La Stampa 14.5.18
Wenders si fa dirigere da Papa Francesco il grande comunicatore
di Alberto Mattioli
Il
discorso più divertente è quello a un congresso della famiglia a
Filadelfia dove, da quel consumato entertainer che è, spara battute a
raffica sulle suocere e sui piatti che talvolta in casa volano. Che Papa
Francesco fosse un grande comunicatore, lo si sapeva da quel
«Buonasera» con cui attaccò il suo primo discorso urbi et orbi.
L’ennesima
conferma arriva ora dal documentario di Wim Wenders, Pope Francis - A
Man of his Word, cioè «Papa Francesco, un uomo di parola», presentato
ieri in seduta speciale alla presenza dell’autore (precisiamo: Wenders,
non Bergoglio) e preceduto da molte buone parole del direttore del
Festival Thierry Frémaux: dato il soggetto, si direbbe una benedizione.
Destinato
a un pubblico internazionale - uscirà nelle sale americane il 18 -, il
documentario di Wenders alterna alle immagini dei viaggi papali quelle
di quattro conversazioni nel suo studio o nei Giardini Vaticani. Qui
vediamo il Papa in primo piano, che parla in spagnolo dritto in camera,
sempre più sciolto man mano che il film procede. Ci sono anche,
piuttosto strani, alcuni inserti dove il Francesco d’Assisi di Giotto
prende vita in bianco e nero, interpretato da Ignazio Oliva. Dato che
non parla e che le pose sono alquanto retoriche, l’effetto è quello di
un muto d’inizio Novecento.
Per il resto, Wenders aveva dichiarato
di voler fare «non un film “sul” Papa, ma un film “con” il Papa».
Obiettivo raggiunto, anzi superato. Il suo sembra semmai un film “del”
Papa, perché il vero autore, per parole e gesti, è proprio Bergoglio. È
chiaro che il rischio del santino è dietro l’angolo, e del resto non si
può chiedere a un documentario sul Papa realizzato in collaborazione con
il Vaticano di dare conto anche degli aspetti controversi del
Pontificato, come le resistenze della gerarchia, per esempio. In altri
termini: il regista è chiaramente innamorato del suo «attore», e più che
dirigerlo sembra farsene dirigere.
Cambiati beninteso i tempi,
senza flabelli e sedie gestatorie, quanto ad agiografia non siamo troppo
lontani dal Pastor Angelicus, starring Pio XII (1942, con Ennio Flaiano
aiuto regista). Dunque, campo libero a Francesco, ripreso nei suoi
innumerevoli viaggi (vale sempre la vecchia battuta coniata per Wojtyla:
Dio è in ogni luogo, il Papa c’è già stato), nei suoi bagni di folla,
nelle visite agli ospedali e alle carceri, in Brasile, a Scampia, in
Bolivia, a Roma, all’Onu, allo Yad Vashem di Gerusalemme, in America, in
Africa, a casa di Dio (appunto). Bergoglio parla, poco di Dio,
moltissimo dei problemi del mondo, sui temi che gli sono cari: la
povertà, soprattutto (frase simbolo di tutto il film: «La povertà oggi è
un grido»), i migranti, l’ecologia, le diseguaglianze, la necessità di
una «rivoluzione» cristiana.
Anche, e gli va riconosciuto, di
argomenti urticanti come la pedofilia. C’è la sequenza in cui,
sull’aereo che lo portava da qualche parte, Francesco dice la famosa
frase sui gay, «Chi sono io per giudicare?». E c’è il momento in cui
cerca di dare una risposta alla domanda delle domande, per chi crede e
chi no, «perché ci sono dei bambini che soffrono?».
Insomma, un
ritratto a tutto tondo di un personaggio che non lascia indifferenti.
Piacerà moltissimo ai cattolici, specie a quelli cui Francesco già
piace. A chi non crede, «Pope Francis» fa l’effetto di uno che ci crede
davvero, ed è già qualcosa. E, al di là di ogni differenza di idee e di
fedi, si resta sempre colpiti e un po’ commossi da quanto quell’uomo
vestito di bianco incarni una speranza per infinite moltitudini di suoi
simili.