giovedì 24 maggio 2018

Corriere 24.5.18
Il nichilista che svelò l’America
Ossessionato dalla caducità della vita umana e dalle sue contraddizioni, per raccontare le sue storie partiva sempre dall’io. E dalla cucina di casa
di Alessandro Piperno


Philip Roth — insieme a un paio di scrittori morti secoli fa — è l’individuo che non conosco con cui ho passato più tempo in tutta la mia vita. Lo frequento da quando arrampicandomi sulla libreria dei miei genitori in salotto, su su fino all’ultimo scaffale zeppo di romanzi proibiti, misi le mani sul Lamento di Portnoy . Allora scoprii che tre anni prima della mia nascita qualcuno aveva saputo parlare del cuore nero dell’adolescenza in un modo che nessuno (neanche il compagno di classe più intraprendente e sboccato) avrebbe potuto eguagliare.
Da allora ho recuperato dapprima i romanzi dei tardi anni Settanta e dei primi anni Ottanta mal editati (almeno in Italia) e così sfortunati, per poi lasciarmi andare sempre più sbigottito alla gigantesca, stupefacente resurrezione che, per dirla con Coetzee, ha sfiorato «vette shakespeariane» tra il ’95 e il ’97, quando Roth diede alle stampe Il teatro di Sabbath e Pastorale americana, ovvero quanto di più toccante e ambizioso uno scrittore abbia prodotto nell’ultimo mezzo secolo.
Ieri mattina mentre si diffondeva la notizia della sua morte — preso dal sentimentalismo corrivo e melenso che ogni tanto ci illanguidisce i cuori e di cui subito ci vergogniamo — ho mandato un messaggio a un amico con cui da lustri condivido l’idolatria rothiana: «Gli avevo a stento perdonato la decisione di non scrivere più, ma questo?». La risposta, non meno retorica in fondo, mi è sembrata un magnifico epitaffio: «Si finisce per scambiare l’immortalità della carta con l’immortalità della carne».
La beffa è che se c’è un romanziere che non ha scommesso sull’eternità, quello è Philip Roth. Anzi, prevedeva che nel corso di un quarto di secolo i lettori di narrativa si sarebbero assottigliati al punto da ridursi al novero di cultori della poesia latina. Mi auguro che avesse torto — se non altro per la salute del mio conto in banca — ma riconosco in tale affermazione tutto il realismo rothiano, inteso come buon senso della realtà.
Roth appartiene ai rari giganti della letteratura — da Montaigne a Joyce — che non se la sono mai raccontata. Che non hanno mai scambiato la propria dedizione all’arte per una cosa seria e indispensabile per il resto dell’umanità. Che hanno lavorato indefessamente, senza mai illudersi che ciò avrebbe potuto cambiare qualcosa. E lo hanno fatto perché non poteva essere altrimenti. «Lavoro tutto il giorno, mattina e pomeriggio, sette giorni su sette. Se mi ci metto per due o tre anni, alla fine ho un libro». Semplice, no? Sì, se hai la carica sexy di Philip Roth, il suo carisma morale, la sua sfrontatezza artistica. Del resto, è difficile spiegare a chi non lo capisce quanto persuasivi, vitali, euforizzanti siano gli inconfondibili giri di frase rothiani, l’eloquenza, la sintassi teatrale, gli avverbi ossessivi e tonitruanti. E i punti interrogativi? Chi altro ha saputo dare un simile lustro alle forme interlocutorie?
Il fatto è che Roth è attratto dalle contraddizioni, e da tutto ciò che è storto e non funziona, è animato dal sospetto che nella vita i conti tornino raramente. In tal senso è un autentico moralista. In uno dei passi più celebri di Pastorale americana scrive: «Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi; sbagliando».
Era dai tempi di Port Royal che uno scrittore non parlava in modo tanto franco e ossessivo dell’ineluttabilità della morte e della caducità della vita umana. E ciononostante la narrativa di Roth, con tutte le sue divagazioni cimiteriali, i suoi affreschi plumbei, le patologie invalidanti, è gioiosa, come sanno essere gioiose solo le cose belle e le cose vere. Lo so, forse, date le circostanze, sarebbe più saggio e didascalico soffermarsi sull’America, sul sesso, sulla misoginia (che d’altronde io non ho mai riscontrato), sull’onanismo, sull’assimilazione ebraica, sui conflitti etnici, sull’epica e sull’ambizione, insomma sui temi à la page che impreziosiscono la narrativa rothiana; ma si dà il caso che, almeno per me, il cuore dell’opera di Roth sia racchiuso nel titolo di uno dei suoi libri meno belli: My Life as a Man, la mia vita di uomo. E Dio ha voluto che la sua vita combaciasse con la letteratura, in un matrimonio talmente difficile che a un certo punto Roth ha chiesto il divorzio, appendendo la penna al chiodo. «Anche l’arte è vita» si accalorava con un’intervistatrice di un noto settimanale francese. «Capisce? Isolamento è vita, meditazione è vita, fingere è vita, fare congetture è vita, contemplare è vita, la lingua è vita».
