l’espresso 6.5.18
Libro
Mario Fortunato
Mistero della notte
Frank Bidart è un grande poeta. Quasi ignoto in Italia. Esce ora “Desiderio”
Ci
sono almeno due ragioni per leggere i versi del californiano Frank
Bidart (1939). La prima, la più importante, è che una sua raccolta ha
appena visto la luce - ed era ora - in Italia: “Desiderio” (Edizioni
Tlon, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, pp. 175, € 13,90). La
seconda è che Bidart ha vinto il premio Pulitzer 2018 per la poesia.
Benché quasi ottantenne, Bidart è praticamente uno sconosciuto in
Italia. Il che depone male in primis contro la nostra editoria. D’altro
canto, la sua non è certo una poesia facile, o affabile. Né lui ha le
amabili caratteristiche del genio sregolato, folle, con spiccate
inclinazioni per l’alcol e le droghe e qualche sospetto di
accattonaggio, come prescrivono tutti i cliché del settore. Au
contraire, il poeta è un maturo professore di letteratura, che ha
frequentato le migliori università americane; è gay ma senza farne
esibizione teatrale (anche se da giovane aveva cominciato la carriera di
attore); scrive versi poco inclini al sentimentalismo, e il suo maestro
riconosciuto è Robert Lowell, di cui è stato allievo e curatore dei
“Collected Poems”. La raccolta meritoriamente proposta dalle Edizioni
Tlon (prima che si sapesse del Pulitzer) è una delle migliori del poeta e
risale al 1997. Giustamente, nella sua attenta e bella introduzione,
Tommaso Giartosio parla di una poesia che sembra costeggiare (e
corteggiare) la psicoanalisi, tuttavia opponendovisi, come sempre ci si
oppone a ciò che ci appartiene senza che noi per questo lo amiamo. In
effetti, i versi di Bidart sembrano qui e là usare le figure dell’Io e
Super-io freudiani soltanto per potersene sbarazzare rapidamente, come
strutture psichiche mortificanti e generiche. Mentre sembra trovare le
più fresche immagini del sé, ripescandole, o meglio estraendole, come da
un pozzo, dall’antichità classica, cioè da quel repertorio mitico a cui
la civiltà occidentale appartiene, anche se non lo sa, lo ha
dimenticato o smarrito per via. Da questo punto di vista, il lungo
componimento che chiude il libro (si intitola “La seconda ora della
notte”) è davvero uno dei pezzi più misteriosamente belli della poesia
della seconda metà del XX secolo.