martedì 8 maggio 2018

l’espresso 6.5.18
Libro
Mario Fortunato
Mistero della notte
Frank Bidart è un grande poeta. Quasi ignoto in Italia. Esce ora “Desiderio”


Ci sono almeno due ragioni per leggere i versi del californiano Frank Bidart (1939). La prima, la più importante, è che una sua raccolta ha appena visto la luce - ed era ora - in Italia: “Desiderio” (Edizioni Tlon, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, pp. 175, € 13,90). La seconda è che Bidart ha vinto il premio Pulitzer 2018 per la poesia. Benché quasi ottantenne, Bidart è praticamente uno sconosciuto in Italia. Il che depone male in primis contro la nostra editoria. D’altro canto, la sua non è certo una poesia facile, o affabile. Né lui ha le amabili caratteristiche del genio sregolato, folle, con spiccate inclinazioni per l’alcol e le droghe e qualche sospetto di accattonaggio, come prescrivono tutti i cliché del settore. Au contraire, il poeta è un maturo professore di letteratura, che ha frequentato le migliori università americane; è gay ma senza farne esibizione teatrale (anche se da giovane aveva cominciato la carriera di attore); scrive versi poco inclini al sentimentalismo, e il suo maestro riconosciuto è Robert Lowell, di cui è stato allievo e curatore dei “Collected Poems”. La raccolta meritoriamente proposta dalle Edizioni Tlon (prima che si sapesse del Pulitzer) è una delle migliori del poeta e risale al 1997. Giustamente, nella sua attenta e bella introduzione, Tommaso Giartosio parla di una poesia che sembra costeggiare (e corteggiare) la psicoanalisi, tuttavia opponendovisi, come sempre ci si oppone a ciò che ci appartiene senza che noi per questo lo amiamo. In effetti, i versi di Bidart sembrano qui e là usare le figure dell’Io e Super-io freudiani soltanto per potersene sbarazzare rapidamente, come strutture psichiche mortificanti e generiche. Mentre sembra trovare le più fresche immagini del sé, ripescandole, o meglio estraendole, come da un pozzo, dall’antichità classica, cioè da quel repertorio mitico a cui la civiltà occidentale appartiene, anche se non lo sa, lo ha dimenticato o smarrito per via. Da questo punto di vista, il lungo componimento che chiude il libro (si intitola “La seconda ora della notte”) è davvero uno dei pezzi più misteriosamente belli della poesia della seconda metà del XX secolo.