Ciò che molti detrattori hanno confuso per egotismo altro non è che la constatazione che la sola maniera per scrivere qualcosa di decente è partire da sé, tornare ossessivamente a se stessi, a costo di essere equivocati o vilipesi. Gli alter ego rothiani — Alex Portnoy, Nathan Zuckerman, David Kepesh e Philip Roth stesso con tanto di sosia annessi — non svolgono la stessa funzione degli pseudonimi in Stendhal o degli eteronimi di Pessoa. Roth non li inventa per nascondersi o per reinventarsi. Lo fa per essere ancora più schietto e spietato. Nell’intervista alla «Paris Review» del 1984 Hermione Lee gli chiede: «Quando scrive in testa ha un lettore in particolare?». La risposta è tanto spiritosa quanto emblematica: «No. A volte mi capita di avere in testa un lettore anti-Roth. E penso, come odierà questa cosa. Il che può rivelarsi proprio la spinta di cui ho bisogno». Non è facile resistere alla tentazione di compiacere il lettore, ma provocarlo deliberatamente è un esercizio ancor più complicato. E tuttavia riuscire a metterlo con le spalle al muro, alle corde, di fronte al suo perbenismo e al suo puritanesimo, può dare gioie impagabili. Ecco un’altra lezione da tenersi stretti.
C’è una cosa piccola di Philip Roth che mi ha sempre sorpreso e intenerito. Se date un’occhiata ai suoi ultimi libri in hardcover — le edizioni americane naturalmente — troverete la sua biografia zeppa di onorificenze che neanche un ambasciatore o un generale pluridecorato. Premi su premi, e tra i più internazionalmente prestigiosi. Ripeto: la cosa mi ha sempre sorpreso e intenerito. Mi dicevo: che te ne fai di questa roba? Sei Philip Roth. Sei tu che dai lustro a quelle bigie istituzioni, non viceversa. Del resto, ho sentito dire che il Nobel mancato fosse un serio problema per lui. Anche questo mi sembra incredibile. Il Nobel? A che ti serve il Nobel? Non ti basta esserti inventato Mickey Sabbath, Drenka Balich e il loro funambolico amore adulterino?
Eppure, pensandoci bene, anche questo esprime al meglio la contraddittorietà di Philip Roth. Immagino che quei riconoscimenti avrebbero riempito di orgoglio i suoi genitori, soprattutto il padre per cui Philip aveva un’autentica venerazione. Roth passa per il grande distruttore delle famiglie, l’accusatore indefesso dell’istituzione patriarcale. È lui ad aver detto: «Quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita». È così che stanno davvero le cose? C’è uno scrittore che, nel suo sostanziale ateismo, materialismo, nichilismo, abbia coltivato un culto per gli avi, per i penati, in poche parole per la genealogia familiare più di Philip Roth? A me pare proprio di no.
A un tratto, ne La controvita, durante un litigio tra i fratelli Zuckerman, Henry chiede con sarcasmo a Nathan: «Dimmi una cosa, è mai possibile, almeno fuori dai tuoi libri, che tu abbia un quadro di riferimento un po’ più vasto del tavolo della nostra cucina di Newark?»; Nathan gli risponde: «Il caso vuole che il tavolo di quella cucina di Newark sia la fonte di tutti i miei ricordi ebraici».
Ora che la sua vita è finita, che la sua opera è chiusa per sempre, è facile notare come Roth abbia impiegato metà dei suoi libri a fuggire da quella cucina, e l’altra metà provando a rientrarci. È così che funziona, no? Da ragazzo non pensi che a scappare di casa, da adulto metti in atto i propositi libertari, da vecchio faresti di tutto per tornare all’ovile. Troppo tardi: ogni cosa che ti faceva palpitare e infuriare è venuta meno e ciò che resta parla una lingua aliena.