambiamento personale la strada per la
rivoluzione non è il contrario di quello che ha sempre chiesto lei,
Saviano: la necessità di schierarsi, uscire allo scoperto? Saviano:
«Ogni cambiamento, sociale e politico, nasce e pretende un cambiamento
individuale. Io, da scrittore civile, non ho mai avuto grandi speranze
nella trasformazione dei molti, piuttosto grandi speranze nella
consapevolezza dei pochi: cioè che la consapevolezza che vado a cercare
occhio nell’occhio, mano nella mano, sia l’inizio di un percorso lungo e
complesso. Ma oggi tempo e complessità suscitano diffidenza. Se ha
bisogno di tempo, come i libri, diventa superfluo. Oggi la logica che
percepisco è che sia meglio una cosa fatta male ma subito, invece che
fatta bene ma con un po’ di tempo in più. Perché se hai un’idea devi
sbrigarti, o ci sarà qualcuno che ne avrà una simile e prima di te.
Perciò cambiare nella propria interiorità non è in contraddizione, è la
premessa per un cambiamento sociale. Va aggiunto che l’idea di
cambiamento è sempre più delegata a strumenti: alle app, ai software.
Siamo fuori dal campo delle scelte politiche. Questo succede ai
protagonisti del libro: la scelta etica iniziale - rispettare
l’ambiente, vivere in una comune - alla fine si sposta verso la
manipolazione genetica, la ricerca della vita a tutti i costi. Perché
siamo dentro un mondo così complesso che le scelte individuali non
riescono a resistere. Ecco perché comportamenti come il non mangiare
carne sembrano risposte dogmatiche, mistiche, a problemi irrisolvibili».
Giordano: «Mi fai pensare a un libro bellissimo, “La vegetariana”,
della coreana Han Kang. La protagonista diventa vegetariana con questo
spirito: impongo almeno la mia volontà su questo piccolo pezzo di
orticello che mi appartiene, il mio corpo, perché ho un’impossibilità
totale di incidere sull’esterno. Nella realtà avviene di continuo: ci
sono utopie intelligenti disseminate per la Puglia o in Campania, dove
forme di agricoltura sostenibile sono il rilesso di persone che hanno
studiato, ragionato, e impongono la loro volontà sull’unica cosa che
possono controllare ancora: un fazzoletto di terra. Siamo lontani dai
sogni del ’68. E mi colpisce la tua consapevolezza sull’impossibilità di
coltivare oggi la complessità. Io vedo in te, al contrario, una persona
che si comporta come se spinto da una fede». Saviano: «La fede è che un
buco nella rete ci sia. E che laddove c’è uno spazio di condivisione,
puoi versare dei contenuti. La sorte di un oggetto che richiede tempo e
voglia di complessità come il libro è terriicante perché siamo davanti a
dei punti di non ritorno: penso all’ansia da notiica e di non poter
controllare WhatsApp, durante la lettura. Per molti anni si è ripetuto
che leggere è faticoso, è costoso, c’è l’insidia della tv. Ma gli
Cultura Dibattiti Foto: Keystone France - Gamma Keystone / GettyImages
spazi c’erano: il letto, l’aereo, il treno, la panchina, il bagno. Oggi
sono occupati dal cellulare. Perché continuo a essere positivo? Perché
ho l’ottimismo della volontà: credo che immettere contenuti nelle
piattaforme possa ancora cambiare qualcosa. Anche se gli efetti non sono
misurabili». L’impegno dei protagonisti di “Divorare il cielo” si
addensa intorno alla battaglia ambientalista. Ci sono i movimenti di
difesa degli ulivi. C’è un’Islanda, rappresentata più che come
espressione di natura pura come l’Antropocene realizzato. La difesa
dell’ambiente è una direzione che molti esponenti del Maggio francese
hanno preso, a partire da Daniel Cohn-Bendit. Saviano: «È vero.
