domenica 6 maggio 2018

La Stampa 6.5.18 Prima pagina
Il Papa, la fede e il primato sul marxismo
Dipendiamo da Dio, il marxismo sbaglia a negarlo
Francesco presenta il libro di Ratzinger su fede e politica “Il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo”
di papa Francesco


Il rapporto tra fede e politica è uno dei grandi temi da sempre al centro dell’attenzione di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI e attraversa l’intero suo cammino intellettuale e umano.
L’esperienza diretta del totalitarismo nazista lo porta sin da giovane studioso a riflettere sui limiti dell’obbedienza allo Stato a favore della libertà dell’obbedienza a Dio: «Lo Stato – scrive in questo senso in uno dei testi proposti – non è la totalità dell’esistenza umana e non abbraccia tutta la speranza umana. L’uomo e la sua speranza vanno oltre la realtà dello Stato e oltre la sfera dell’azione politica. Ciò vale non solo per uno Stato che si chiama Babilonia, ma per ogni genere di Stato. Lo Stato non è la totalità. Questo alleggerisce il peso all’uomo politico e gli apre la strada a una politica razionale. Lo Stato romano era falso e anticristiano proprio perché voleva essere il totum delle possibilità e delle speranze umane. Così esso pretende ciò che non può; così falsifica ed impoverisce l’uomo. Con la sua menzogna totalitaria diventa demoniaco e tirannico».
Successivamente, anche proprio su questa base, a fianco di San Giovanni Paolo II egli elabora e propone una visione cristiana dei diritti umani capace di mettere in discussione a livello teorico e pratico la pretesa totalitaria dello Stato marxista e dell’ideologia atea sulla quale si fondava.
Il marxismo
Perché l’autentico contrasto tra marxismo e cristianesimo per Ratzinger non è certo dato dall’attenzione preferenziale del cristiano per i poveri: «Dobbiamo imparare – ancora una volta, non solo a livello teorico, ma nel modo di pensare e di agire – che accanto alla presenza reale di Gesù nella Chiesa e nel sacramento, esiste quell’altra presenza reale di Gesù nei più piccoli, nei calpestati di questo mondo, negli ultimi, nei quali egli vuole essere trovato da noi» scrive Ratzinger già negli anni Settanta con una profondità teologica e insieme immediata accessibilità che sono proprie del pastore autentico. E quel contrasto non è dato nemmeno, come egli sottolinea alla metà degli anni Ottanta, dalla mancanza nel Magistero della Chiesa del senso di equità e solidarietà; e, di conseguenza, «nella denuncia dello scandalo delle palesi disuguaglianze tra ricchi e poveri – si tratti di disuguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri oppure di disuguaglianze tra ceti sociali nell’ambito dello stesso territorio nazionale che non è più tollerato».
Il profondo contrasto, nota Ratzinger, è dato invece – e prima ancora che dalla pretesa marxista di collocare il cielo sulla terra, la redenzione dell’uomo nell’aldiquà– dalla differenza abissale che sussiste riguardo al come la redenzione debba avvenire: «La redenzione avviene per mezzo della liberazione da ogni dipendenza, oppure l’unica via che porta alla liberazione è la completa dipendenza dall’amore, dipendenza che sarebbe poi anche la vera libertà?».
E così, con un salto di trent’anni, egli ci accompagna alla comprensione del nostro presente, a testimonianza dell’immutata freschezza e vitalità del suo pensiero. Oggi infatti, più che mai, si ripropone la medesima tentazione del rifiuto di ogni dipendenza dall’amore che non sia l’amore dell’uomo per il proprio ego, per «l’io e le sue voglie»; e, di conseguenza, il pericolo della «colonizzazione» delle coscienze da parte di una ideologia che nega la certezza di fondo per cui l’uomo esiste come maschio e femmina ai quali è assegnato il compito della trasmissione della vita; quell’ideologia che arriva alla produzione pianificata e razionale di esseri umani e che – magari per qualche fine considerato «buono» – arriva a ritenere logico e lecito eliminare quello che non si considera più creato, donato, concepito e generato ma fatto da noi stessi.
I «diritti apparenti»
Questi apparenti «diritti» umani che sono tutti orientati all’autodistruzione dell’uomo – questo ci mostra con forza ed efficacia Joseph Ratzinger – hanno un unico comune denominatore che consiste in un’unica, grande negazione: la negazione della dipendenza dall’amore, la negazione che l’uomo è creatura di Dio, fatto amorevolmente da Lui a Sua immagine e a cui l’uomo anela come la cerva ai corsi d’acqua (Sal 41). Quando si nega questa dipendenza tra creatura e creatore, questa relazione d’amore, si rinuncia in fondo alla vera grandezza dell’uomo, al baluardo della sua libertà e dignità.
L’uomo e Dio
Così la difesa dell’uomo e dell’umano contro le riduzioni ideologiche del potere passa oggi ancora una volta dal fissare l’obbedienza dell’uomo a Dio quale limite dell’obbedienza allo Stato. Raccogliere questa sfida, nel vero e proprio cambio d’epoca in cui oggi viviamo, significa difendere la famiglia. D’altronde già San Giovanni Paolo II aveva ben compreso la portata decisiva della questione: a ragione chiamato anche il «Papa della famiglia», non a caso sottolineava che «l’avvenire dell’umanità passa attraverso la famiglia» (Familiaris consortio, 86). E su questa linea anche io ho ribadito che «il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo e della Chiesa» (Amoris laetitia, 31).
Così sono particolarmente lieto di potere introdurre questo secondo volume dei testi scelti di Joseph Ratzinger sul tema «fede e politica». Insieme alla sua poderosa Opera omnia, essi possono aiutare non solo tutti noi a comprendere il nostro presente e a trovare un solido orientamento per il futuro, ma anche essere vera e propria fonte d’ispirazione per un’azione politica che, ponendo la famiglia, la solidarietà e l’equità al centro della sua attenzione e della sua programmazione, veramente guardi al futuro con lungimiranza.

Repubblica 6.5.18
Le 4 malattie della politica
No, non ci serve un governo.
Ci serve uno psichiatra.
E anche bravo, uno strizzacervelli per chi non ha cervello
di Michele Ainis


No, non ci serve un governo.
Ci serve uno psichiatra.
E anche bravo, uno strizzacervelli per chi non ha cervello. Difatti la crisi di governo, quel ramo al quale siamo ormai impiccati da due mesi, deriva da un’allucinazione, da una falsa percezione delle cose. Anzi: le allucinazioni sono quattro, come le malattie mentali di cui soffrono i politici italiani.
Primo: la sindrome del vincitore. Malattia contagiosa, dato che in questo caso i vincitori sono almeno due. Salvini, a capo della coalizione più votata; Di Maio, a capo del partito più votato. Insomma, il campionato delle ultime elezioni ha assegnato due scudetti. Dopo di che, se vinci lo scudetto, pretendi il trofeo di palazzo Chigi. Pretesa ovvia, come no.
Ma per soddisfarla ci vorrebbe un consolato, sulla falsariga dell’antica Roma. Nella Roma moderna (vabbè, le buche sulle strade consolari hanno un che d’antico) invece non si può. Però stavolta la colpa non ricade su Virginia Raggi, bensì su Ettore Rosato, meglio noto come Rosatellum. Perché ha scritto una legge elettorale con il torcicollum: proporzionale (prima Repubblica), coalizioni (seconda Repubblica). Senza l’impianto proporzionale della legge, Salvini avrebbe già indossato una casacca da presidente del Consiglio. Senza vincolo di coalizione (eredità del maggioritario), quel trofeo sarebbe stato conquistato da Di Maio, magari in alleanza con Salvini, libero da ogni vincolo verso Berlusconi. Invece ci troviamo con due mezzi vincitori e un Paese dimezzato.
Secondo: la sindrome del perdente. Che non è +Europa (e meno Italia, a giudicare dai risultati elettorali), né Liberi e uguali (liberi forse sì, uguali agli altri partiti è un azzardo matematico). No, il perdente per antonomasia si chiama Pd. Che ha fatto della sconfitta una bandiera, dal momento che i suoi leader (plurale maiestatis) intonano un solo ritornello: «Abbiamo perso, dunque non ci resta che l’opposizione». Sillogismo illogico, e per almeno due ragioni. Uno: si sta all’opposizione rispetto a un governo, ma se il governo non c’è ancora, a chi s’oppone l’opponente? Due: dichiarare la sconfitta (o la vittoria) ha senso con un maggioritario, non con un proporzionale, qual è in sostanza il Rosatellum. In un sistema così non vince nessuno, perché la maggioranza assoluta diventa una chimera; non la raggiunse mai neppure la Dc, il cui miglior risultato fu il 48,5% dei consensi alle politiche del 1948. Insomma, con il proporzionale vai meglio o peggio rispetto all’elezione precedente, ma poi il governo è un’altra cosa. Nel 1972 il Movimento sociale raddoppiò i propri voti, restando fuori da palazzo Chigi; il Partito liberale, al contrario, ne perse la metà, tuttavia entrò nel nuovo esecutivo, dopo un’assenza durata 15 anni.
Terzo: la sindrome dell’appestato. «Vengo anch’io. No, tu no», cantava Enzo Jannacci nel 1968. Mezzo secolo più tardi, questa canzonetta è tornata di moda. Tu no, dicono i 5 Stelle a Berlusconi. Tu no, dice Salvini al Pd. Tu no, dice il Pd a se stesso. Un torneo a eliminazione, quando la democrazia parlamentare presupporrebbe l’inclusione. Però c’è forse un’esigenza sotto questa intransigenza. Magari c’è il bisogno di ritagliarsi un’identità per sottrazione, per opposizione. Perché i nostri partiti hanno fisionomie deboli, sfocate. E perché dopotutto la politica — diceva Carl Schmitt — si nutre della distinzione fra amico e nemico. Se la ragione è questa, urge cambiare qualche denominazione. Il nuovo nome della Lega, che s’oppone al Pd? “Partito antidemocratico”. E i 5 Stelle, contro Forza Italia? “Abbasso Italia”.
Quarto: la sindrome del ragioniere. Che alle nostre latitudini sragiona sempre sul medesimo argomento: la legge elettorale. Una nevrosi antica quanto lo Stato italiano, come mostra l’altalena dei congegni brevettati e cestinati. Esordimmo, durante la metà dell’Ottocento, con un maggioritario a doppio turno. Sostituito nel 1882 da un proporzionale, poi nel 1891 di nuovo dal maggioritario, poi nel 1919 di nuovo dal proporzionale. Fino alla legge fascistissima del 1923 (supermaggioritaria) e a quella democraticissima del 1946 (superproporzionale). Dopo di che abbiamo via via sperimentato altre sei leggi elettorali (nel 1948, 1953, 1993, 2005, 2016, 2017) e altrettanti referendum sulla materia (nel 1991, 1993, 1995, 1999, 2000, 2009). Insomma, una tira l’altra, come le ciliegie. Ogni legge sbagliata rende necessario lo sbaglio successivo. E infatti adesso c’è bisogno di un’altra ciliegina, per rimediare ai guai del Rosatellum. Evviva.

Corriere Salute 6.5.18
Psichiatria
il disturbo ossessivo-compulsivo si può curare? Esistono farmaci efficaci che non influiscano sulla libido?
di Giancarlo Cerveri


Vi chiedo aiuto per mio marito, al quale è stato diagnosticato il Disturbo ossessivo-compulsivo. È seguito da un neurologo che gli ha prescritto clomipramina per due volte al giorno. Quando era in terapia si sentiva meglio e soprattutto era più tranquillo, ma il farmaco ha avuto effetti negativi sulla libido, quindi è stato sostituito con vortioxetina, in gocce,e trazodone, ma la situazione non è migliorata.Temo che per trovare la cura giusta mio marito dovrà sperimentar tutta una serie di farmaci. La psicoterapia, secondo voi, potrebbe aiutarlo?
La sua domanda mi permette di affrontare il tema del Disturbo ossessivo-compulsivo (noto anche come Doc) e, cercando di fornirle alcune indicazioni, proverò a fare chiarezza su diversi aspetti del disturbo.
Per cominciare proviamo a darne una definizione: nel corso degli anni passati il Doc è stato inserito nel gruppo dei Disturbi d’Ansia ma, ultimamente, proprio per le sue particolari caratteristiche cliniche è stato separato e definito in modo autonomo insieme al Disturbo da Accumulo (tipico di soggetti che accumulano in casa enormi quantità di oggetti).
Le caratteristiche principali del Doc sono: ossessioni, cioè pensieri continui centrati su uno o pochi argomenti, sentiti come estranei o anche assurdi ma che producono una sensazione profondamente spiacevole e che risultano non eliminabili.
Tali pensieri possono essere profondamente disturbanti fino a rendere, nei casi più gravi, impossibile qualunque attività.
Le compulsioni, l’altro sintomo cardine del disturbo, sono comportamenti ripetuti in modo rituale, finalizzati a eliminare una fortissima condizione di ansia o di malessere. Tali comportamenti possono essere avere diversa frequenza e invasività: possono essere presenti per pochi minuti nella giornata o essere così pervasivi da avere un effetto completamente paralizzante.
Per fare un esempio delle ossessioni cito il caso clinico di una persona che passava buona parte della giornata a riflettere e argomentare nella sua mente sul tema «sono o non sono omosessuale?».
Il ragionamento risultava ripetitivo e spesso doloroso.
Per quanto riguarda le compulsioni, ricordo di un uomo che, a casa, passava molto tempo (a volte anche diverse ore) a lavare accuratamente i suoi oggetti e il suo corpo. In particolare verificava di non essersi inavvertitamente sporcato con gli escrementi di un piccione: si guardava allo specchio, controlla attentamente tutti gli indumenti indossati.
Il tutto risultava molto faticoso ma la persona non riusciva a non farlo. In alcuni casi era talmente sfinito da questa routine da addormentarsi vestito sulla poltrona del salotto.
Il Doc generalmente insorge in giovane età, in alcuni casi durante la pubertà, ha un andamento cronico e, se non trattato risulta profondamente invalidante per la vita in termini di funzionamento lavorativo e relazionale.
Necessita pertanto di un intervento specialistico molto competente che solo una psichiatra esperto è in grado di fornire.
Per quanto riguarda gli interventi terapeutici esistono notevoli prove di efficacia sull’utilizzo di inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, tra questi la fluvoxamina è la molecola più ampiamente utilizzata. Per ottenere un buon risultato è necessario un trattamento adeguato e a dosaggi congrui.
L’utilizzo di clomipramina è oggi estremamente ridotto a causa degli innumerevoli effetti indesiderati associati all’utilizzo di questa molecola. Pertanto, le suggerirei di indirizzare suo marito verso uno specialista in psichiatria per rivalutare le possibilità di trattamento che possano risultare efficaci e ben tollerate.
Infine, il tema della psicoterapia nel Doc.
Esistono prove di efficacia sull’utilizzo di trattamenti cognitivo- comportamentali, per ridurre i comportamenti compulsivi e le ossessioni.
Tali interventi pur validati secondo criteri «evidenced based» non hanno ottenuto un’ampia diffusione nel nostro Paese. Più spesso proposti in ambito clinico, e con un robusto supporto della letteratura di ambito psicoanalitico, è l’utilizzo di interventi di psicoterapia ad indirizzo psicodinamico (si tratta di tutte quelle diverse forme di psicoterapia che trovano origine nel movimento psicoanalitico).

