giovedì 24 maggio 2018

La Stampa 24.5.18
Tra sarcasmi e manie rappresentò l’identità ebraica di oggi
di Elena Loewenthal


«Scommetto che hai scritto tante di quelle metamorfosi di te stesso da non sapere più chi sei e chi sei stato» dice al suo creatore Nathan Zuckerman, il personaggio più famoso nonché ricorrente alter ego di Philip Roth. E prosegue, parlando da dentro quello che è, sempre secondo lui, il libro di Roth che ha per protagonista «il meno riuscito dei tuoi personaggi» (cioè l’autore in carne ed ossa). Si tratta de I fatti. Autobiografia di un romanziere, uscito nel 1988: l’unico libro in cui Roth parla esplicitamente in prima persona, ma lo fa subendo le angherie verbali del petulante e implacabile Nathan Zuckerman, presente qui come in tanti suoi romanzi.
Se infatti non c’è nessuno dei libri di Roth in cui l’autore non faccia capolino con le sue verità, le sue angosce e i suoi desideri più o meno inconsci, non è del tutto sbagliato ciò che Zuckerman gli rinfaccia in quelle pagine magnificamente avvitate su se stesse, in cui lo scrittore parla di sé in un continuo alterco con un suo personaggio, il quale a sua volta non gli perdona proprio nulla, a cominciare dal fatto di averlo creato. Proprio in questa autobiografia in cui i ruoli si invertono, Roth diventa il personaggio e Zuckerman una specie di demiurgo - «sei un testo ambulante», gli rinfaccia ancora - si scioglie quello che è il cuore della sua narrativa: l’ossessione ebraica. Roth non ci stava a farsi collocare dentro la «letteratura ebraica» - definizione piuttosto ambigua -, e tuttavia nessuno meglio di lui e dei suoi vari alter ego - a cominciare da Nathan Zuckerman - ha raccontato l’anima ebraica contemporanea, i confini di questa identità che sono per un verso nettissimi e per l’altro inafferrabili, pieni di cose che è quasi impossibile esprimere a meno di non mettere in conto dolore e rimpianti, troppa memoria, speranze sfumate ma anche un ottimismo latente che è fatto soprattutto di amore per la vita. «Non credo di essermi sentito fuori posto solo per il fatto di essere ebreo» racconta ancora Roth. Sta parlando degli anni dell’Università, nell’immediato dopoguerra. Poi nel 1959 pubblica sul New Yorker un racconto che desta il suo primo polverone ebraico: oggi lo si definirebbe poco politicamente corretto. Tre anni dopo, durante una tavola rotonda alla Yeshiva University di New York viene accusato di fomentare l’antisemitismo. «Non scriverò mai più sugli ebrei», racconta nella autobiografia, ma qualche riga dopo aggiunge: «quello fu il vero inizio della mia schiavitù... lo scontro alla Yeshiva, anziché indurmi a non trattare più temi ebraici in narrativa, dimostrava come non mai quanto fosse forte quella rabbia aggressiva che rendeva la questione dell’autodefinizione dell’ebreo e della fedeltà alla causa ebraica così incandescente» insomma, non poteva più fare a meno di scrivere di ebrei.
Ed è stato proprio così, da allora: raccontando se stesso attraverso i suoi romanzi, Roth ha saputo esprimere meglio di chiunque altro l’inestricabile matassa di fede e dubbi, sicurezza e fragilità, angosce e speranze che compone l’identità ebraica di oggi, e forse di sempre.