L’ecologismo di Cohn Bendit o di Joschka Fischer in Germania o di
Alexander Langer si connette al tema delle utopie: di fronte al
capitalismo, al socialismo reale che, realizzato, è di gran lunga
peggiore della peggiore democrazia, ci si chiede che fare: se cercare la
fuga dentro di sé. Oppure salvare quelle risorse di cui anche il
capitalismo non può fare a meno: l’aria, il cibo, il rapporto con gli
animali, i mari, l’acqua. È una negoziazione: non è più possibile la
rivoluzione che abolisca la corsa ai soldi, al proitto. Scelgo una
strada ecologica, che permetta uno sfruttamento delle risorse in
equilibrio. L’ecologismo diventa una posizione intermedia tra socialdemo
crazia e realpolitik e il sogno rivoluzionario totale. Forse l’ultima
fede davvero rimasta è quella dei vegani. O di chi decide ogni giorno di
separare la plastica dai riiuti…». Giordano: «Come me: io sono un
fondamentalista della raccolta diferenziata!». Saviano: «Perché senti
che la tua azione può ancora contare qualcosa. Quanto sarebbe più facile
dire: cosa cambia se io butto tutto insieme nella spazzatura?».
Giordano: «A me l’ecologia sembra l’unico credo davvero egualitario
verso il mondo. Riguarda tutti allo stesso modo. I cambiamenti climatici
coinvolgono ricchi e poveri del mondo. Ci inchiodano a un’idea di
uguaglianza. E con un atteggiamento di realpolitik: non è che noi
lottiamo per cancellare il cambiamento climatico, cerchiamo di limitare i
danni. È un’etica che ha già incorporato l’idea di fallimento, e fa il
possibile per attenuare le conseguenze. Anche questo è un atteggiamento
molto contemporaneo». Saviano: «Aggiungo che la possibilità che scelte
individuali cambino una comunità e producano un risultato, è complicata
da un’altra cosa. In passato chiunque esprimesse le sue idee si trovava
di fronte a una comunità propensa a condividerlo o a gente che per il
solo fatto di aver speso del tempo ad ascoltarlo si poneva in un
atteggiamento di dialettica. Oggi ogni idea viene comunicata attraverso
piattaforme che attirano una tale quantità di odio, che qualunque idea,
anche la più bella, la più alta, è sottoposta a uno stress che ne
renderà diicilissima la realizzazione. Se oggi un poeta avesse postato:
“M’illumino d’immenso”, sotto avreste letto: “Ah, sì? Bella cazzata che
hai scritto! “Bravo, coi soldi dello Stato scrivi ’ste scemenze”, e cose
simili. Che cosa comporta leggere questi commenti? Pressione, ansia:
probabilmente il poeta non scriverebbe più gli stessi versi,
comincerebbe a negoziare. Se Il Borghese scriveva che Pasolini era un
vile e un imbroglione, a leggerlo erano i lettori di quel giornale. Oggi
tutti si imbattono con facilità in quell’articolo, che poiché è molto
“cliccato” - attenzione, non “comprato” che implica una scelta-, infetta
della stessa ferocia altri giornali. Si può ancora resistere? È
talmente grande la massa di cose che ci vengono addosso che decidere
cosa vogliamo essere, issare i perimetri della nostra vita, è ogni
giorno più diicile». È il Sud, come suggerisce il romanzo, il
laboratorio delle ultime utopie: di questo modo nuovo, nient’affatto
scontato, di stare al mondo? Giordano: «Da uomo del Nord, noto di più le
cose del Sud: mi appaiono con più evidenza. Vedo più i contrasti, e
quindi anche le cose luminose. Il Sud è estremo in tutto: nella natura,
nell’espressività, e anche nel degrado e nei tentativi di reazione.
Anche perché lì diventa una questione di vita o di morte». Saviano: «È
proprio così. Il sud d’Italia, ma in generale il sud del mondo, e a
dirla tutta le periferie dove il diritto non c’è e devi sostituirlo con
creatività furbizia genio, ha capacità di stare al mondo superiore.
Perché non hai le garanzie, i diritti, non puoi contare su strade già
battute. Il Sud in questo momento è in una situazione drammatica, con
delle eccezioni rare e fragili: come la Puglia. Sì, è ovvio che il
cambiamento debba partire da lì».