Repubblica 6.5.18
Altro caso all’Aia
Ora gli squilibrati attaccano la folla come i terroristi
di Paolo Rodari


Momenti di panico ieri all’Aia, in Olanda, nel giorno in cui si festeggiava la liberazione dall’occupazione nazista della Seconda Guerra Mondiale. Un uomo, che poi si è scoperto essere «una persona con problemi psichiatrici nota da tempo alla polizia», ha ferito con un pugnale tre persone al grido di «Allah Akbar». L’aggressore, che ha colpito la prima persona cinque volte all’interno del Nova Cafè, e che una volta uscito ne ha ferite altre due, è stato fermato dalla polizia dopo essere stato a sua volta ferito alle gambe.
Tutto si è svolto alla Johanna Westerdijkplein, vicino alla Haagse Hogeschool, in un quartiere che dagli anni Quaranta-Cinquanta ospita una consistente e ben integrata comunità marocchina.
Testimone oculare dell’accaduto, la giornalista del Tg2 Maria Lepri ha raccontato: «Ero seduta al sole su una panchina con mia figlia di fronte alla Hague University quando abbiamo sentito delle urla. Dopo poco ci è passato accanto un uomo con un copricapo arabo che si è voltato verso di noi. Per un attimo ci siamo guardati negli occhi. Lui poi si è allontanato e si è buttato addosso a un ragazzo in bicicletta. Sembrava lo stesse picchiando, in realtà lo stava accoltellando».
Non è inusuale, ormai, che persone con squilibri mentali imitino i guerriglieri dell’Isis pur non c’entrando in apparenza nulla con loro. Lo scorso aprile a Toronto, in Canada, dieci persone sono morte dopo che Alek Minassian, un ragazzo di 25 anni di origine armena con seri problemi psichitrici, è piombato con un furgone sulla folla. Così, sempre in aprile, a Münster in Germania, dove sono morte tre persone investite da un furgone. L’attentatore era un tedesco 48enne in cura da tempo per problemi psichici. E ancora, questa estate, a Marsiglia: una donna è stata investita mentre si trovava alla fermata del bus da un 35enne con precedenti penali per reati comuni, ma anche con problemi di salute mentale.

Corriere 6.5.18
Marx torna a casa 200 anni dopo Tra omaggi e una statua (cinese)
di Paolo Valentino


BERLINO Karl Marx è tornato a casa. Duecento anni dopo la nascita, la Germania accoglie come un figliol prodigo il filosofo che come pochi altri ha influenzato il pensiero e la Storia del XX secolo.
A Treviri, la città del Palatinato dove Marx nacque il 5 maggio 1818, una gigantesca statua di marmo alta 5 metri è stata inaugurata ieri non senza forti polemiche, generate dal fatto che a donarla è stata la Repubblica popolare cinese. Ben oltre l’episodio della scultura, è l’intero establishment tedesco che ha scelto di celebrare l’autore del Capitale e padre del comunismo, restituendolo all’Empireo dei massimi pensatori della nazione.
Mostre, convegni, speciali televisivi, intere pagine dei grandi media hanno accompagnato il bicentenario, in un Paese che adora gli anniversari. Perfino il presidente della Repubblica, Frank-Walter Steinmeier, ha organizzato un simposio a Berlino nel quale ha elogiato Marx come «grande filosofo tedesco»: «Non dobbiamo aver paura di lui: non dobbiamo bandirlo dalla nostra Storia, ma neppure metterlo sugli altari».
Treviri è stata il cuore delle celebrazioni, con tre mostre dedicate al filosofo e un intenso programma di conversazioni e forum. Ieri mattina la storica Aula Palatina ha ospitato una solenne cerimonia cui hanno preso parte anche il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker e Malu Dreyer, ministro-presidente socialdemocratica del Palatinato.
«Marx – ha detto Juncker – va capito nel contesto del suo tempo. E non possiamo considerarlo responsabile del fatto che altri più tardi ne abbiano usato i valori e le parole come armi». E ancora: «Non si poteva certo ammirare il capitalismo degli inizi. Ma non si può ammirare neppure oggi un capitalismo cieco e insensato». Secondo Dreyer, «i crimini contro milioni di persone commessi in suo nome nel XX secolo non possono essergli attribuiti».
Ma le controversie non sono mancate. Sul regalo dei cinesi in primo luogo, che prima di arrivare a destinazione ha dovuto essere ridimensionato, riducendo di un metro l’altezza originaria della statua. Per i Verdi, «chi accetta un regalo, onora il donatore e il Partito comunista della Cina non merita di essere onorato». Contro le celebrazioni tout court si è espresso Alexander Gauland, il leader del partito di estrema destra Afd: «È insopportabile l’idea di rendere omaggio a un uomo che rifiutava la democrazia parlamentare».

Il Fatto 6.5.18
Il Marx con gli occhi a mandorla beffa i tedeschi
Regalo ingrato - La statua donata da Pechino alla città natale Treviri considerata una provocazione
di Andrea Valdambrini


La storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farse. L’osservazione tratta da “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte” (1852) di Karl Marx sembra illustrare a perfezione il singolare destino della statua commemorativa inaugurata nella città natale.
L’occasione è quella dalla ricorrenza del 200° anniversario della nascita di Marx a Treviri (Trier in tedesco) il 5 maggio 1818. La più importante nazione “comunista” del pianeta, la Cina, ha donato alla cittadina una statua di bronzo di 4 metri e mezzo. Una dimensione da far concorrenza sia a quella, sempre in bronzo, piantata nel centro di Berlino, che lo ritrae accanto al sodale Friedrich Engels, che alla massiccia testa in cima alla stele della sua tomba, nel cimitero di Highgate a Londra, dove morì 65 anni dopo. Alla cerimonia di inaugurazione del colosso si sono presentati non solo cittadini e turisti, ma anche manifestanti anti-statua, ma soprattutto anti-Cina: principalmente quelli del movimento di estrema destra Alternative fuer Deutscheland (AfD), che hanno inscenato una marcia silente in onore delle vittime del comunismo, mentre altri hanno manifestato per esprimere solidarietà alla setta Falun Gong, il cui culto è da anni proibito e represso in Cina.
“Chi vuole contestare Marx è benvenuto, ma non con esibizioni di violenza o rabbia distruttrice”, è intervenuto a scongiurare incidenti il portavoce del comune, poco prima dell’inaugurazione del monumento della discordia.
Ma può – si chiedono gli oppositori, soprattutto quelli che non erano in piazza – una nazione votata alla democrazia come quella tedesca accettare un dono dal valore fortemente simbolico da regime autoritario, noto per reprimere ogni forma di dissenso?
E come la mettiamo con l’ex Ddr, vittima di un regime autoritario per quarant’anni, dove i simboli del comunismo sono stati abbattuti dopo la caduta del Muro e la riunificazione delle due Germanie nel 1990
“Il punto è che abbiamo discusso per due anni, e ci è sembrato giusto accettare come segno di amicizia”, ragiona il sindaco di Treviri. “Non si tratta certo di glorificare la figura di Marx”. Chi avanza dubbi, lo fa puntando il dito contro l’eccessiva ingenuità del primo cittadino, che accetta un dono targato Cina. Durante una cerimonia solenne, venerdì, il presidente cinese a vita Xi JInping ha definito l’autore del Manifesto del Partito Comunista il più grande pensatore di tutti i tempi, esortando i membri del partito a leggere le sue opere e a seguirne gli insegnamenti.
Molti attivisti non perdonano al gigante asiatico le numerose violazioni dei diritti umani e delle libertà civili. Solo pochi giorni – e qui veniamo al lato tragico della vicenda – fa la vedova dello scrittore dissidente e premio Nobel Liu Xiaobo, deceduto nelle carceri cinesi lo scorso luglio, ha rivolto un drammatico appello per la propria liberazione. Liu Xia, questo il suo nome, è agli arresti domiciliari dal 2010 senza nessuna imputazione formale e senza processo. Può darsi che la statua sia un dono avvelenato o comunque inopportuno di Pechino. Ma la polemica che si è accesa intorno alla statua di Treviri – e qui torniamo, citando Marx, alla farsa – avrebbe più senso se la Germania, l’Europa e il mondo trovassero una via efficace per convertire, ammesso ne abbiano la forza, Pechino al rispetto di libertà e diritti.

Corriere La Lettura 6.5.18
Maestri. Un socialista umanitario
Persino Bobbio ogni tanto perdeva le staffe A buon diritto
di Antonio Carioti


Norberto Bobbio era solitamente attento e prudente nell’esprimere giudizi, ma a volte si faceva trascinare anche lui dalla passione. Per esempio gli era difficile guardare con serenità al fascismo, di cui aveva sperimentato la vocazione sopraffattrice e corruttrice tipica di ogni dispotismo. E pure le sue osservazioni critiche sullo schieramento politico a trazione berlusconiana, per quanto non si possa certo dire che i fatti gli abbiano dato torto, a volte debordavano nell’invettiva con un’asprezza per lui insolita.
Riporta anche qualcuno di questi sfoghi l’ampio e affettuoso studio che Mario G. Losano ha dedicato al suo maestro, intitolato Norberto Bobbio. Una biografia culturale (Carocci). Un libro che ha tra i suoi pregi maggiori proprio quello di combinare il profilo scientifico del filosofo e il lato umano di un uomo legato alle radici familiari e segnato per molti versi proprio dalle esperienze infantili nelle campagne piemontesi. Per quanto si fosse poi nutrito di tante letture ed esperienze intellettuali, il socialismo di Bobbio era sbocciato nelle estati di vacanza trascorse nella località d’origine della famiglia materna, in provincia di Alessandria: «A Rivalta — avrebbe ricordato ormai anziano, nel 1995 — giocavo con i bambini del paese che non sapevano parlare italiano, andavano scalzi, erano vestiti con una camiciola e con calzoncini tenuti su con lo spago. Non ho mai sentito alcuna differenza tra noi, i signori, e loro, i contadini. Ho imparato che gli uomini sono uguali».
Al tempo stesso Bobbio era ben consapevole che la civiltà borghese, per quanto ingiusto potesse apparire il suo assetto sociale, aveva prodotto una strumentazione preziosa per difendere il cittadino dagli abusi del potere. Come emerge dal suo libro Locke e il diritto naturale, edito da Giappichelli con un’introduzione di Gaetano Pecora, considerava fondamentale il ruolo storico svolto dal giusnaturalismo illuminista, anche se ne giudicava infondato l’impianto teoretico. In fondo il lungo impegno culturale di Bobbio nell’ambito della sinistra, che gli è spesso stato rimproverato per la sua disponibilità al dialogo senza pregiudiziali con i comunisti, ha sempre avuto l’obiettivo di unirla su un terreno socialdemocratico, coniugando esigenze egualitarie e diritti dell’individuo. Ma i partiti erano troppo presi dai loro miti o dalle loro convenienze per ascoltare i suoi appelli, salvo ricercarne affannosamente l’autorevole avallo quando ne sentivano il bisogno.
Era ovvio che la destra cercasse invece di delegittimarne il magistero. Se fosse mai stata davvero liberale, avrebbe potuto rimproverare a Bobbio una visione statica della distinzione fra destra e sinistra, fondata sul discrimine della disuguaglianza, e una certa sottovalutazione dei benefici prodotti dal mercato. Ma, confessando implicitamente una profonda incultura, preferiva in genere attaccarlo sul piano personale, compiacendosi delle umiliazioni che erano state inflitte a Bobbio dal fascismo negli anni Trenta, quando non aveva avuto la temerarietà di rinunciare alla carriera accademica, rischiando magari il confino o il carcere, per non piegarsi alla prepotenza della dittatura. Non ha torto Losano quando definisce quella polemica un «mirato travisamento della situazione reale».
In fondo però Bobbio risultava scomodo anche a sinistra. Faceva notare al Pci la sua schizofrenia tra ideologia leninista e prassi compromissoria. Aveva assecondato il rinnovamento del Psi di Craxi, per poi marcare le distanze, a volte anche bruscamente, dalla piega personalistica e spregiudicata che aveva preso la sua leadership. Aveva scandalizzato il pacifismo antiamericano di molti suoi ex allievi, notando che l’intervento contro l’invasione irachena del Kuwait, nel 1991, era giustificato sul piano del diritto internazionale. Non aveva esitato a schierarsi in linea di principio contro l’aborto, da lui considerato comunque un male in quanto lesivo del diritto alla vita, proprio in occasione del referendum promosso dai cattolici sulla legge 194.
Aveva il dono di analizzare le questioni con precisione e chiarire i concetti, ma coltivava sistematicamente la virtù del dubbio, a volte anche dell’autocritica. Carattere riflessivo e mite, scevro dall’aggressività gratuita, Bobbio nel dibattito pubblico di oggi, sempre alla ricerca dell’effetto suggestivo e della battuta scoppiettante, sarebbe stato un pesce fuor d’acqua. E c’è da scommettere che il teatrino politico attuale l’avrebbe inorridito. Meglio che gli sia stato risparmiato.

Repubblica 6.5.18
Le regole di Dublino
“Italia disumana” Il profugo rifiuta il respingimento dalla Germania
Un togolese arrestato fa ricorso contro Roma: “ Non rispetta gli standard”
L’accusa blocca sempre più trasferimenti e diventa un problema per Merkel
di Tonia Mastrobuoni


Berlino Nella notte tra domenica e lunedì scorsi, in un centro di accoglienza per profughi della Svevia, sette agenti della polizia ammanettano un togolese per portarlo via. Sembra un’operazione di routine. Uno dei tanti, drammatici respingimenti che la Germania sta intensificando, negli ultimi tempi. La destinazione dovrebbe essere l’Italia, dove Yussuf O. risulta come richiedente asilo e dove può essere respinto dalle autorità tedesche in virtù dei controversi accordi di Dublino che obbligano il primo Paese in cui arrivano i profughi a tenerseli. Per ragioni puramente geografiche, l’Italia e la Grecia sono notoriamente le vittime più eccellenti di quella discutibile norma europea.
Quella notte, Yussuf si ribella. E circa centocinquanta africani insorgono con lui, alcuni circondando le volanti che dovrebbero portarselo via, sferrando calci e pugni contro le macchine. Il risultato è che la polizia è costretta a liberarlo e a scappare. Il togolese sparisce, ma la notizia fa scoppiare il finimondo. Lui si fa intervistare dalla Bild e dice tre volte, scuotendo la testa, che non vuole tornare in Italia: « Sono pacifico » , esclama, alzando le braccia. Il dettaglio dell’Italia, dopo i drammatici eventi dei giorni successivi, diventa fondamentale.
Appena la notizia si diffonde, in Germania scoppia una bufera. La destra dell’Afd insorge, sui social media si moltiplicano le offese razziste, gli inviti a sfondare la resistenza « con i panzer » . E la solita Beatrix von Storch ( Afd) denuncia la « capitolazione » dello Stato dinanzi « a un’orda di africani». Anche il responsabile Interni del partito di Merkel, Mathias Middelberg ( Cdu), pur attingendo a un vocabolario meno razzista, chiede « conseguenze » per i ribelli. « Non possiamo tollerare zone franche » , osserva su un giornale locale. Giovedì, l’ondata di indignazione culmina con il ministro dell’Interno della Csu, Horst Seehofer, che tuona di uno « schiaffo in faccia ai cittadini che rispettano la legge».
Quel giorno gli agenti tornano a Ellwangen, stavolta in tenuta antisommossa. E sono in centinaia. Quando fanno irruzione nel centro di accoglienza dove è ancora nascosto Yussuf, riescono a catturarlo ma sono costretti ad arrestare anche 27 richiedenti asilo che cercano di nuovo di difenderlo. Quando l’operazione si conclude con le manette al ventitreenne, il governatore dei Verdi del Baden-Wuerttenberg, Winfried Kretschmann, commenta soddisfatto che «è la soluzione giusta».
Il suo avvocato, però, non ci sta. Engin Sanlin considera il suo arresto « illegale » . Alla Bild ha spiegato di aver fatto ricorso contro l’espulsione «perché l’Italia è un Paese improponibile » . Esistono già, ha ricordato il legale, «sentenze che dimostrano come la situazione nei centri di accoglienza non corrisponda agli standard minimi europei » . Vista la disumanità con cui vengono trattati i richiedenti asilo in Italia, questa la tesi di Sanlin, non si può respingere lì un profugo.
Una tesi diffusa, tra gli avvocati tedeschi. E non è un caso che il governo Merkel abbia messo in cima alla lista delle riforme europee proprio la definizione di diritto di asilo comune. Come spiega un’autorevole fonte della Cdu, « servono standard comuni, servono regole molto più vincolanti per l’accoglienza dei profughi e dei migranti. Che spazzino via una delle argomentazioni preferite dagli avvocati tedeschi, quella della disumanità con cui verrebbero trattati i richiedenti asilo in Grecia o in Italia. Una scusa per impedire i respingimenti che non vogliamo più sentire».

