La Stampa 14.5.18
Le mani dei cinesi sulla Groenlandia
Sotto il ghiaccio una miniera di ricchezza
di Noa Agnete Metz
Da
200 anni il continente ghiacciato fa parte del regno danese, ma ormai
c’è soltanto un partito inuit che non è a favore dell’indipendenza. Il
problema è che, il giorno dopo, mancherebbero metà delle entrate di
bilancio che attualmente arrivano sotto forma di sussidi danesi. «Ma il
corso è questo, solo che si sta andando al rallentatore», dice l’esperto
Rasmus Leander Nielsen e il surriscaldamento del pianeta potrebbe dare
una grande mano alle ambizioni inuit.
La calotta glaciale si sta
sciogliendo e, meno ghiaccio c’è, più facile sarà arrivare al ricco
sottosuolo e rendere operativo il cosiddetto passaggio a Nord-Ovest, che
durante l’estate è già navigabile. Questa rotta, che sbocca in acque
groenlandesi, permette di tagliare significativamente i tempi di
trasporto di merci cinesi verso la costa orientale degli Usa, con il
passaggio via Artico anziché per il canale di Panama. La rotta ha
attualmente bisogno di logistica, a cominciare da porti di rifornimento e
rompighiaccio. Un progetto che non si è finora concretizzato a causa
del basso prezzo del greggio: risparmio di tempo e petrolio erano
irrilevanti, visti i costi notevoli per rendere il passaggio pienamente
operativo. Il transito a Nord-Ovest sta diventando però sempre più una
priorità della Cina, che non ha un proprio accesso all’Artico e, per
questo, sta mettendo piede nella società groenlandese.
La politica artica
In
un continente dove l’esercito danese perlustra le coste con slitte
trainate da cani per una quasi totale assenza d’infrastrutture, c’è
bisogno di grandi investimenti per farne un hub commerciale. Anche per
questo motivo, rimangono in stallo diversi progetti minerari, nonostante
un sottosuolo che abbonda di risorse. Solo la Norvegia, che negli Anni
30 cercò di reclamare un pezzo della costa Est, grazie al suo ricco
fondo sovrano ha potuto mettere in piedi una miniera di rubini.
La
Cina ha una politica artica ben definita. Promuove una multinazionale
australiana per estrarre le cosiddette terre rare, essenziali per la
nostra vita high tech, e su cui attualmente ha un monopolio di fatto.
Durante le elezioni groenlandesi, in aprile, si è parlato molto di un
appalto vinto dalla Cina per la costruzione di tre aeroporti.
L’investimento
ha fatto scattare l’allarme presso il governo sovrano a Copenaghen, che
lo vede come un tentativo di sovversione da parte di chi può
permettersi di fare investimenti di lungo termine e aspettare che la
presenza economica diventi influenza politica.
Le basi militari
La
Danimarca custodisce gelosamente il continente sotto zero anche per i
vantaggi che ne trae nella relazione con gli Usa, che da decenni fanno
uso dello spazio aereo e territoriale della Groenlandia come un
avamposto verso la Russia e l’Oriente. Sulla base militare di Thule, a
1200 km a Nord del Circolo polare, si trova un centro dati e comando di
satelliti di sorveglianza e un sistema di allarme per i missili
balistici, operato dai militari americani, in grado di monitorare la
curvatura della pianeta ed eventuali missili in arrivo dall’Est. Frutto
di accordi con Copenaghen, fatti sopra le teste della popolazione
locale, e che hanno già avuto conseguenze pesanti. Come quando nel 1968,
in piena Guerra fredda, si schiantò sul ghiaccio un bombardiere
americano. Uno dei piloti morì, l’esplosivo convenzionale detonò, mentre
materiale radioattivo si disperse. Furono mandati lavoratori inuit,
ignari dei rischi, a ripulire e ripescare bombe d’idrogeno. Si dice che
molti in seguito si ammalarono di cancro, sebbene indagini delle
autorità danesi abbiano concluso che non c’è correlazione. I
groenlandesi non tollerano l’atteggiamento danese da padrone e il leader
del governo locale, Kim Kielsen, rivendica il diritto a cercare gli
investitori dove è più vantaggioso. Se non tutti in Groenlandia sono
d’accordo è perché la costruzione di aeroporti, e successivamente di
miniere, ha dei rischi ambientali e richiede un piccolo esercito di
operai, probabilmente cinesi e tutti maschi, che cambierebbe
radicalmente il tessuto sociale. In una società di poco più di 53 mila
abitanti sparsi su un territorio immenso, con emergenze sociali simili a
quelle degli indiani in Nord America, un’immigrazione così omogenea, e
numerosa, lascerebbe il segno. Ma, senza investimenti dall’estero, il
sogno dell’indipendenza non è economicamente sostenibile.
In
Danimarca lo scenario di un wild west sotto zero gradi non piace. Un
rapporto dei servizi militari danesi, pubblicato nel dicembre 2017,
indica la strategia cinese accanto a minacce come il terrorismo islamico
e attività russe per influenzare la vita politica. Quando, durante la
campagna elettorale in Groenlandia, è emerso che la leader
dell’opposizione danese, Mette Frederiksen, si era detta «comprensiva»
per una futura indipendenza, si è scatenata una bufera mediatica.
Perché, nei fatti, l’atteggiamento danese è tutt’altro: lo sceriffo
della Groenlandia è uno, e per contrastare le multinazionali ci si
prepara al duello in stile mezzogiorno di fuoco.