La Stampa 25.5.18
Storia e memoria
Non basta dire “io c’ero” per ricostruire che cosa è stato il ’68
di Giovanni De Luna
I
protagonisti del ’68 furono tutti giovani o giovanissimi. È logico
quindi che molti siano presenti nel dibattito pubblico che si è acceso
in occasione del 50° anniversario, proponendo una memoria che affida la
propria autorevolezza a due frasi simbolicamente efficaci: «io c’ero» e
«mi ricordo perfettamente». Si tratta di testimonianze che - come è
successo in questi mesi - rischiano di entrare in conflitto con le
ragioni di una ricostruzione storica meno emotiva e più consapevole.
Le
ragioni per diffidare di quei ricordi e di quelle memorie sono molte:
«io c’ero», ad esempio, rischia di produrre testimonianze che spesso
sconfinano in un narcisismo fine a sé stesso, incapace di comunicare
quell’esperienza a chi, appunto, «non c’era»; così come «mi ricordo
perfettamente» può nascondere le giravolte di una memoria selettiva, che
vuole trattenere solo qualcosa e non tutto, che cambia così come
cambiano le fasi che scandiscono le biografie dei protagonisti, man mano
sempre più indulgenti verso i ricordi della propria giovinezza.
“Vele attorcigliate ma distinte”
Pure,
opporre semplicemente le ragioni della storia a quelle della memoria
sarebbe riduttivo, anche perché da quella stagione è affiorata
un’agguerrita generazione di storici così che spesso ci si confronta con
posizioni e tesi interpretative elaborate da chi è contemporaneamente
sia storico sia testimone.
In realtà, come ha scritto Paul
Ricoeur, storia e memoria, «alberi maestri dalle vele attorcigliate ma
distinte», appartengono «alla stessa imbarcazione, destinata a una sola e
unica navigazione» e a una meta comune, «rappresentare il passato e
permetterci di conoscerlo». Il testimone ci propone l’immediatezza delle
sue percezioni, restituendoci lo spirito del suo tempo e svelandoci il
’68 così come è stato vissuto e rielaborato a caldo dai suoi
protagonisti; lo storico arriva dopo, con il senno di poi, sa «come è
andata a finire» ed è in grado, attraverso le fonti e i documenti, di
far emergere quello che allora non era possibile sapere. Alla fine,
però, una storia senza le testimonianze diventa un esercizio astratto,
un racconto del passato esangue, aridamente nozionistico; e una
testimonianza, non inserita in un contesto storiografico, diventa
prigioniera di due stereotipi ampiamente presenti in questo 50°
anniversario: da un lato «anni formidabili», dall’altro una folla di
figli di papà, scansafatiche, pronti a imboccare qualsiasi scorciatoia
pur di far carriera.
La sintesi tra storia e memoria è
particolarmente efficace se si guarda al ’68 come a uno dei classici
eventi globali della nostra contemporaneità, eventi, cioè, con una
spazialità non riconducibile a un singolo luogo o a una specifica
realtà, ma che rimbalzano in simultanea da tutti gli angoli del mondo,
in una cronologia affollata di date. La dimensione geografica del ’68
(dalla Cina agli Usa, da Praga a Berlino, da Parigi all’America del Sud,
da Roma a Berlino) fu così straripante da sottrarsi, proprio per
questo, a ogni interpretazione riduttiva e obbligare chiunque voglia
studiarlo a confrontarsi con un corpus di fonti altrettanto vasto,
eterogeneo, multiforme.
I mezzi di comunicazione di massa, ad
esempio, «costruiscono» il ’68, lo fanno parlare e ci permettono di
conoscerlo più dei tanti documenti politici prodotti allora dal
movimento. La rottura generazionale che allora spaccò le famiglie della
borghesia fu anticipata e descritta dai film di Bertolucci (Prima della
rivoluzione, 1964) e Bellocchio (I pugni in tasca, 1965); il rifiuto
della forma partito tradizionale e l’accento posto sulla dimensione
individuale dell’agire politico si trovano già tutti in Godard (La
chinoise, 1967); il confronto con la violenza della polizia è raccontato
in Fragole e sangue di Stuart Hagmann (1970).
Dalla forza alla fragilità
E
poi. Le fotografie di Tano D’Amico e di Uliano Lucas; le canzoni di
Paolo Pietrangeli; le vignette di Buonfino o di Zamarin; i manifesti che
colorarono i muri di Parigi e di Torino; i grandi concerti, primo fra
tutti quello di Woodstock (agosto 1969): su quel prato si discuteva di
politica, si ballava, si consumavano le prime droghe «di gruppo»,
soprattutto marijuana e Lsd e una comunità giovanile si
autorappresentava come altra e separata rispetto al resto del mondo,
scegliendo una dimensione esistenziale fondata sulla libertà (intesa
come trasgressione) e sull’assenza di regole (come principio normativo).
Ecco,
solo dopo essersi immerso nello spirito di quel tempo, lo storico può
lasciare il testimone al proprio destino emergendo dall’oceano delle
percezioni di allora per proporre una compiuta storicizzazione di
quell’evento. Ed è proprio Woodstock a suggerirne i termini: il ’68 fu
un evento globale; ebbe come protagonista una generazione che visse la
propria giovinezza non come una tappa di passaggio ma come il punto più
alto della propria biografia; una generazione che fece della
disobbedienza il tratto unificante di quell’esperienza e che sul rifiuto
delle regole costruì dapprima la sua forza, poi la sua fragilità.