Repubblica 6.5.18
Sull’immigrazione Salvini attacca Gentiloni: “ Chiamate un medico...!”


ROMA « Chiamate un medico! » . Lo scrive Matteo Salvini, leader della Lega, commentando le parole pronunciate venerdì a Genova dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni secondo il quale «per la demografia noi abbiamo bisogno di migranti nel nostro Paese».
«È inutile far finta che non sia così, ne abbiamo bisogno a condizione che sia fatto in modo sicuro, organizzato, che non susciti problemi in Italia e senza morti nel Mediterraneo», ha detto Gentiloni durante un colloquio con Lucio Caracciolo avvenuto all’interno del Festival di Limes in corso a Palazzo Ducale a Genova. Gentiloni ha evidenziato in particolare «il calo del 91 per cento degli sbarchi dalla Libia ottenuto dal suo governo nell’ultimo periodo».
«In Libia c’è stato un successo internazionale del nostro Paese, siamo diventati leader della questione libica e tutto il mondo ce lo riconosce», ha commentato. «La linea ragionevole è rendere i flussi migratori governabili — ha aggiunto — riducendoli in modo drastico e contemporaneamente far partire un meccanismo diverso di migrazioni legali, sicure, se possibile collegate al mercato del lavoro del Paese in cui vai a migrare».
Alle parole di Salvini ha replicato il senatore Franco Mirabelli, vicepresidente del gruppo del Pd al Senato: «Con questa infelice frase contro Gentiloni, Salvini dimostra di essere capace solo di fare campagna elettorale. Dice di essere pronto per salire a Palazzo Chigi, ma prega di non trovare la strada. La questione dei migranti è sparita dai radar di Salvini per i 60 giorni del balletto inconcludente con cui Lega e M5s hanno tenuto in ostaggio la nostra democrazia».

Corriere La Lettura 6.5.18
Il fallimento dei diritti umani
di Marcello Flores


Da diversi anni i diritti umani sono sotto accusa, principalmente da parte di governi che si sentono troppo vincolati al rispetto di norme e valori che ritengono pongano limiti eccessivi alla propria libertà d’azione, l’unico «diritto» che sentono fondamentale e inalienabile. Da Putin a Erdogan, da Trump a Xi Jinping, da Assad a Netanyahu, basta guardarsi attorno e ci si rende conto di come la cultura dei diritti umani, riconosciuta a parole da tutti, sia disattesa e vilipesa sempre più spesso.
In un articolo apparso il 23 aprile sul «New York Times», lo storico e giurista Samuel Moyn ha sottolineato come i diritti umani siano oggi in crisi, ricordando il disprezzo comune che ne hanno Orbán in Ungheria e Duterte nelle Filippine, ma focalizzando il suo intervento — non a caso intitolato Come è fallito il movimento dei diritti umani — sulle responsabilità di chi avrebbe dovuto promuoverli e difenderli. Il movimento dei diritti umani avrebbe, infatti, «accompagnato» le scelte economiche internazionali che hanno condotto alla crescita dei populismi e nazionalismi, perché — dopo aver raggiunto il massimo prestigio a partire dagli anni Novanta — si sarebbe inevitabilmente intrecciato con quel neoliberismo che imponeva nello stesso periodo il fondamentalismo di mercato, all’origine dei mali attuali.
Moyn ha appena pubblicato un libro (Not Enough. Human Rights in an Unequal World, «Non abbastanza. I diritti umani in un mondo disuguale»), dove con un respiro storico e analitico molto più ampio illustra la critica che ha riassunto nell’articolo del quotidiano. Il punto di partenza è la simultaneità dei due avvenimenti: «Invece di una giustizia globale, a partire dagli anni Settanta trionfò il fondamentalismo del mercato, insieme a una comprensione più cosmopolita e transnazionale dei diritti umani». Quella parentela temporale si rafforzò nel decennio successivo al 1989, quando la cultura dei diritti umani sembrò raggiungere un riconoscimento internazionale condiviso proprio mentre il neoliberismo si consolidava e si imponeva in tutto il mondo.
Moyn si domanda se dietro a questa simultaneità ci fosse anche qualche elemento di corresponsabilità, se il liberismo vincente in Europa orientale e America Latina nel corso della «terza ondata» di democratizzazione, a fine Novecento, fosse legato al prestigio straordinario del movimento per i diritti umani, più interessato alla difesa delle libertà politiche e alla giustizia di transizione (le misure riparative verso le vittime di una dittatura nel passaggio alla democrazia) che non alle trasformazioni sociali ed economiche che il neoliberismo stava imponendo a tutto il mondo.
Moyn ricostruisce come, a partire da fine Settecento, ma soprattutto verso la metà del Novecento, i diritti sociali siano diventati anch’essi parte del più generale progetto sui diritti umani codificato nella Dichiarazione universale del 1948. Si tratta di un lavoro che merita di essere analizzato con intelligenza storica e che illustra bene la battaglia — sia del movimento dei diritti umani che delle istituzioni internazionali create per questo — per ridurre la povertà. L’autore ripercorre così il dibattito pubblico che si svolse a partire dagli anni Novanta sui «bisogni fondamentali», foriero di importanti iniziative e ripensamenti nelle politiche degli aiuti internazionali, ma incapace di tematizzare il problema della disuguaglianza e di farne oggetto di una battaglia che andasse oltre il soddisfacimento dei basic needs.
Questa visione limitata dei diritti sociali, secondo Moyn, aveva la sua radice nello «stesso individualismo morale» che i diritti umani condividevano con le scelte economiche del periodo. Non crede che siano stati i diritti umani a favorire la crescita del neoliberismo, ma osserva che essi avevano costruito uno strumento troppo debole — la richiesta di risorse «sufficienti» a superare la povertà — per contrastare la crescita delle disuguaglianze. Queste ultime, come hanno messo in evidenza gli studi di Branko Milanovic e quelli di Andrea Brandolini e Francesca Carta, sono diminuite, soprattutto a partire dal XXI secolo, tra i diversi Paesi, mentre sono aumentate all’interno dei singoli Stati, soprattutto nelle realtà di cultura anglosassone.
Secondo Moyn la scarsa attenzione ai diritti sociali risale agli anni Settanta, epoca della «rivoluzione dei diritti umani» sorta quasi dal nulla, mentre dalla fine della guerra fredda «la corrente principale del movimento internazionale dei diritti umani ha generalmente considerato una vasta zona di compatibilità tra i propri valori e quelli della globalizzazione». Pur rifiutando di vedere nella cultura dei diritti una «lingua franca morale» che avrebbe indebolito i welfare nazionali e favorito il fondamentalismo di mercato, Moyn sostiene che essa sarebbe stata poco ambiziosa e inefficace di fronte ai successi del neoliberismo, di cui i diritti umani sarebbero diventati, senza volerlo, «compagni senza potere». I diritti umani, in sostanza, avrebbero svolto — sul terreno cruciale dell’ingiustizia e disuguaglianza sociale — un ruolo «palliativo che accetta la permanenza di un male ricorrente senza affrontarlo frontalmente».
Moyn, che ritiene stia tornando d’attualità il dilemma d’inizio Novecento «socialismo o barbarie», individua correttamente, anche se in modi eccessivamente manichei, la crisi in atto, che coinvolge necessariamente anche i diritti umani; ma ritiene sia la mancanza di un più diretto impegno politico globale del movimento dei diritti umani a costituire una delle componenti del problema. Coerente, in questo, con quanto asserito nel suo libro del 2010 The Last Utopia («L’ultima utopia»), e cioè che il vero movimento dei diritti umani sarebbe nato solo negli anni Settanta, come risultato del fallimento delle utopie politiche radicali e rivoluzionarie del decennio precedente. E proponendo, quindi, che torni a costituire una nuova «utopia politica» capace di fronteggiare i malesseri del presente.
Il movimento dei diritti umani, che conobbe negli anni Settanta e successivi uno sviluppo e una diffusione senza precedenti, ha in realtà una storia più articolata e contraddittoria. Più articolata perché parziale, e cioè finalizzata spesso a un settore soltanto dei diritti umani (libertà civili e politiche, conflitti armati e disastri naturali, salute ed educazione, ambiente e bioetica), in cui una battaglia lunga ha portato a risultati sorprendenti, che non possono mai essere dati per definitivi. Più contraddittoria perché la natura stessa delle due grandi famiglie di diritti (quelli civili e politici e quelli economici e sociali, che i giuristi hanno chiamato di prima e seconda generazione, oppure diritti negativi e diritti positivi) non permette una battaglia univoca e intrecciata, che spesso sono solo le forze politiche a poter svolgere assumendo in toto nel proprio programma la cultura dei diritti umani.
L’inserimento dei diritti sociali in molte Costituzioni ha mostrato quanto possa essere difficile concretizzare la loro realizzazione, proprio per mancanza di un referente politico in grado di volerlo e poterlo fare. Che sia tempo di ripensare ai diritti umani in questa nuova fase storica è inevitabile. Ma senza incolpare coloro che più continuano a darsi da fare per limitare i danni collettivi ai diritti che la politica internazionale oggi sembra incoraggiare.

Repubblica 6.5.18
Perché i diritti umani hanno fallito
di Samuel Moyn

L’autore è professore di Giurisprudenza e Storia all’università di Yale

Il movimento per i diritti umani è in crisi. Dopo decenni di conquiste, molti Paesi sembrano aver fatto passi indietro. Orbán in Ungheria, Duterte nelle Filippine e altri leader populisti esprimono in modo sistematico un disprezzo totale nei confronti dei diritti umani e di chi li difende. Eppure, dai più importanti organi di controllo agli osservatori dell’Onu, il movimento per i diritti umani sembra trarre insegnamenti sbagliati dalle difficoltà.
I sostenitori dei diritti umani hanno intensificato le vecchie strategie e non hanno dato risposte adeguate alle rimostranze delle maggioranze.
«La lezione più importante dell’anno scorso è che, malgrado i venti contrari, una difesa vigorosa dei diritti umani può avere successo», ha sostenuto Kenneth Roth, a capo di Human Rights Watch.
Naturalmente, l’attivismo può smuovere le persone. Se però i predicozzi sugli obblighi morali avessero fatto la differenza, il mondo sarebbe stato in condizioni migliori. Al contrario, chi ha a cuore i diritti umani farebbe bene a considerare cosa spinge così tante persone a votare uomini forti.
In verità, l’espansione delle politiche internazionali a favore dei diritti umani si è accompagnata al fenomeno economico che ha portato all’ascesa del populismo radicale e del nazionalismo. L’attivismo per i diritti umani si è installato in un mondo plutocratico.
Non doveva andare così. Si presumeva che la Dichiarazione universale dei diritti umani — promulgata nel 1948 — avrebbe avuto cura delle tutele sociali. Negli anni Settanta, invece, quando negli Usa e in Europa gli attivisti iniziarono a fare propria la causa dei diritti umani per le vittime di regimi brutali, dimenticarono l’aspetto della cittadinanza sociale.
Questo criterio iniziò a cambiare dopo la Guerra fredda. Anche allora, però, il patrocinio dei diritti umani non portò a riaffermare l’obiettivo dell’equità economica. Perfino quando sempre più attivisti sono arrivati a comprendere che la libertà politica e civile avrebbe stentato a sopravvivere in un sistema economico ingiusto, l’attenzione è stata rivolta alla sola sussistenza. Negli anni Novanta, le politiche a sostegno dei diritti umani e del mercato raggiunsero l’apogeo.
In Europa orientale, gli attivisti per i diritti umani si impegnarono per destituire le vecchie élite, anche quando i beni statali furono svenduti agli oligarchi ed esplose la disuguaglianza. In America Latina, il movimento si impegnò per mettere dietro le sbarre gli ex despoti.
Un programma neoliberale, però, dilagò nel continente insieme alla democrazia, mentre il movimento dei diritti non imparò granché sull’equità distributiva e su quanto potesse essere importante per impedire la disuguaglianza. Adesso il mondo raccoglie i frutti di ciò che la disuguaglianza ha seminato.
Qualche recente segnale di un cambio di direzione c’è stato. La Ford Foundation ha annunciato che si sarebbe concentrata sull’uguaglianza economica. Soros ha osservato che le disuguaglianze contano.
Alcuni hanno sostenuto che il movimento potrebbe cogliere la sfida della disuguaglianza ignorata per tanto tempo.
Il movimento non deve sprecare l’occasione di riconsiderare come sopravvivere. Omettere di appoggiare una politica a più ampio raggio, basata sull’equità, è pericoloso. Per anni c’è stata la tentazione di credere che i diritti umani fossero il primo baluardo contro la barbarie. Un’agenda più ambiziosa dovrebbe offrire valide alternative ai mali della nostra epoca.
Traduzione di Anna Bissanti © 2018 The New York Times

Il Sole Domenica 6.5.18
Liberalismo, vittoria di Pirro
Oramai non passa settimana in cui non esca un libro sulla crisi di liberalismo e democrazia
di Sebastiano Maffettone


