giovedì 24 maggio 2018

La Stampa 24.5.18
Philip Roth
Il sesso, la vanità i legami sociali
La sua ironia nulla risparmiò
di Elèna Mortara


Era una giornata di cielo terso e sole splendente. Accanto alle finestre aperte sulla vista di Manhattan, abbiamo trascorso quasi tre ore in conversazione intensissima, costellata di ricordi e talvolta di grandi risate. Avviandoci verso la porta di casa, mi aveva indicato i disegni satirici appesi alle pareti accanto all’ingresso, ispirati al suo romanzo Il seno: versione rothiana, grottescamente autoironica, del racconto di Kafka La metamorfosi, ove si racconta del prof. David Kepesh che, ossessionato dal sesso, si trova trasformato in una gigantesca mammella. Con il tono tra il serio e lo scherzoso, aveva osservato, un po’ rivendicativo: «Con questo romanzo, io ho anticipato la cultura transgender!». Sapeva di essere stato un rivoluzionario e di non essere stato sempre capito.
In questo momento di grande dolore per la perdita di Philip Roth, la perdita dello scrittore, la perdita dell’uomo, se ne ricerca la voce nei suoi libri, che rimarranno monumentali a raccontare l’America, a partire dalla condizione di quella enclave ebraica a lui familiare che stava entrando nel mainstream americano negli anni del suo esordio, a raccontare la condizione umana in tutta la sua imperfezione e i suoi conflitti. Ma per chi lo ha conosciuto, è un dovere condividere anche, per quanto possibile, il ricordo della sua voce di uomo.
Racconterò un momento molto particolare del nostro incontro. Stavamo parlando del primo testo ripubblicato nella nuova splendida raccolta di saggi uscita in America nel 2017, Why Write?, che si apre con un suo saggio-racconto del 1973 dedicato a Kafka: un testo di natura ibrida, che inizia in forma saggistica per poi diventare racconto di invenzione, in cui lo scrittore immagina che Kafka, sopravvissuto e arrivato in America da profugo, fosse diventato il suo insegnante alla Hebrew School, il doposcuola ebraico che Roth aveva frequentato da ragazzo nel suo amato quartiere di Newark.
Ricordo che in quel saggio-racconto,Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno, ovvero, guardando Kafka, a un certo punto lei parla di una associazione di famiglia di oltre duecento persone. Questo è qualcosa che viene dalla realtà, dalla sua esperienza reale?
«Ora le mostro una foto. Vede qui? (si alza, invitandomi a seguirlo, e mostra una grande fotografia appesa alla parete, in cui compaiono circa 150 persone elegantemente sedute a tavola lungo le pareti di un salone) Oh, qui c’è mia mamma! E dov’è mio padre? Eccolo! Sono tutte persone della mia famiglia, dalla parte della mia nonna paterna».
È meraviglioso, è incredibile!
«Sì, questo era molto comune in America negli Anni 20 del Novecento. Le famiglie ebraiche ebbero il diritto di andarsene dall’Europa orientale tra il 1880 e il 1900. E la prima generazione lottò, ma i loro figli, che erano saliti un poco sulla scala sociale, erano più borghesi, formavano queste associazioni familiari, che erano molto comuni tra gli ebrei. Erano una sorta di società assistenziali, prestavano denaro per le sepolture o se qualcuno era malato, avevano un fondo di borse di studio per i ragazzi che andavano al college, per quelli che si trovavano a non aver soldi. E poi c’era un grande sentimento familiare tra loro. Da piccolo, adoravo andarci. Penso che quando è stata scattata questa foto ero ormai troppo sofisticato... Questa è stata scattata nel 1949. Avevo sedici anni. Ero troppo vecchio!»
Era l’inizio dell’età della ribellione... Ma dunque, queste persone erano tutte imparentate?
«Erano tutti imparentate dalla parte di mia nonna paterna. In effetti, è la famiglia della madre di mia nonna: un matriarcato. Questa è la mamma di mio padre, e noi solevamo andare a trovarli ogni domenica mattina a Newark, in una sezione povera della città, dove lei viveva e dove è cresciuto mio padre. Con le nonne ho avuto un legame molto forte. Sì, le ho amate entrambe, sì».
Per andare a casa delle sue nonne si doveva attraversare un cimitero. Questo può aver avuto qualche influenza sulle molte scene di cimitero nella sua narrativa?
«Odiavo passare per quel cimitero, mi spaventava. E durante la guerra, quando la benzina era razionata, per cui avevamo soltanto quel tanto di benzina per l’auto alla settimana, e mio padre aveva bisogno della macchina per il lavoro, così la domenica eravamo soliti andare a piedi. Perciò passavamo a piedi oltre il cimitero».
E dunque chissà se questa esperienza ha lasciato un segno, quando più tardi il tema dei cimiteri è ritornato a galla nella sua mente?
«No, non è così. Penso che sia successo quando ho iniziato ad andare così spesso ai funerali, quando ho superato i 65 anni. I miei amici che avevano quindici o venti anni più di me hanno cominciato a morire, ed io ho iniziato ad andare così spesso ai funerali…».
Ci siamo salutati con un abbraccio, sull’uscio del suo appartamento nell’Upper West Side di New York. Nel salutarlo, lui ancora alto e diritto, affettuoso, credevo fosse un arrivederci, e invece era un addio.