Oramai non passa settimana in cui non esca un libro sulla crisi di liberalismo e democrazia. In questa serie -che di certo raccoglie umori e emozioni del presente- si inserisce a pieno titolo Why Liberalism Failed. L’autore del libro in questione, Patrik J. Deneen, è professore di Political Science a Notre Dame University negli Stati Uniti. Scrive però con estrema chiarezza tralasciando il gergo accademico. La tesi principale del libro di Deneen è che il liberalismo ha fallito - come del resto recita il titolo del volume- anche se ha vinto. La sua realizzazione non è equivalsa alla «fine della storia» (Fukuyama) e a un’utopia realizzata.
È vero infatti che delle tre grandi ideologie del secolo passato solo il liberalismo è ancora vivo, mentre fascismo e comunismo non lo sono più. Ma sempre di più , secondo l’autore, che qui fa un po’ il verso a Marx, scopriamo per l’appunto che è una «ideologia», anche se lo è in maniera più nascosta delle rivali, e per conseguenza ne siamo delusi.
Ma, e qui sta il picco provocatorio della tesi, la nostra delusione non dipenderebbe tanto da un tradimento degli ideali fondazionali da parte del liberalismo quanto dal fatto che si sono realizzati. Fin troppo, si è tentati di dire leggendo Deneem. Il liberalismo ci ha promesso piena autonomia degli individui, e abbiamo avuto come esito una «folla solitaria» di uomini e donne indipendenti che sempre più somigliano a hikikomori (quelli che parlano solo con il computer). Ci aveva garantito mercato e meritocrazia, e come risultato cittadini potenzialmente virtuosi si stanno trasformando in consumatori arrabbiati. Ci ha assicurato che scienza e tecnologia, come voleva Francis Bacon, avrebbero guidato con sapienza le nostre esistenze, e della tecnologia sempre più patiamo la pervasività e il controllo. Tutto ciò si mostrerebbe in maniera non equivoca nella progressiva distruzione di ogni cultura in nome dei diritti del singolo, nella tirannia dell’alternanza tra stato e mercato, nel tramonto della cultura umanistica sempre più relegata nel retrobottega dello spirito e sostituita dalla tecnica e dal desiderio di successo economico, nella sostanziale perdita della comunità coesa.
Come a dire che si il liberalismo ha vinto, ma la sua è stata una vittoria di Pirro. Questo dipenderebbe anche dal fatto che, dal punto di vista filosofico, il liberalismo ha cancellato la dimensione del tempo in nome del presentismo e quella dello spazio in nome dell’universalismo. Deneen concede, bontà sua, che qualcosa di buono nel liberalismo c’è stata -come una certa efficienza e la fine dell’autoritarismo- e che il 1900 ha mostrato sulla scena del mondo rimedi quali il comunismo e il fascismo peggiori del male. Per cui, a suo avviso, bisogna sbaraccare il liberalismo ma solo in parte. Fin qui la pars destruens del libro, che è provocatoria come detto anche se non del tutto originale in quanto sostanzialmente non fa che riprendere vecchie tesi conservatrici e reazionarie per tradurle in un linguaggio coerente con i nostri tempi. Cosa che, ammettiamolo, potrebbe essere utile. I guai vengono, come spesso capita con i libri vagamenti apocalittici, quando si passa alla pars construens.
L’autore tiene a precisare, nella Prefazione, che il libro è stato scritto prima di Brexit e Trump, si suppone perché così si vede che aveva visto giusto sulla crisi del liberalismo. Ma questo non ci esime dal chiedere: ammesso e non concesso che il liberalismo non funzioni, che cosa mettiamo al suo posto (Brexit e Trump non sono incoraggianti da questo punto di vista)? Deneen propone tre ipotesi futurologiche. Le prime due le conosciamo già, Dato che consistono nel preservare parte del liberalismo e nell’abbandonare l’ideologia che gli sta sotto. La terza e più impegnativa ipotesi propone l’avvento di un nuovo paradigma teorico.
Confesso che, avendo letto diverse volte l’ultimo paragrafo del libro che di questo nuovo paradigma discute, non sono riuscito a capire di che cosa si tratti. Forse, posso cercare di indovinare, di un misto di household economics e comunitarismo religioso. Non molto, in verità, e per giunta non nuovo. Per cui, si può concludere che questo libro, per certi versi agile e intelligente, si aggiunge alla lista di quelli che all’inizio gridano ad alta voce per attirare lettori per poi alla fine lasciarli senza troppe speranze per il futuro.
Patrik J. Deneen, Why Liberalism Failed , Yale University Press, New Haven, pagg. 225,$30

Corriere La Lettura 6.5.18
Visioni Narra aborigeni e armeni, chi fu discriminato in passato. E oggi vuole essere accessibile a ogni ospite. Parla l’ideatore
Il museo canadese che include tutte le diversità
di Michela Rovelli


Non ci sono scale, solo lunghe rampe in alabastro che portano i visitatori dall’oscurità del piano sotterraneo, incastonato tra quattro blocchi di pietra, fino alla sommità dell’alta torre panoramica. Ad ogni piano, sulle porte dei servizi igienici, nessuna indicazione a parte la scritta «toilet». Non ci sono bagni per uomini o per donne. Solo bagni. Neutrali. Il più grande esperimento di inclusive design (design inclusivo) si trova nel cuore del Canada, a Winnipeg, cittadina a un centinaio di chilometri dal confine con gli Stati Uniti. All’interno del Canadian Museum for Human Rights (Museo canadese per i diritti umani), inaugurato nel 2014, tutto è studiato affinché l’esperienza di visita sia fruibile nello stesso modo da qualunque utente. Azzerando ogni barriera. Un ambiente innovativo, dove si genera un flusso continuo tra reale e digitale.
«Non è solo un approccio tecnico, alla base c’è una concezione più ampia: creare un luogo di cui tutti si sentano parte», spiega Corey Timpson, vicepresidente dell’area mostre, ricerca e progettazione del museo fino allo scorso 28 marzo. Il designer sarà ospite di Meet the Media Guru. Il 16 maggio alla Triennale di Milano racconterà come ha superato quella che definisce «la più grande sfida di design della mia vita» e come è diventato uno dei massimi esperti di inclusive design, adesso consulente per diversi progetti. «È un’evoluzione del cosiddetto universal design — spiega —. Lo scopo è raggiungere la totale accessibilità, in tutte le declinazioni. Non ci si riferisce solo alle disabilità fisiche o mentali, ma anche linguistiche, culturali o dal punto di vista del gender». Per ottenerla, ci si affida anche alla tecnologia: «È uno mezzo potente che a volte però è usato con timidezza. I musei raccontano storie, devono aiutare a imparare. E la tecnologia può veicolare il messaggio in modo che abbia più impatto. Spesso invece se ne abusa o, al contrario, è sfruttata in modo superficiale».
Nel Canadian Museum for Human Rights il percorso su 6 livelli, diviso in 11 gallerie, è disseminato di 120 iBeacon: piccoli trasmettitori radio che inviano allo smartphone, tramite Bluetooth, informazioni sulle esposizioni. L’utente può fruirle nelle due lingue ufficiali canadesi, inglese e francese, o nel linguaggio dei segni. Gli iBeacon sono inseriti negli Universal Access Points, dispositivi fisici, accanto a ogni opera, dove si accede anche al codice braille. Ci sono i touch screen, e pure le Universal Keypad, tastiere che rispondono ai comandi sia gestuali sia vocali. Grazie al jack audio, si possono collegare gli auricolari e ascoltare la spiegazione. «Inclusive» sono pure le grafiche che accompagnano la mostra: carattere, colore e proporzione delle scritte sono studiati perché siano il più possibile leggibili.
L’innovazione culturale è fondamentale: «La tecnologia si presta come grande strumento di facilitazione — spiega Timpson — permette di raggiungere la piena interattività. Non solo schiacciare un bottone e far partire un contenuto digitale. Interattività significa creare un dialogo vero, in modo più semplice». È questo l’obiettivo del progetto, nato dalla mente dell’imprenditore e filantropo canadese Israel Asper e portato avanti, dopo la sua morte, dalla famiglia. Il primo museo nazionale costruito in Canada dal 1967. Timpson ha partecipato sin dagli inizi, nel 2007: «Per creare un luogo di inclusive design non c’era niente di meglio. Ho avuto carta bianca. Pianificare un’intera struttura con questa filosofia ha dei vantaggi. Permette di raggiungere la più ampia accessibilità a partire anche solo dall’estetica».
Il luogo è nato per i diritti umani. Che non solo racconta, ma promuove. «Qui non ci sono oggetti, ma storie intangibili — aggiunge il designer —. Non è una raccolta del passato, è in divenire». Si torna indietro all’Olocausto e al genocidio degli armeni, si affronta il tema della discriminazione e della condizione degli aborigeni canadesi. Un percorso che parte dall’oscurità, dai drammi più profondi della storia umana. Le rampe pian piano salgono verso la luce — naturale, entra dalle pareti trasparenti — per raggiungere metaforicamente la consapevolezza di ciò che ciascuno di noi può fare per ispirare il cambiamento. «La difficoltà sta nel fornire gli strumenti per interpretare le storie. Senza prendere posizione. E lasciando sempre un barlume di speranza». Una concezione innovativa dello spazio museale, che Timpson promuove: «A giudicare dall’attenzione che ha avuto, è la giusta strada. C’è stato un processo di sofisticazione nel modo di passare il tempo libero. Le aspettative sono cresciute, anche per i luoghi culturali serve più impegno. Alla base deve esserci un dialogo». Dal museo al visitatore. E viceversa.

Corriere La Lettura 6.5.18
Medico, leggi Dostoevskij
La letteratura aiuta la scienza
di Orsola Riva


Il manuale di anatomia o Dostoevskij? I tirocini in ospedale o le Variazioni Goldberg? Che cosa conta di più nella preparazione di un buon medico? La maggior parte delle facoltà di medicina oggi sembrano concepite per fabbricare degli specialisti con una preparazione scientifica solidissima ma privi di cultura umanistica. Errore grave. Perché invece chi coltiva la lettura e ascolta la musica, chi ama andar per musei, al teatro o al cinema, mostra di avere una grana umana più fina di chi non lo fa. O almeno questo è quanto risulta dall’indagine realizzata da due storiche scuole di medicina americane — la Thomas Jefferson University di Filadelfia e la Tulane University di New Orleans — su 739 studenti. Quelli culturalmente più attivi sono anche i più saggi e i meno depressi.
Lo studio ha dimostrato che c’è una correlazione diretta fra fruizione attiva e passiva dell’arte e della letteratura e tre qualità indispensabili per un buon medico: l’empatia, la saggezza e la cosiddetta tolleranza dell’ambiguità, intesa come la capacità di destreggiarsi in situazioni ambigue senza perdere la calma e di elaborare soluzioni creative a situazioni complesse. «Una qualità importantissima che le nostre università purtroppo non coltivano. I test multiple choice — spiega da Filadelfia a “la Lettura” il dottor Salvatore Mangione, che ha diretto le ricerca — insegnano a pensare che una cosa sia nera o bianca. Ma così quando i nostri studenti si trovano finalmente davanti a un letto di ospedale non sanno più cosa fare. E nell’ansia da controllo prescrivono al paziente un esame dopo l’altro. Non solo non fanno il suo bene, ma finiscono anche per costare più del necessario».
Le scuole di medicina sfornano legioni di giovani dottori fabbricati con lo stampino: camici bianchi preparatissimi da un punto di vista disciplinare, ma del tutto inadeguati ad affrontare la condizione umana, dice ancora Mangione. «Il medico non è un meccanico e il paziente non è un carburatore. Un buon dottore deve sapersi connettere con il malato per creare quella fiducia che è una componente essenziale della guarigione. La medicina è un’arte che usa la scienza. Non puoi separare un aspetto dall’altro. Senza la scienza saremmo fermi agli sciamani. Ma senza cultura umanistica ci consegniamo ai tecnici».
Ecco perché nonostante gli straordinari progressi fatti dalla ricerca negli ultimi anni, l’immagine pubblica del medico appare logorata: «Ma come può un medico entrare in contatto con il paziente — aggiunge Mangione — se metà del suo tempo lo passa a immettere dati nel computer? . Lo si vede bene anche nelle serie tv: il George Clooney di ER era molto più simpatico di Dr. House». Non a caso i medici in America sono la categoria professionale con il più alto tasso di suicidi (circa 400 casi l’anno) e una tendenza in crescita ad andare in pensione prima del tempo.
Gli antichi dicevano «medico cura te stesso». Mangione suggerisce di curare i medici con iniezioni di arte, musica e letteratura. «Io insegno semeiotica, la disciplina che studia i sintomi e i segni clinici della malattia. L’esame obiettivo di un paziente è la parte più artistica della medicina. Letteralmente. Diversi studi condotti prima a Yale e poi a Harvard hanno dimostrato che l’esposizione alle arti visive migliora la capacità diagnostica del 40 per cento». Per questo alla Jefferson University organizzano uscite ai musei ma anche corsi di disegno, scrittura e teatro. «Il disegno — dice ancora Mangione — insegna a guardare meglio le cose, mentre scrittura riflessiva e teatro hanno una funzione catartica. Fino a non molto tempo fa in Germania gli aspiranti medici venivano incoraggiati a studiare uno strumento musicale. Ogni scuola di medicina aveva una sua orchestra. Quando negli anni Settanta questa tradizione tramontò, “Die Zeit” pubblicò un articolo allarmato in cui si chiedeva: Che medici avremo d’ora in poi?».
La conclusione della ricerca pubblicata sul «Journal of General Internal Medicine» è che se si vogliono fabbricare dei medici più tolleranti, empatici e resilienti bisogna reintegrare le discipline umanistiche nel curriculum medico, modificando anche i test di accesso che non tengono in alcun conto nessuna di queste qualità umane. Come conclude Mangione: «Negli ultimi cent’anni medicina e arte hanno seguito due strade separate. È ora di riconnettere l’emisfero sinistro del cervello con il destro. Per il bene del paziente. E anche del medico».

Il Fatto 6.5.18
“Lo stallo è totale: Di Maio e Salvini sono vincitori fasulli. E il Pd ormai è una farsa”
Massimo Cacciari - “Non credo che il Colle sciolga le Camere. È tutto fermo tra veti e infantilismi”
“Lo stallo è totale: Di Maio e Salvini sono vincitori fasulli. E il Pd ormai è una farsa”
intervista di Tommaso Rodano


Massimo Cacciari è al solito caustico. Osserva il grande stallo politico con ironia e distacco: “La situazione è surreale. I vincitori hanno dimostrato di essere vincitori fasulli. Il Pd è una barca che affonda in un bicchiere d’acqua. Il blocco è totale”.
E le colpe di chi sono?
Partiamo dal principio. Questa condizione la dobbiamo al Rosatellum. Un’operazione geniale: nato per fottere i Cinque Stelle si è trasformato in un’arma per la loro vittoria; quando si dice “eterogenesi dei fini”.
Una vittoria mutilata, si direbbe.
I due vincitori delle elezioni sono completamente fermi: Salvini è bloccato dall’impossibilità di lasciare Berlusconi, i grillini dalla loro stessa natura e da una visione ingenua della politica: o noi o niente. Pretendono di non trattare né sul premier né sulla presenza di qualche ministro di Forza Italia.
Ma hanno cercato l’accordo sia con la Lega che con il Pd. Una rivoluzione, rispetto alle loro origini. O no?
Si sono aperti, certo, ma sempre con un atteggiamento di acuto infantilismo: “Venite a noi”. Non puoi concepire la mediazione dicendo semplicemente che la montagna deve andare da Maometto. Se avessero rinunciato a imporre Di Maio premier, sono convinto che non avrebbero fatto fatica a formare un governo. Se avessero proposto una terza persona, Salvini avrebbe avuto un’arma formidabile per convincere Berlusconi a rinunciare a tutto o quasi. Dubito che questo infantilismo continui a pagare a livello elettorale.
Cosa farà il presidente della Repubblica domani?
È quasi impossibile trovare una soluzione. Credo che Mattarella sarà costretto a dare l’incarico a qualcuno: sarebbe poco serio andare alle elezioni con Gentiloni ancora premier. Potrebbe conferirlo alla presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati.
E i voti in Parlamento dove li cerca?
Dal centrodestra e da Renzi. In questa situazione, come fa Salvini a non darle i voti? E con la spinta di Mattarella potrebbe prenderli anche dal Pd. L’alternativa è andare avanti con Gentiloni e convocare le elezioni, ma prima di ottobre è ormai impossibile votare. E credo che il Quirinale sia molto restio a una soluzione di questo tipo.
Il Pd può uscire dallo stagno in cui si è confinato?
Parliamo ormai di un partito fantasma. L’ultimo episodio è la Direzione nazionale, uno spettacolo patetico. Parli per settimane di resa dei conti, ti presenti con 10mila correnti in dissenso su tutto o quasi. Poi arrivi al giorno della Direzione e che fai? La concludi con un voto all’unanimità. Non è una cosa seria. Ma quand’è che discutono davvero? Quando daranno un minimo di dignità alle ragioni per cui si dividono? Prima era un piccolo dramma, ora è un’autentica farsa.
Deve liberarsi di Renzi?
Se il Pd si libera di Renzi non rimane niente. È l’unico con un po’ di carisma e un po’ di voti propri. Gli altri in Direzione non si sono voluti contare perché non c’è nessuna unità tra di loro; i Franceschini, i Cuperlo, gli Orlando, gli Emiliano. Facciano almeno una cosa: una volta stabilita la data dell’Assemblea o del Congresso, gli antirenziani si mettano d’accordo, si presentino con un programma, un documento serio e un leader comune. E provino a salvare la faccia.
Quel leader può essere Zingaretti?
È l’unica possibilità. Tutti gli altri sono completamente bruciati. Alcuni hanno portato l’acqua con le orecchie a Renzi per anni, adesso si sfilano. Altri, penso a Cuperlo, non hanno l’ambizione politica per questa sfida. L’unico è Zingaretti. Non ha perso le sue elezioni, a differenza di tutti gli altri, e in questi anni non è nemmeno stato coinvolto troppo nelle vicende sciagurate di questo partito.

Repubblica 6.5.18
Il futuro del Pd
di Giuseppe Provenzano


Caro direttore, dopo la direzione del Pd in molti si chiedono che futuro avrà questo partito, se avrà un futuro. Come è possibile che, dopo tutto quello che è accaduto, sia finita all’unanimità? La situazione appare grave, ma non seria, non all’altezza della sconfitta, dello stato dell’Italia, dell’Europa, del mondo. No, non rischiamo di uccidere il Pd per una comparsa da Fazio. Rischiamo di ucciderlo per mancanza di passione e comprensione della vita reale, di ucciderlo di ipocrisia. Ma la chiarezza non può arrivare da una direzione, dai (ri)posizionamenti interni. A fare chiarezza sarà la politica, serve un congresso.
Un fatto nuovo però c’è stato. Nella relazione di Martina e nella discussione s’è incrinato il muro di conformismo. S’è parlato degli “errori”, e il primo è pensare che a sbagliare, al referendum e alle elezioni, siano stati gli italiani, dai quali pretendere rivincite: una tragedia umana, prima che politica. È riaffiorata l’autocritica! La parola fa sorridere, ma consente a chi si è opposto, in questi anni, con qualche ragione, di ritrovare un terreno di confronto. Lo psicodramma “M5S sì/no” è stato l’ennesimo espediente per non affrontare le cause della sconfitta più grave della sinistra. Ma è stato rivelatore: al di là della strumentalità della posizione di Renzi, il problema siamo noi. Se non sai “chi sei”, tutto si riduce al “con chi vai”. Il Pd oggi non saprebbe cosa fare al governo o all’opposizione. Come si fa a dire “ ripartiamo dal programma del Pd”? È quello che gli italiani hanno bocciato, assieme a una concezione del potere, a una leadership senza più fiducia. Peggio della sconfitta è la (mancata) reazione alla sconfitta. Il renzismo ha siglato il definitivo divorzio tra sinistra e popolo, ma la crisi è iniziata prima. La disfatta riguarda tutti i protagonisti della sinistra nella Seconda Repubblica. Dobbiamo ridiscutere cosa siamo stati. Un europeismo viziato dall’ideologia del “ vincolo esterno”, che ha accettato il “ pilota automatico” nel governo dell’economia. Lo smantellamento dello Stato, incapace di fare investimenti e innovazione, e che non è in grado di includere, per cui l’appello all’accoglienza suona moralistico e prevale la deriva securitaria. Cosa diciamo sulla democrazia, sui partiti al tempo dell’algoritmo? Siamo seri, chi ha perso le elezioni non può andare al governo? No, ma chi ha straperso può comandare nel Pd? Chi ha perso il referendum, che già rivelava il cataclisma sociale della crisi, può proporre un’altra riforma istituzionale? Con i populisti con cui non si può nemmeno parlare? Meglio il Jobs Act della Costituzione? Perché? Per “fare come Macron”? Il disegno non è serio, ma è grave. Bisogna avere l’onestà di dirlo: in un congresso, in cui fare chiarezza.
Il Pd va ricostruito dalle fondamenta. Non basta dire “torniamo allo spirito originario”. Dopo la crisi, che ha fatto sparire la classe media, la scommessa è superare la distinzione tra sinistra riformista e radicale. Serve un congresso vero, non l’ennesima conta tra gruppi dirigenti, aperto alla sinistra diffusa, ai sei milioni di elettori dispersi ( altro che scissione!), al mondo di fuori che nel sindacato, nei luoghi di lavoro ( e dei lavoretti), nell’associazionismo, fa cose giuste spesso malgrado noi, contro di noi. Un congresso che parli della guerra in Siria e dell’illuminazione per strada, che riscatti il partito sequestrato dai rancori, che non valorizza nemmeno le sue forze vive: i giovani, gli amministratori in trincea, minacciati dalle mafie, impegnati in campagna elettorale a giugno. Forze vive, Repubblica ne ha interpellate alcune, che non si rassegnano all’irrilevanza della sinistra politica. Solo chiarendoci potremmo stare insieme e rispettarci. Se diciamo di essere uniti, sembra una farsa. Più insopportabile dell’arroganza è l’arroganza dei perdenti. Solo rimettendo al centro la giustizia sociale combatteremo la rabbia, la demagogia, la prepotenza nella società. Così torneremo a essere umili con gli umili, perché lì maturano i frutti del “ furore”, altrimenti poi la vendemmia la fanno gli altri.

Il Fatto 6.5.18
Il ministero ora ammette: alternanza, nessun obbligo
Manca la norma che impone le ore scuola - lavoro. L’iter è assimilabile a impieghi autonomi
Il ministero ora ammette: alternanza, nessun obbligo
di Virginia Della Sala


Tanta alternanza per nulla: in una recente nota (la 7194 del 24 aprile 2018), il ministero dell’Istruzione ha ammesso – su richiesta del sindacato Flc Cgil ma anche su sollecitazione di famiglie, studenti e insegnanti – che l’alternanza scuola lavoro introdotta con la Buona Scuola non fosse obbligatoria per la maturità come invece sembrava finora. O per lo meno come veniva percepita in assenza di una spiegazione chiara che, ala fine, è arrivata.
“Ai finidell’ammissione dei candidati interni all’esame di Stato – si legge nella nota che intende “eliminare alcuni dubbi interpretativi” – si osserva che, per l’anno scolastico 2017/2018, la normativa nulla dispone circa l’obbligo, per le studentesse e gli studenti, di aver svolto un monte ore minimo di attività di alternanza scuola lavoro nell’ultimo triennio del percorso di studi”. E aggiunge: “Tali esperienze sono da considerare quale elemento di valorizzazione del curriculum dell’allievo; la loro eventuale mancanza non deve costituire in alcun modo elemento di penalizzazione nella valutazione”.
Una puntualizzazione essenziale. Finora, infatti, il riferimento era la “Guida operativa per la scuola” redatta dal Miur a ottobre del 2015. Il testo, a pagina 52 si stabiliva che “per quanto riguarda la frequenza dello studente alle attività di alternanza, nelle more dell’emanazione della Carta dei diritti e dei doveri degli studenti in alternanza (200 ore per gli studenti dei licei, 400 per quelli degli istituti tecnico -pratici), ai fini della validità del percorso di alternanza è necessaria la frequenza di almeno tre quarti del monte ore previsto ”.
Tanto i sindacati – come la Flc Cgil che ieri ha diffuso un comunicato – che l’Unione degli Studenti avevano sottolineato come non fosse chiaro il valore giuridico del testo “tenuto conto – scrive il sindacato – che in diversi punti esso ha carattere innovativo e che in altre appare difforme rispetto alla normativa di riferimento”. Insomma, per tre anni gli studenti hanno creduto di essere obbligati a svolgere l’alternanza scuola lavoro (400 ore…) – con tutti i casi limite, dal Mc Donald’s a Zara alle situazioni a rischio sfruttamento – per poter accedere agli esami di Stato e solo ora scoprono che non è così. Inoltre, la nota stabilisce anche che gli studenti esterni possono dichiarare e documentare “le eventuali esperienze di alternanza scuola lavoro o le attività ad esse assimilabili (stage, tirocini, attività lavorative anche in apprendistato o di lavoro autonomo)”. Un’assimilazione, secondo il sindacato, dell’apprendistato o del lavoro autonomo all’alternanza scuola lavoro “contraddicendo quanto più volte espresso negli ultimi mesi dalla stessa ministra Fedeli. Si tratta dell’ennesima testimonianza delle pesanti contraddizioni che la Legge 107/15, la cosiddetta Buona Scuola, lascia in eredità al nuovo governo”. Ad ogni modo, si tratta di una disposizione valida solo per l’anno scolastico in corso. Per il 2018-2019, sarà invece un requisito necessario. A stabilirlo, il decreto legislativo 13 aprile 2017, n. 62, che attua le disposizioni già previste nella Buona Scuola e di fatto fissa le nuove regole per l’esame di maturità: “L’ammissione all’esame di Stato è altresì subordinata (…) allo svolgimento di attività assimilabili all’alternanza scuola-lavoro”.
In serata, la replica del ministero: “Nessuna deroga o dietro front. Le interpretazioni sulla mancata obbligatorietà sono prive di ogni fondamento”. Si spiega che la circolare risponde ai quesiti delle scuole sui prossimi esami di Stato a cui parteciperanno, per la prima volta, gli studenti che hanno completato il primo triennio. “La partecipazione all’Alternanza non è facoltativa e rientra nel curricolo del triennio. La certificazione finale delle competenze viene acquisita negli scrutini intermedi e finali degli ultimi tre anni, concorre alla determinazione del profitto nelle discipline coinvolte nell’esperienza di Alternanza, del voto di condotta e, quindi, del credito scolastico con cui si arriva agli esami ed è inserita nel curriculum dello studente. Tutto questo è noto dalla data di approvazione del decreto, dunque dal 2017. La circolare del 24 aprile non fa che ribadirlo.

Il Fatto 6.5.18
Prof di religione all’esame: a rischio i calendari
Scuola media - I docenti obbligati a essere in commissione. I presidi: “Gli spostamenti obbligatori creeranno ritardi”
Prof di religione all’esame: a rischio i calendari
di Vds


Prevedere il caos è molto facile, anzi quasi una certezza: da quest’anno è d’obbligo che i professori di religione siano presenti all’esame finale di terza media. Un obbligo che però sta creando moltissimi problemi ai dirigenti scolastici e agli insegnanti, ma anche a genitori e studenti. Complicatissimo organizzare il calendario delle prove.
Il motivo è semplice: ogni docente di religione ha solo un’ora di lezione per classe. Questo significa che per completare le ore previste dal suo contratto, insegna in ben più di una classe. Così, gestire la sua presenza in ogni seduta d’esame rischia di prolungare i tempi e di far slittare le prove oltre il 30 giugno. Inutilmente.
Il punto: fino all’anno scorso, nelle commissioni d’esame dovevano esserci gli insegnanti delle materie d’esame. Il docente di religione partecipava solo allo scrutinio finale. Da quest’anno, invece, la commissione d’esame dovrà essere formata da tutti i docenti del consiglio di classe inclusi quelli di religione o della materia alternativa. Insomma, i professori di religione dovranno entrare e uscire dalla classe dell’esame in base alle scelte dell’alunno di frequentare l’ora di religione (facoltativa) oppure dovranno spostarsi da una scuola a un’altra, saltellando da una commissione all’altra. Una dinamica che potrebbe coinvolgere circa 4mila docenti. “Considerando che i docenti di religione sono presenti in tutti i consigli di classe, e spesso addirittura su più istituzioni scolastiche, risulta praticamente impossibile, nella stragrande maggioranza dei casi, prevedendo la loro partecipazione ai lavori di tutte le sottocommissioni, concludere gli esami entro il 30 giugno, come previsto dalla legge – spiega l’associazione professionale Dirigentiscuola – In alcune scuole, invece, la loro presenza sarebbe forse possibile ma solo costringendo le commissioni e gli alunni a massacranti sedute d’esame fino a sera comprendendo nel calendario anche l’intera giornata del sabato e destinando ben poco tempo alla prova orale di ogni studente”.
Il cambiamento è arrivato tra le riforme delle prove d’esame contenute nelle deleghe della Buona Scuola: oltre a questo, per la terza media si annovera l’abolizione del test Invalsi, spostato durante l’anno scolastico e privo di influenza sulla valutazione, la previsione di tre prove scritte (italiano, matematica e lingua straniera) e un colloquio orale. C’è chi considera l’estensione dell’obbligo anche alla religione cattolica una svista, ma anche chi ci legge altro: secondo alcune associazioni che si battono per la laicità della scuola (Comitato Nazionale per la scuola e la Costituzione in testa) “è l’ultimo atto di un processo sotterraneo per recuperare all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche il ruolo di ‘materia obbligatoria’. Solo con difficoltà sono state introdotte norme per rendere effettiva la nuova facoltatività con la formulazione delle quattro alternative, sulle quali, anche per la difficoltà a superare certe prassi e il timore di esporre i figli a discriminazioni, sono state esercitate poche opzioni”.

Il Sole Domenica 6.6.18
Nobel per la letteratura. La lotta di potere
C’è del marcio in Svezia
di Daniela Marcheschi


L’acqua cheta rovina i ponti – dice un vecchio proverbio italiano. Visti i tempi, bisogna subito postillare che funziona benissimo anche in Svezia, dove le passioni si esprimono in genere senza sguaiataggine, senza alzare mai troppo i toni, ma non sono meno vive e dirompenti. Ad esempio, non si ricorderà mai abbastanza il gesto forte di Kerstin Ekman, autorevole scrittrice e intellettuale svedese, le cui opere sono tradotte anche in italiano: terza donna a diventare nel 1978 membro dell’Accademia, nel 1989 se ne è sospesa, perché l’istituzione non prendeva una posizione chiara nei confronti della fatwa (la condanna a morte per bestemmia), lanciata dall’Ayatollah Khomeini contro lo scrittore indiano-britannico Salman Rushdie.
Quello che, poi, accade oggi nell’Accademia svedese, celebre per la consegna dei premi Nobel, è la punta di un iceberg dalla base ampia e consolidatasi nel tempo. Da parecchi anni si sapeva delle pessime voci che correvano sul fotografo franco-svedese Jean-Claude Arnault, marito della non eccelsa poetessa Katarina Frostenson. Quest’ultima è stata ammessa nel 1992 all’Accademia di Svezia, e non senza suscitare dubbi e sospetti di favoritismo, per la sua giovane età (allora l’autrice aveva solamente trentanove anni) e per l’appartenenza a una famiglia molto influente. Discussi anche i rapporti con la Francia intrattenuti dalla coppia e l’assegnazione di due premi alla nazione transalpina nel 2008 (Le Clézio) e nel 2014 (Modiano).
Perfino la scrittrice Maja Lundgren, nel suo romanzo Myggor och tigrar (Zanzare e tigri), pubblicato da Bonnier – il maggiore editore svedese – nel 2007, aveva bollato in rima il predatore Arnault come «Jean-Claude utan nåd», ossia «Jean-Claude senza pietà». Tali voci erano giunte anche in Accademia e già nel 1997: l’allora segretario Sture Allén era stato informato da una vittima di Arnault, per lettera, di gravi molestie subite, ma aveva lasciato cadere la cosa nel vuoto. Anzi, dal 2010 al novembre 2017 (quando lo scandalo è scoppiato senza ma e senza se), al centro culturale Forum, diretto da Arnault e dalla stessa Frostenson, l’Accademia ha elargito 126mila corone svedesi ogni anno – in tutto più di ottantamila euro circa. La Frostenson, accusata di non aver informato i suoi colleghi del conflitto di interessi, si è autosospesa: ma possibile che a Stoccolma, dove negli ambienti della cultura si sa tutto di tutti, gli unici a non esserne al corrente fossero gli accademici che concedono i finanziamenti? Da quel momento è cominciato un braccio di ferro interno, che ha comportato le dimissioni o, meglio, le autosospensioni di altri esponenti di rango, come lo storico Peter Englund o il poeta e studioso Kjell Espmark. Un membro è eletto a vita nell’Accademia di Svezia, e la “sedia” che egli occupa resta sua fino alla morte. Tutt’al più, se è vivente, figura come membro “non attivo”, ma non può decadere. Ininfluente per il momento l’intervento del Re, che ha da poco introdotto la possibilità (senza valore retroattivo) di dare le dimissioni entro i primi due-tre anni dalla nomina in Accademia. La catena delle autosospensioni per protesta ha così portato i membri attivi a dieci, numero che non permette le votazioni in vista della scelta del premio Nobel per la Letteratura. Tuttavia, dato il regolamento del premio, che impone ogni anno alla commissione ristretta per la Letteratura (4 accademici) un duro lavoro durante ben tre fasi di selezione – da un 48 autori od opere circa a 8-5, infine al vincitore proclamato in ottobre –, ci sarebbero stati dei margini per chiarire ulteriormente le questioni non letterarie e raggiungere un accordo di massima sulla rosa dei candidati e sul possibile nome del vincitore. Invece no, rapidamente si è arrivati alla decisione di non consegnare il premio Nobel per la Letteratura nel 2018. Davvero era l’unica possibile «per ripristinare la generale fiducia» verso l’istituzione, come si legge nel comunicato stampa dell’Accademia di venerdì scorso?
A un accademico è prima di tutto richiesto di lavorare per il proprio paese con onestà e senso di giustizia, e ciò non è accaduto, se si è voltato lo sguardo davanti alla barbarie delle violenze sessuali e all’uso disinvolto del denaro pubblico. In Svezia, dove si è sensibili alla moralità pubblica, non si hanno dubbi: lo studioso di letteratura Horace Engdahl e il linguista Allén – non autosospesi – sarebbero gli accademici responsabili di questo inaudito sfacelo, con la loro folle cecità e «arroganza», come ha scritto l’autorevole quotidiano «Svenska Dagbladet». Già, «arroganza». I due avrebbero ignorato i consigli dei legali, oscurando così il buon nome dell’Accademia e della nazione. Lo «Svenska Dagbladet» ha lamentato anche come la decisione di sospendere il Nobel per la Letteratura serva in realtà a dirigere i riflettori più sulla letteratura stessa che non sulle (così minimizzate) molestie subite dalle donne, che accusano Arnault. Questi sembra aver importunato perfino la principessa Victoria; e anche aver alimentato fughe di notizie sui vincitori per loschi interessi. Il fatto è che il rinvio della proclamazione del vincitore del Nobel per la Letteratura al 2019 indica soltanto che un gruppo, quel gruppo, di membri dell’Accademia di Svezia, dove pure è prassi discutere con fervore, continua a tenerla bloccata saldamente con il proprio potere e come centro di potere da gestire. Ricordiamo che la commissione ristretta del premio Nobel per la Letteratura controlla in Svezia anche la distribuzione delle numerose borse per gli scrittori meritevoli che ne facciano richiesta, con inevitabili ricadute sull’editoria e altre attività culturali ed economiche di quel paese.

Il Sole Domenica 6.6.18
Carlo Borghero
Sulle vie della modernità
La storia della filosofia narrata senza rigidità. Con attenzione alle correnti di pensiero che si presentano, scompaiono, ritornano
di Tullio Gregory


Impegnato da decenni in un assiduo lavoro su testi filosofici dell’età moderna, convinto che le dottrine depositate in tali testi siano fatti «non deducibili, ma raccontabili con i metodi delle altre discipline storiche», posto che l’analisi filologica è condizione della loro intelligenza e che non esiste una filosofia perenne con i suoi massimi problemi, Carlo Borghero ha portato contributi fondamentali nel variegato campo di dottrine intese come filosofiche, soprattutto fra Seicento e Settecento, settore privilegiato delle sue ricerche.
Oggi raccoglie, in nuova forma e spesso scrittura, quei saggi che più direttamente incidono sulla metodologia della ricerca storica, delineando anche un articolato panorama critico di un dibattito sulla storia della filosofia che ha avuto soprattutto in Italia grande significato, in relazione all’esemplare lavoro di Eugenio Garin, sia come storico del Rinascimento e dell’età moderna, sia per le proposte metodologiche presentate nella fortunata e discussa raccolta di saggi, riuniti nel 1959 sotto il titolo La filosofia come sapere storico. Dibattito di grande rilievo eppure rimasto chiuso nell’ambito italiano, come sottolinea Borghero, all’interno di barriere linguistiche e insieme di suggestioni nazionalistiche delle diverse culture.
Poiché Borghero è uno storico, sa che anche il discorso metodologico è storicamente incarnato, non si svolge nell’iperuranio delle idee, ma nell’impuro lavoro degli uomini, il suo discorso diviene discussione puntuale di tante cruciali categorie storiografiche, ora utilizzate come utili strumenti classificatori ora elevate a miti, divenendo esse stesse oggetto di storia, acquistando una “vita autonoma”, sicché spesso la storia della filosofia – sottolinea Borghero – diventa storia non legata a testi e ad autori, ma storia di tali categorie.
Di questa pericolosa sostituzione – che tende a distruggere la storia filologicamente costruita per porre al suo posto una costante lotta fra mitici giganti – Borghero discute molti esempi: l’abusata definizione di età classica, di razionalismo cartesiano, di spinozismo, di crisi della coscienza europea, sino alla più recente scoperta di un illuminismo “radicale” di contro a uno “conservatore”, in relazione al fortunato volume di Margaret Candec Jacob, The Radical Enlightenment. Pantheists, Freemasons and Republicans, pubblicato a Londra nel 1981 e tradotto in italiano nel 1983.
Il tema dell’illuminismo radicale è stato di moda per qualche decennio, diffondendo tra l’altro l’equivoco uso di un aggettivo, radicale, per definire non una realtà istituzionale o un’organizzazione politica ma un complesso disorganico di idee variamente considerate come “lumi”. Borghero scrive sul tema considerazioni che si possono considerare come epigrafe commemorativa, pur sottolineando il valore che ha avuto per mettere in crisi altri miti, come quello variamente dilatato della crisi della coscienza europea e per valorizzare determinati ambiti culturali inglesi e olandesi con sottolineati rapporti con la massoneria; ma anche limitando fortemente la natura di quel radicalismo dato che nella proposta della Jacob «l’illuminismo dei radicali assume, almeno in parte, i connotati di una illuminazione sapienziale e segreta per pochi iniziati, piuttosto che quelli delle Lumières che, almeno potenzialmente sono disponibili per tutti, secondo la lezione baconiana e, almeno in questo caso sicuramente, cartesiana». Senza dimenticare la forzatura dei testi, la perdita della pluralità e della eterogeneità, in nome di una «mitologia della coerenza», la scarsa valutazione delle nuove scienze la «retroproiezione» di idee politiche del Novecento. Limiti che fanno perdere notevole valore alla proposta della Jacob, forse persino fuorviante.
Non è possibile seguire i molti altri sentieri lungo i quali ci conduce Carlo Borghero: ma sarà necessario ricordare almeno le precise considerazioni sul rapporto fra cultura cinquecentesca e libertinismo, le indicazioni sulle varie forme di cartesianesimo e la loro diversificata presenza nella cultura europea del Seicento e del Settecento, l’originale riferimento all’opera di Fontenelle – in particolare all’Origine des pables – alla nascita della moderna antropologia, sino all’analisi delle diverse valutazioni dell’Illuminismo nella storiografia (e ideologia) più recente.
Nel complesso si tratta dunque di un fascinoso viaggio sulle vie della modernità, senza schematismi o alberi genealogici ben ridefiniti, con il senso della diversità che è compito dello storico far risaltare. Torna qui a proposito quanto lo stesso Borghero scriveva a margine di un convegno parigino del 2004 che «esprimeva nella felice espressione scelta come titolo (Un secolo di duecento anni) il risultato delle discussioni storiografiche sulla periodizzazione dell’età moderna: un lungo periodo attraversato da una pluralità di correnti intellettuali che si presentano, scompaiono, ritornano. Una successione di continuità e discontinuità, nelle quali è difficile trovare le condizioni di una narrazione unitaria. Ma non c’è da dubitare che una ragione storiografica pigra continuerà a tenere in vita i suoi fantasmi». Contro questi fantasmi e la ricorrente pigrizia può servire come ottimo antidoto il presente volume.
Carlo Borghero, Interpretazioni, categorie, finzioni. Narrare la storia della filosofia, Le lettere, Firenze, pagg. 534, € 38

Il Sole Domenica 5.5.18
Søren Kierkegaard e Regine Olsen
In amore meglio soffrire
Perché il filosofo abbia lasciato la sua nusa è un mistero. Lipotesi più probabile è che gli servisse un dolore da investire nella sua creatività
di Ermanno Bencivenga


Una sera d’estate del 1996 Joakim Garff, autore di un’importante biografia di Kierkegaard, dà una lezione in una cittadina di provincia. Al ricevimento che segue gli viene presentata un’anziana coppia, lui in giacca blu e cravatta a farfalla, lei con una chioma ben sistemata e occhi vivaci. La signora risulta essere la nipote di Cornelia, sorella di Regine Olsen, e rivolge a Garff un’offerta che lo lascia senza fiato. Se vuole, può visionare un centinaio di lettere che Regine mandò a Cornelia durante i cinque anni in cui visse nelle Isole Vergini, allora parte dell’impero coloniale danese. Se vuole?, pensa Garff, che ha appena ricevuto un dono per lui inestimabile.
Søren Kierkegaard incontrò Regine Olsen nel maggio 1837, quando lui aveva 24 anni e lei 15. All’epoca non la notò, ma due anni dopo Regine era divenuta «signora del suo cuore» e l’8 settembre 1840 le propose di sposarsi. Regine era interessata al suo istitutore, Johan Frederik (Fritz) Schlegel, ma Kierkegaard la scosse come un turbine e i due si prepararono per una vita insieme. Finché, il 12 ottobre 1841, lui ruppe il fidanzamento, nonostante le suppliche di lei e le proteste del padre. Il 28 agosto 1843 Regine si fidanzò con Fritz e il 3 novembre 1847 lo sposò. Gli sarebbe rimasta fedele fino alla morte, che arrivò per lui nel 1896 e per lei nel 1904.
Perché Søren abbia lasciato Regine è, a dispetto delle infinite parole da lui dedicate all’episodio nei suoi diari e (indirettamente) nei suoi scritti, un mistero. L’ipotesi più probabile è anche la più squallida: che cioè nei pochi mesi di passione non consumata avesse ottenuto da lei tutto quel che gli serviva, uno stimolo alla sua creatività, e non volesse perderlo nella mediocre routine quotidiana di un’esistenza borghese, in cui, dichiara preoccupato nei Diari, «non avrebbe combinato niente». Meglio mantenerla come sprone inesausto; meglio sublimare l’amore in migliaia di pagine intense e profetiche; meglio sacrificare la vita (altrui) e investire sull’eternità, come molti di quei borghesi che Kierkegaard disprezzava investono i risparmi nel mercato azionario.
Regine vede spesso Søren per strada ma non gli parla più; lui ne scrive ossessivamente. Poi, nel 1855, Fritz viene nominato governatore delle Indie Occidentali Danesi: le tre isole di St. Thomas, St. John e St. Croix (vendute agli Stati Uniti nel 1917 per 25 milioni di dollari). I due sposi partono per un viaggio che li allontana di oltre seimila chilometri da casa. Kierkegaard muore quello stesso anno, non prima di aver inviato una lettera a Fritz chiedendogli un colloquio (rifiutato) con sua moglie. Regine comincia a scrivere a Cornelia, in una corrispondenza che durerà fino al ritorno in patria nel 1860, e comincia il libro di Garff.
Quel che colpisce, in questo libro che per una volta racconta, dal suo punto di vista, la storia di una donna ingannata e abbandonata da uno dei tanti geni più o meno incompresi, è l’ammirevole equilibrio di questa donna: la sua correttezza. Regine non dimentica mai il suo Søren ma ne parla solo in modo obliquo, senza farne il nome. Alla tristezza che è irreparabilmente calata sulla sua vita attribuisce ragioni diverse: la lontananza della sorella, le difficoltà di adattamento al nuovo clima, le incombenze di società legate al suo ruolo istituzionale.
Per il marito manifesta un quieto affetto e una cura premurosa (figli non ne vengono) e anche lui mantiene la sua dignità, pur sapendo di essere destinato al ruolo di riserva del campione assente.La situazione emotiva degli Schlegel viene complicata dal fatto che Kierkegaard, nel suo testamento, lascia tutto a Regine; in particolare, i suoi scritti inediti. Fritz scrive a nome di entrambi i coniugi che la moglie accetterà alcune lettere e piccoli gioielli, respingendo al mittente il resto. Regine rientra così in possesso del suo scambio epistolare con Søren, di cui conserva la parte di lui (la sua la distrugge). Quindi gli Schlegel convissero per decenni con la consapevolezza di queste missive estremamente private, cui si aggiunse, a partire dal 1872, la pubblicazione dei Diari, con Regine indiscussa protagonista.
Non venne meno la dignità; non venne meno il riserbo; Regine accettò di parlare (con discrezione) di Kierkegaard solo dopo la morte del marito. In Timore e tremore, leggiamo di un cavaliere dell’infinito, presuntuoso e irritante, tutto compreso nella sua straordinarietà, e di un cavaliere della fede, pacato e sereno, simile all’apparenza a un qualsiasi postino o bottegaio. Leggendo il libro di Garff non si può fare a meno di pensare a Kierkegaard come al vanesio cavaliere dell’infinito e a Regine come al solido, imperturbabile, insondabile cavaliere della fede.
Joakim Garff,Kierkegaard’s Muse: The Mystery of Regine Olsen , Princeton University Press, Princeton, pagg. XVII+313, $32,95

Il Sole Domenica 6.5.18
Neuroetica
Analizzare e ricostruire l’io
di Adina Roskies


Gli ultimi decenni hanno visto lo sviluppo di molti nuovi modi di intervenire sul cervello. Di recente, scienziati e medici hanno cominciato a modulare direttamente le funzioni cerebrali grazie a stimolazioni elettriche focali. Alcuni nuovi strumenti si mostrano promettenti per il trattamento di malattie farmaco-resistenti. Tecniche come la stimolazione cerebrale profonda (DBS), con cui elettrodi impiantati forniscono una stimolazione elettrica a zone-bersaglio nelle zone profonde del cervello, stanno dando buoni risultati nell’alleviare i sintomi di alcune malattie invalidanti e altrimenti intrattabili, quali il Parkinson o il disturbo ossessivo compulsivo. Come per qualsiasi intervento clinico, le potenzialità della DBS devono essere valutate in base ai rischi e ai costi. Una delle preoccupazione è che le neurotecnologie abbiano un impatto su ciò che possiamo chiamare intuitivamente la nostra agency, o agentività.
Filosofi e scienziati usano spesso il concetto di agentività senza darne una chiara definizione esplicita. I filosofi a volte pensano all’agentività come a qualcosa che un individuo ha o di cui è privo, cioè come un termine binario. Altri studiosi lo considerano una quantità scalare, qualcosa di cui un individuo può essere più o meno provvisto. Io suggerisco che l’agentività sia meglio concettualizzata nei termini di una costellazione di capacità che la piena agency presuppone. Questa visione «capacitaria» dell’agentività è ben coerente con le opinioni predominanti sul libero arbitrio e sulla responsabilità morale e giuridica. In breve, l’idea è che un agente per essere tale deve possedere un insieme di capacità identiche o strettamente correlate alle capacità che rendono possibile l’azione volontaria, l’autocontrollo e la responsabilità morale. L’agentività è quindi sfaccettata; pensarla come una pura grandezza scalare implica una semplificazione che minaccia di ostacolare i nostri migliori sforzi per stabilire quali scelte adottare in situazioni dilemmatiche e per comprendere in modo più ampio le basi teoriche delle nostre deliberazioni.
Propongo pertanto di rappresentare l’agentività in uno spazio multidimensionale di cui dobbiamo ancora determinare gli assi. Con l’avvento di metodi per la raccolta e l’analisi dei big data, come valutazioni online e metodi di apprendimento automatico, potremmo avere anche un nuovo modo di integrare e testare le nostre teorie filosofiche. Un modo, che stiamo perseguendo, consiste nel presentare una lista dettagliata dei possibili aspetti dell’agentività a partire sia dall’intuizione sia dall’osservazione clinica. Ad esempio, i primi candidati quali dimensioni iniziali sono il controllo motorio, l’inibizione degli impulsi, l’attenzione, l’identificazione di sé, e così via.
Presentando domande che analizzano queste diverse dimensioni, possiamo stabilire dove si collocano in questo spazio virtuale le persone sane e le persone con disturbi clinici. Potremmo anche provare a imporre una metrica su quegli assi che tenga conto della variazione su una molteplicità di dimensioni. Se possiamo descrivere un tale spazio e una metrica relativa, potremmo identificare singoli punti che descrivono l’estensione delle capacità agentive di un individuo, ovvero un modo per visualizzare la sua agency. Una prova di questo test è valutare se le persone con diverse condizioni cliniche deviano in modi prevedibili rispetto alla popolazione generale.
Una volta messo a punto uno strumento di valutazione, possiamo usarlo per vedere come cambia il profilo dell’agente quando viene sottoposto a interventi di neurostimolazione. Se, per esempio, il trattamento con DBS è efficace, una persona che riceve la cura su alcune dimensioni avrà valori di agentività superiori ai valori di malati non trattati. Tuttavia, gli effetti collaterali indesiderati (almeno quelli che influiscono sull’agentività) possono spesso provocare una riduzione di valori su altri assi. Confrontare i profili delle persone mentre sono sotto l’effetto della DBS e quando non lo sono fornirebbe un modo oggettivo di valutare non solo il successo dell’intervento terapeutico, ma anche l’impatto degli effetti collaterali.
Sebbene questo tipo di strumento possa essere utile nella pratica clinica per valutare le decisioni circa il trattamento, un’avvertenza rilevante è che le misurazioni oggettive delle proprietà legate all’agency quasi certamente non coincideranno con le dimensioni valutative che dovrebbero governare le decisioni di trattamento. Gran parte della letteratura biomedica sull’autonomia e sull’autenticità richiama infatti l’attenzione sui differenti valori che le persone possono coltivare e sull’importanza della propria auto-comprensione in tema di salute mentale. Una volta delineato uno spazio di agentività, è probabile che si scopra che alcune persone considerano certe dimensioni più importanti di altre. Si pensi al paziente olandese descritto da Albert Leentjens, il quale ha dovuto decidere se vivere il resto dei suoi giorni costretto a letto in una casa di cura a causa della sua impossibilità acquisita di movimento o invece scegliere il ricovero volontario in un’istituzione psichiatrica a causa della mania ingestibile provocata dalla DBS, che nello stesso tempo ha alleviato i suoi problemi motori.
Sfortunatamente, malati e comunità medica dovranno affrontare questo tipo di dilemmi. Il paziente olandese ha valutato la sua autonomia corporea e le sue capacità fisiche legate all’agency come superiori alle capacità razionali e alla libertà (teorica), ma si può facilmente immaginare un altro paziente nella stessa situazione che compie la scelta opposta.
Un elemento del rispetto dell’autonomia dei pazienti concerne la possibilità di mantenere la propria posizione sulle dimensioni che devono avere la prevalenza, o almeno siano particolarmente significative. Pertanto, la metrica oggettiva dell’agentività discussa finora deve essere ponderata in base ai valori, agli impegni e ai desideri del paziente, con lo scopo di contribuire a scegliere una linea d’azione. Questo è un altro spazio multidimensionale, il quale costituisce un riformulazione del primo e riflette non solo le proprietà oggettive dell’agency di individuo sotto un trattamento, ma anche quelle proprietà che sono apprezzate dall’agente.
(traduzione di Silvia Inglese)
Adina Roskies, una delle massime autorità mondiali nel campo della neuroetica e del neurodiritto, riceverà la medaglia della Società Italiana di Neuroetica e terrà la sua lectio magistralis il prossimo 17 maggio nell’ambito del convegno internazionale «Neuroethics: Re-Mapping the Field», in programma dal 16 al 18 presso l’Università Vita&Salute San Raffaele di Milano (www.societadineuroetica.it)

Il Sole Domenica 6.5.17
Giuseppe Vacca
La parabola tracciata da Pci e Dc
Lo storico e politico esamina l’epoca di Togliatti e De Gasperi e quella di Berlinguer e Moro, analizzando rapporti e intrecci
di Mario Ricciardi


Dopo le ultime elezioni il sistema politico italiano sembra avviato a una nuova transizione di cui allo stato attuale è difficile prevedere l’esito. In circostanze del genere si avverte spesso il bisogno di uno sguardo retrospettivo, che ci aiuti a dare un senso agli eventi cui ci troviamo ad assistere risalendo alle loro cause remote. Leggendo le prime pagine del nuovo libro di Giuseppe Vacca si potrebbe pensare che proprio di questo tipo di indagine si tratti. Vacca, infatti, scrive: «ho vissuto con disagio gli ultimi conati dei discendenti del Pci di agitare il mito di Berlinguer come ultima risorsa identitaria e con rammarico il precipitare di una lotta senza principi contro la nuova leadership di Renzi, impegnata a rimettere l’Italia in asse con l’Europa». In realtà questo è l’unico riferimento esplicito all’attualità di un libro che ripercorre le complesse vicende dei rapporti tra comunisti e democristiani a partire dal 1943, quando, con la caduta del Fascismo, i partiti politici escono dalla clandestinità e cominciano a porre le basi su cui fonderanno la repubblica. La narrazione si conclude nel 1978, l’anno del rapimento e poi dell’uccisione di Aldo Moro.
A fare da protagonisti delle vicende del libro non sono quindi Renzi e i suoi avversari odierni, ma alcune tra le principali figure della storia politica del Novecento italiano: Togliatti, De Gasperi, Berlinguer e Moro. La “svolta di Salerno”, il referendum istituzionale, la Costituente, e gli anni della Guerra fredda fanno da sfondo alla storia di due partiti che, nella narrazione di Vacca, sono destinati, nonostante ostacoli e incomprensioni, a incontrarsi. La chiave di lettura è quella della peculiare interpretazione del comunismo elaborata da Togliatti. Che lo porterà, dall’impegno a fianco dell’Unione Sovietica, e del suo leader Stalin, negli anni della lotta antifascista, fino alla critica dello stalinismo e al tentativo di disegnare una «via italiana al socialismo» che mettesse da parte la rivoluzione in favore di un ampliamento graduale del consenso con l’obiettivo finale di edificare una nuova società attraverso il metodo democratico. Nel ricostruire questi eventi, e il complesso rapporto tra Togliatti e De Gasperi, l’autore assume soprattutto il punto di vista del primo. Questo non è sorprendente. Vacca viene dalle fila del Pci, ed è un fine conoscitore della storia e del pensiero del leader comunista. C’è tuttavia un prezzo da pagare per questa scelta. A essere messo a fuoco è soprattutto il punto di vista di Togliatti, mentre quello di De Gasperi emerge piuttosto per contrasto. Le cose cambiano quando sulla scena arrivano Berlinguer e Moro. In questa seconda fase della storia dei rapporti tra «i due grandi partiti popolari» Vacca, che a questo punto è un testimone e non più semplicemente uno storico, assume una prospettiva meno parziale, che mette davvero in risalto gli sforzi genuini di comprendersi e di trovare una qualche forma di collaborazione dei due.
La storia si conclude però con una tragedia, l’uccisione di Moro, che impedisce a Berlinguer di completare il lungo percorso verso il riformismo intrapreso da Togliatti. Tra le pagine più interessanti del libro ci sono, a mio avviso, proprio quelle in cui si ricostruiscono il contesto internazionale e i vincoli di carattere economico che impediranno alla prospettiva del Compromesso Storico di acquistare un senso politico compiuto. Dopo la morte di Moro, e la rapida liquidazione dell’ipotesi di «equilibri più avanzati» per la democrazia del nostro Paese, il Pci sembra non essere più in grado di decifrare i segni della spinta verso la modernità che, nel giro di qualche anno, avrebbe cambiato radicalmente l’intera Europa portando con sé il comunismo stesso.
La ricostruzione di Vacca ha talvolta il difetto di essere esclusivamente descrittiva. Nelle numerose pagine dedicate all’evoluzione delle posizioni di Togliatti, ad esempio, si mette raramente in questione la coerenza di fondo di passaggi che potrebbero essere letti come del tutto strumentali, tentativi di trovare un compromesso accessibile tra l’imperativo dell’obbedienza al dogma di Mosca e l’esigenza del Partito di sopravvivere a un ambiente nuovo, e per molti versi poco familiare, come quello di una nascente democrazia parlamentare. Questo difetto di critica si avverte anche quando affiora il tema della “nazione”. Se da un lato si comprende perfettamente il senso politico che per il Togliatti della seconda metà degli anni Quaranta ha il recupero del discorso risorgimentale, dell’emancipazione nazionale, e dell’incontro tra le istanze di libertà del popolo e quelle della nazione, meno evidente è la coerenza teorica di questa strategia politica. In che senso sia possibile preservare una critica materialista dell’economia politica come quella propugnata da Marx con il recupero – via Croce e Gramsci – della tradizione di pensiero italiano che risale a Machiavelli.
Un altro aspetto del libro di Vacca che offre il fianco alla critica è la quasi assenza dei socialisti, e in particolare del Psi di Craxi dalla ricostruzione. Un difetto significativo perché sarà proprio la rivalità tra il leader socialista, che abbraccia la modernizzazione, e Berlinguer, che invece la osserva con diffidenza, a plasmare gli anni che seguono la morte di Moro. A costo di semplificare brutalmente, si potrebbe dire che alla fine l’incontro tra comunisti e democristiani c’è stato, ma esso non è avvenuto sulla vaga piattaforma di un “compromesso storico” che sfugge agli sforzi di definizione, ma sulla lettura della modernizzazione economica e sociale del Paese che Craxi, dall’osservatorio privilegiato di Milano, aveva riconosciuto. Per questo appaiono riduttive e poco convincenti le critiche che Vacca rivolge alla redistribuzione della ricchezza come obiettivo dei riformisti e all’impegno radicale e socialista in difesa dei diritti civili. Per tornare all’attualità, è sempre sul nodo irrisolto di chi abbia davvero vinto il “duello a sinistra” sul piano dei principi normativi e delle politiche che li attuano che fa perno l’opposizione a Renzi cui allude Vacca.
Queste critiche non cancellano, comunque, il valore di un libro pieno di spunti e di informazioni interessanti. Un contributo importante per chi voglia comprendere le vicende della sinistra italiana negli ultimi settanta anni.
Giuseppe Vacca, L’Italia contesa. Comunisti e democristiani nel lungo dopoguerra (1943-1978) , Marsilio, Venezia, pagg. 320, € 18
In libreria dal 10 maggio

Il Sole Domenica 6.5.18
L’omicidio di Aldo Moro
Così si chiuse un’èra politica
di Michele Ciliberto


Singolare libro, questo di Marco da Milano: intende confrontarsi con uno dei momenti più drammatici della storia repubblicana - il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro - ma lo fa intrecciando tre registri stilistici differenti: l’interpretazione storica; l’autobiografia di una generazione (è nato nel 1968); la memoria familiare.
Forse, è proprio quest’ultima la chiave, e il trait d’union, del libro nel quale si staglia, come centro sentimentale ed etico-politico la figura del padre: legato a Moro, giornalista, è lui che scandisce i momenti principali della vita del figlio.
Lo stile al quale si affida l’autore, è quello della scrittura del sé; ma, e questo è il suo tratto più originale, si snoda attraverso un processo di continua oggettivazione, con riferimenti a personaggi, paesaggi, situazioni, che costituiscono le stazioni di una seria, e a volte dolorosa, ricerca auto-biografica.
Essa si svolge con il ritmo del viaggio in una serie di luoghi che contribuiscono a illuminare l’itinerario dell’autore, ed è in questo modo che sono intrecciate riflessione autobiografica, memoria, giudizio storico. Il filo del tempo e della memoria si spazializza, con una tecnica precisa: se si parla di Sciascia lo scrittore - viaggiatore va a Racalmuto; quando il discorso coinvolge Pasolini, si sposta in Friuli; se in primo piano è Craxi, va fino ad Hammameth. Non è un espediente narrativo, per rendere il racconto più attraente e mosso: è piuttosto un modo per favorire e potenziare quella tendenza alla oggettivazione che è il tratto di un libro che ambisce ad essere, oltre che un saggio, un racconto intrecciando i tempi dell’anima e lo spazio della storia.
Un racconto sulla politica, sul potere: questo è il “problema” che da Milano affronta attraverso lo specchio della vicenda di Moro, seguendolo dall’inizio della carriera fino alla prigionia e alla morte. Il libro è appunto questo: una interrogazione sul potere, sulla sua durezza, e sulla sua violenza, mostrate – in una sorta di via crucis – attraverso il comportamento degli amici e dei colleghi di Moro e di tutti quelli che, con l’eccezione di Craxi, non vollero ascoltare le parole del prigioniero.
E sta proprio qui, per contrasto, la forza di Moro secondo Damilano: nell’essere stato dentro, fino in fondo alla politica, e al tempo stesso sopra di essa. Dentro e fuori, per la consapevolezza che ebbe sempre della sua «grandezza apparente», e dei limiti entro cui, pur vivendola con tutto se stesso, era necessario circoscriverla. L’immagine di Moro in chiesa, inginocchiato a pregare , che si imprime in modo indelebile nella memoria del piccolo Damilano - al quale il padre indica il leader democristiano - è il segno visibile di questo: di una concezione “laica” della politica, acquisita, per quanto possa apparire paradossale, proprio attraverso una esperienza religiosa capace di distinguere tra ciò che è di Dio e ciò che è di Cesare, e perciò lontana da visioni “hobbesiane” del potere: nodo esistenziale e teorico decisivo, questo, venuto alla luce in modo drammatico proprio nei giorni del sequestro di Moro.
Nel libro il dramma di Aldo Moro è la chiave per riconsiderare, alla luce della situazione attuale, gli ultimi cinquanta anni della storia nazionale. Damilano sostiene che il punto di svolta è costituito dagli anni 70: è allora che finiscono la Democrazia cristiana, il Partito Comunista ed anche la politica. Ed è una periodizzazione esatta: è negli anni 70 del secolo scorso che nel nostro Paese si svolge una battaglia campale conclusasi con la sconfitta della sinistra ed anche, in conseguenza della morte di Moro, con la chiusura di un intero ciclo della politica nazionale. È in quegli anni che comincia ad entrare in una crisi da cui non si è più ripresa la struttura politica e costituzionale generata dalla cultura dell’antifascismo e iniziano ad incrinarsi i pilastri della democrazia rappresentativa nel nostro Paese. Allora iniziano a perdere peso le organizzazioni di massa tipiche del XX secolo ed è in quegli anni che comincia la “destrutturazione” del sistema italiano.
Il libro consente quindi di discutere su temi di grande attualità ed è per questo utile. Esso si presenta, e l’autore non lo nasconde, come una forte rivendicazione della figura di Moro e della sua concezione della politica, mostrando la complessità di una personalità a lungo schiacciata sui terribili giorni del sequestro e dell’assassinio, dimenticando, o ignorando, il ruolo straordinario che ha svolto con equilibrio e lungimiranza nella storia del nostro Paese. E da questo punto di vista credo anche che Damilano abbia ragione quando sottolinea che con la morte di Moro finisce la politica - meglio: una concezione della politica, quella che è stata anche di leader come De Gasperi, Nenni e Togliatti – cioè della generazione dell’antifascismo; assai lontana da quella che si è imposta oggi, anche nei rapporti fra potere e giornali.
Assumendo come pernio della narrazione la tragedia di Moro il libro è volutamente di parte e non entra perciò nel merito delle posizioni di coloro che si opposero a qualunque trattativa fra Stato e Brigate rosse. Su di loro, nel libro, c’è un vero e proprio giudizio morale che impedisce di farlo. E si può capire. Sono persuaso anche io che sia stata fatta allora una scelta tragica e che il sangue di Moro sia caduto non solo sulla Dc ma su tutta la vita politica italiana. Uno però che se ne intendeva di storia, Francesco Guicciardini, diceva che: «Avere tutte le cose innanzi agli occhi come coloro che sono stati presenti… è proprio il fine della istoria». Credo che, oggi, sarebbe opportuno scavare, da una diversa distanza, nelle posizioni di coloro che si opposero alla trattativa e capire quale idea dell’Italia essi avessero quando assunsero queste posizioni. Esse furono dettate anche da preoccupazioni autentiche sulla tenuta democratica di un Paese «dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili», allora nel pieno di una vera e propria guerra civile. E penso che andrebbero analizzate anche le posizioni dei dirigenti del Pci, fra i quali ci furono sensibilità e atteggiamenti differenti, coperti dal ponte alzato contro ogni possibilità di trattare.
In una seduta della direzione del Pci – mi raccontò molti anni fa Alessandro Natta – a un dirigente, il quale aveva sostenuto che l’atteggiamento di Moro era incomprensibile e che un militante comunista si sarebbe comportato in maniera differente, Giorgio Amendola replicò che si trattava di una affermazione azzardata perché durante la Resistenza militanti comunisti che apparivano forti si piegarono subito per paura delle torture mentre altri che sembravano debolissimi non si arresero e pagarono con la vita.
È un flash che aiuta a capire, credo, come le cose nella storia e nella vita siano sempre più complicate di quanto si pensi. Individuum est ineffabile, si potrebbe dire con le parole del poeta, e credo che il Presidente della DC le avrebbe condivise.
Marco Damilano, Un atomo di verità.
Aldo Moro e la fine della politica in Italia , Feltrinelli, Milano, pagg. 270, € 18

Il Sole Domenica 6.5.18
Scarpe strette
Camon in cattedra
di Pietrangelo Buttafuoco


Un lettore, su Facebook, chiede a Ferdinando Camon – tra i più importanti autori italiani – perché mai ebbe ad abbandonare la scuola e la risposta è una confessione subito dopo risolta in una sacrosanta invettiva: «Volevo insegnare tutta la vita; sono nato per questo; ho insegnato in tutti i gradi di scuola, dalle medie alle magistrali, ai geometri, ai ragionieri, all’università…». Ecco, l’accusa: «Sono stato sconfitto dalla potenza della corruzione, della mafiosità dello Stato».
Lo scrittore veneto ripercorre in un post la propria trattenuta rabbia. E c’è – nell’essere essenza di letteratura – ben più che carriera: è la vocazione. È quel che Giovanni Pascoli faceva a Matera – insegnare – quello che Leonardo Sciascia ebbe a vivere nei plessi scolastici, ed è educare per tramite di un abicì intriso di umiltà, pazienza e il senso del dovere che deriva dalla cattedra dove il professore, o il «signor Maestro»”, accoglie gli alunni e trova il senso di se stesso: «Sono nato per questo», appunto.
Scrivere è più di vivere. Figurarsi istruire se Camon nel suo prossimo libro edito da Guanda dedica un capitolo a un disastro – l’insegnamento – in cui questa vicenda personale di quarant’anni fa va a specchiarsi nell’andazzo di queste nostre giornate.
Tutto ciò quando sempre più forte è la deriva cui è costretta la scuola, non più appetibile per «la corruzione» e la «mafiosità dello Stato». Una storiaccia di cattedre e concorsi fu quella di Camon. Lui ne fu vittima e oggi non vuole fare nomi: «Il mio interesse non è colpire qualcuno ma denunciare quel sistema». E invece no. Sarebbe magnifico se un ministro, fosse solo per un giorno – simbolicamente – restituisse l’ottantaduenne Camon alla sua cattedra. È nato per questo, lui. E così pure lo Stato: per essere abicì e non sistema.

Corriere 6.5.18
«Farei Sottovoce in eterno e non cambio mai il cellulare La mia vita da abitudinario»
di Roberta Scorranese


Il giornalista: non prendo l’aereo e i soldi non mi interessano
Stazione Centrale di Milano, un pomeriggio di sole. La portiera del taxi si chiude, un’onda di capelli danza sulla camicia a righe bianche e blu e Gigi Marzullo comincia a fare Gigi Marzullo: «Ma lei da quanto tempo vive a Milano? E dove abita? E si trova bene?». Per fortuna il cellulare gli squilla prima della faccenda della vita e dei sogni. Ecco, il cellulare: un Motorola che ha la stessa età della carriera di Marzullo, trent’anni, se consideriamo Mezzanotte e dintorni prima e Sottovoce poi, programma che va in onda su Rai 1 dal 1994.
Gigi, ma perché non usa lo smartphone?
«Per carità. Uso solo vecchi telefonini che servono per telefonare e basta. Ma sa quanti ne ho di questi? Dodici. Una scorta: quando ne comprai uno, capii che non me ne sarei mai separato. Ma sapevo che prima o poi sarebbero scomparsi. Allora feci riserva. Io sono così: mi affeziono e tac, è finita».
Il taxi la prende alla larga. Poco male. Marzullo ama Milano: viene qui una volta alla settimana per partecipare a Che fuori tempo che fa, sta quasi pensando di comprare un appartamento in centro, le ormai famose camicie a righe se le fa fare su misura da una sarta brianzola. Passiamo davanti a san Marco, poi via Manzoni. Il distretto dell’informazione, tra il Corriere della Sera e Il Giorno.
Avellinese, lei ha cominciato con «Il Mattino». Poi Roma e la tv. Nostalgia della scrittura?
«No, sono uno che sta bene solo davanti a una telecamera. E possibilmente senza pubblico in sala. Amo lo schermo. Pensi che a casa ho un televisore in ogni stanza, anche in bagno. Guardo la tv sin dal mattino, poi ogni giorno vado in ufficio, a piedi perché abito vicino a viale Mazzini. La Rai è la mia vita. Ah, e non uso nemmeno carte di credito, se le interessa», aggiunge sfoderando una mazzetta di banconote, tipo il Milione del signor Bonaventura.
Paga il taxi, ci accomodiamo nella hall di un albergo del centro. Marzullo viene qui da anni, dorme sempre nella stessa stanza («Dottore, le portiamo i suoi salatini preferiti, gradisce la solita stufetta?» chiedono dalla reception). E nel corso di questa intervista non farà nulla per dissimulare l’indole di un uomo abitudinario, con fragilità antiche, sì, eppure dotato della tenacia e della perseveranza che solo chi viene dalla provincia può capire.
Che bambino è stato Gigi Marzullo?
«Cicciottello e timidissimo. Ora sono più magro, ma sempre introverso. Mamma e papà, insegnanti, mi hanno cresciuto con severità. Poi gli studi a Pisa e un vecchio sogno: fare l’attore. Volevo iscrivermi al Centro sperimentale di cinematografia, però studiai medicina. Laurea e tirocinio di sei mesi».
Marzullo in ospedale tra i pazienti, in camice bianco?
«Andavo tra le signore con problemi psichici “armato” di un pacchetto di sigarette. Gli altri medici gliele proibivano ma io capivo che quelle donne avevano bisogno di fumare ogni tanto. Oggi penso che sarei stato un medico molto rigoroso ma anche attento ai pazienti, li avrei ascoltati con delicatezza. Una volta Glenn Ford, alla fine di una intervista, mi disse: “ma lei non deve fare questo mestiere, lei deve fare lo psichiatra”. Gli risposi: “ci sono andato vicino”».
Prima dei giornali e della Rai, il terremoto dell’Irpinia. Lei dov’era quel 23 novembre del 1980?
«Ad Avellino, in macchina con amici, per il corso principale. L’automobile cominciò a sussultare e noi pensammo a uno scherzo, a gente che ci stava scuotendo il portabagagli. Poi vidi un fiume di persone in fuga, balconi che crollavano, polvere. Una tragedia. Corsi a casa. Mia madre era già per strada, mio padre stava scendendo. Dormimmo fuori per giorni. Allora decisi di andare a Roma».
Pochi sanno che prima di approdare in tv lei ha fatto tante cose.
«Moltissime. Le radio libere, Tele Avellino, il Corriere dell’Irpinia, il praticantato al Mattino, poi, nonostante fossi giornalista, un contratto da programmista regista a Rai 1, quindi un articolo due (contratto da collaboratore fisso, ndr). Poi mi sono inventato la fascia della notte. Io ci ho messo tanto a raggiungere certe sicurezze. Ecco perché oggi sono così attaccato al mio lavoro. Sono un fanatico della Rai. Ai miei collaboratori indico una chiesetta vicino all’ufficio e li esorto: andiamo a pregare e a ringraziare il Signore perché lavoriamo nell’azienda più bella. E aggiungo: libera».
Ma tra due anni lei andrà in pensione. Come farà?
«Chiederò con insistenza alla Rai di farmi rimanere a lavorare con qualche formula. Non è per soldi, io non spendo quasi nulla. È una questione di identità: il mio lavoro è la mia esistenza. Solo se, alla centunesima mia richiesta, l’azienda non cederà, allora proverò a lavorare altrove. Ma spero di no».
Arriva il cameriere con un vassoio di salatini. Ma non sono i soliti, quindi niente, meglio non mangiare nulla. Marzullo ha una sua quieta, inscalfibile linearità.
Il termine «marzullata» è stato adottato persino dalla Treccani. Indica un concetto così semplice che, a detta dei critici, sfiora la banalità.
«Ma mi scusi, secondo lei chiedere a una persona quante volte si è innamorata è un concetto banale? Io nelle mie domande tocco temi alti, come l’amore, la morte, il dolore, la gioia. Le domande sono molto profonde, poi sta all’intervistato fornire le risposte giuste. Signori, la televisione è questo».
Ma ammetterà che la televisione riduce all’essenziale anche i temi più complessi.
«Mi consenta di dire che è il compito stesso della tv, e specialmente della Rai. Io non posso permettermi di parlare solo a un certo pubblico, devo arrivare a tutti. E sa che anche i giovani mi seguono, mi fermano per strada e mi chiedono le foto? Loro guardano la tv di notte e seguono Cinematografo».
Con quella trasmissione lei si è riallacciato alla sua passione, il cinema.
«Mi sono trovato di fronte ai miei miti. Lea Massari, per dire. O Lisa Gastoni, che mi ha promesso un invito a cena e io sto ancora aspettando. A Laetitia Casta e a Julia Roberts regalai i miei libri. E Woody Allen, quando gli dissi che ammiravo i suoi occhiali, me ne spedì un paio a casa pochi giorni dopo».
Con lei si confidano tutti, o quasi.
«Alain Delon mi raccontò che il suo film più riuscito è stato La prima notte di quiete, regia di Valerio Zurlini. Sa a chi apparteneva il famoso cappotto color cammello che indossava Alain nel film? A Pietro Barilla. L’ho scoperto dopo».
Lei ha detto che i soldi non le interessano. Che cosa le interessa?
«Sfuggire alla morte. Ho una paura pazzesca della morte. Non prendo l’aereo da vent’anni perché ho paura che precipiti. Quando non dormo con la mia compagna fatico a prendere sonno perché penso che potrei non risvegliarmi. Sto male se penso che dovrò morire e perdere tutto quello che mi sono conquistato: una trasmissione, una casa, le mie camicie a righe. Lo so, è poco. Però per me è molto perché ho desiderato tanto tutto questo. Io farei Sottovoce su Rai 1 ancora per tremila anni. Tutte le sere. Continuerei a ripetere le stesse frasi che mi hanno reso famoso per tremila anni».
Finalmente si capisce il senso di espressioni come «La vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere?», reiterate con ferma ostinazione ogni sera: sono un talismano. Una preghiera che lo fa sentire ancora vivo, un giorno in più strappato alla morte.
Anche in amore ha tanta paura?
«Sono stato molto inquieto in passato. Da quasi vent’anni sto con Antonella, lei mi ha reso più stabile. Non posso dire di essere stato o di essere geloso, perché ho un concetto di me molto alto, sarebbe un’affermazione insincera. Però sono un uomo difficile, tanto difficile. Per dire, a casa mia non si cucina mai».
Come sarebbe a dire «non si cucina»?
«Solo forno a microonde, la cucina è chiusa, mai usata, intatta. Anche l’acqua per la pasta la facciamo bollire nel microonde. Perché? Non sopporto gli odori molesti, non sopporto lo sporco. Antonella mi ha capito. E si prende i suoi spazi: lei viaggia, io no, per esempio. Ma ci ritroviamo sempre. Quasi quasi...»
...si sposa?
«Sono felice che lei non mi abbia fatto questa domanda finora».
Però le chiedo qual è stato il giorno più bello della sua vita. Non mi risponderà mica che è stato quando l’hanno assunta in Rai?
«Vede che conosce già la risposta? Preferirebbe una bugia?»
Critiche feroci, specie all’inizio. E adesso?
«Ora in tanti si sono arresi all’evidenza. La tv che faccio resiste da molti anni perché la gente sente il bisogno di riconoscersi in domande come le mie. E poi io mi so comportare bene. Non sono invidioso, né avido. Non amo le barche, né le auto, né le amanti costose. Al massimo faccio una gita a Ischia con gli amici, toh».
E capirai. Ci confessi un vizio, almeno.
«Mangio tanti gelati. No, eh? Va bene, ammetto che mi piacciono le donne, o almeno prima di incontrare Antonella mi piacevano. Mi piacciono le donne composte in apparenza ma trasgressive dentro. In tailleur e filo di perle ma con una carica provocatoria. Non parlo ovviamente di volgarità, parlo di imprevedibilità. Però io non tradisco. Nemmeno gli amici, per non dire della mia azienda».
Sopra tutto, la fedeltà alle cose. Stesso telefonino, stessa camicia a righe...
«Se è per questo anche parte dell’arredamento di casa mia è a righe. Ma non è tutto: ho cento paia di calzini dello stesso tipo, decine di scarpe uguali, pantaloni...».