La Stampa 12.5.18
A colloquio con il grande scrittore americano Philip Roth
“Sua maestà Kafka il mio insegnante di ossessioni nascoste”
intervista di Elena Mortara
Sole
splendente, cielo azzurro terso e vento sferzante: cammino per le
strade dell’Upper West Side di Manhattan verso l’appuntamento con Philip
Roth. A pochi mesi dall’uscita del primo Meridiano Mondadori dedicato
alla sua opera da me curato, sto per incontrarlo nel suo appartamento.
Entrando, sono inondata dalla luce dell’ampio luminosissimo soggiorno,
con finestre-balcone estese per gran parte della parete di fronte,
aperte allo spettacolo della città. Roth indossa una camicia color carta
da zucchero e pantaloni di lana marrone chiara. Accanto a noi, in
questo ambiente splendente di luce, un tavolino su cui sono appoggiati
molti libri. Senza molti preamboli, la conversazione inizia spaziando
dai ricordi famigliari all’Italia conosciuta da giovane, dagli incontri
con altri scrittori alle riflessioni sui suoi libri, con scoperte
talvolta sorprendenti. È un Roth accogliente e in gran forma. «Sono
felice», ammette con tutta semplicità, quando gli chiedo come si senta,
ora che ha appena pubblicato in America una sua nuova splendida raccolta
di saggi (Why Write?, 2017) e sono da poco usciti, in contemporanea, in
Italia e in Francia, i primi volumi dedicati al complesso della sua
opera narrativa da parte delle due più prestigiose collane letterarie di
questi due Paesi, i Meridiani Mondadori e La Pléiade di Gallimard.
Perché
nella raccolta di saggi ha deciso di collocare il suo testo del 1973,
«“Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno”, ovvero, guardando
Kafka», come primo pezzo della raccolta?
«Innanzitutto, è un testo
che mi piace così tanto. È come se mi fosse arrivato in dono. Insegnavo
all’Università della Pennsylvania all’inizio degli Anni 70, tenevo un
corso su Kafka, e avevo una classe meravigliosa, con studenti così
brillanti. Dunque stavo per scrivere questo testo biografico su Kafka
per la classe. E poi, mentre lo scrivevo, mi è venuta questa idea di
immaginare che Kafka, rifugiatosi in America, fosse divenuto il mio
insegnante di scuola ebraica. Perché io andavo alla Hebrew School dopo
la scuola. La odiavo, ma sono contento di averlo fatto. Gli insegnanti,
alcuni di loro, erano dei profughi. È lì che mi è venuta l’idea, perché
avevamo questi profughi, queste povere persone tormentate. Tutti noi
ragazzi ebrei eravamo perfetti nella scuola normale e dei birichini alla
Hebrew School».
Come lei dice nella prefazione al volume, quel
primo testo è un misto tra saggio e racconto, una «hybrid essay-story». È
anche un modo per iniziare la sua raccolta di saggi ricordandoci che è
uno scrittore di fiction, sottolineando la qualità ibrida di questo
testo?
«Sì, e il libro finisce anche in questo modo. L’ultimo pezzo termina con quel lungo brano tratto da I
l teatro di Sabbath».
Così ha creato una cornice. E al contempo sottolinea l’importanza che Kafka ha avuto per lei. È così?
«Beh,
io avevo soltanto studiato e letto Kafka intorno ai vent’anni, ma non
sapevo cosa fosse veramente. Poi, sui trent’anni, ho iniziato a leggerlo
di nuovo, e l’ho capito, ne ho sentito realmente la forza e la
maestosità. Così ho iniziato a insegnare Kafka, e mi sono avvicinato
così tanto alla sua scrittura. E poi sono andato a Praga, la prima volta
proprio come una sorta di pellegrino. In seguito ho incontrato gli
scrittori. Il mio libro Un professore di desiderio ha una bella scena,
in cui uno viene presentato alla prostituta di Kafka, se la ricorda? È
una scena molto carina. La donna dice, cito a memoria: “Non mi hai mai
picchiato. Perché i ragazzi ebrei non mi picchiano mai?”».
Come scrittore, in che modo Kafka l’ha influenzata o colpita?
«L’ossessività,
lo scavare in ogni aspetto di una situazione, continuamente rivoltando
una situazione. Anche la commedia. E poi la drammatizzazione
dell’estrema frustrazione, dell’estremo intrappolamento. Tutto ciò mi ha
“parlato”. Non scrivo come Kafka, ovviamente... E la mente che si
intravede, la mente dietro tutto ciò. È interessante, la sua mente è
nascosta, è nascosta, ma è lì».
Ho notato che la sua prima dedica
in «Goodbye, Columbus» è rivolta a sua madre e suo padre. Nella sua
introduzione al suo ultimo libro di saggi, lei sottolinea la frase di
Edna O’Brien, «Le influenze determinanti su di lui sono i suoi
genitori».
«Sa, i miei genitori sono stati molto importanti per
me, perché erano così buoni, e hanno cresciuto mio fratello e me con
tanto affetto. Ma anche la comunità in cui sono cresciuto, quel grosso
quartiere ebraico, è stato per me come un genitore di più ampie
dimensioni. Poiché erano tutti ebrei, c’erano alcune famiglie non
ebraiche, ma non molte. E davvero noi ci sentivamo così al sicuro.
Durante la guerra, l’America non era in pericolo, ma avevamo assorbito
la guerra, e il quartiere era così sicuro. E sapevamo anche
dell’antisemitismo, perché negli Anni 20 e 30 gli Stati Uniti erano un
Paese molto antisemita. E poi ovviamente sapevamo di Hitler; quindi
sapevamo che c’erano posti dove eravamo disprezzati. Eppure in questo
posto noi eravamo amati, c’era una sorta di amore comunitario. Dunque
era un posto molto speciale, un posto molto speciale».
Ho
l’impressione che per lei sia stata molto importante la Jewishness,
l’ebraicità, non il Judaism, non l’ebraismo come sistema di pensiero,
come religione, ma l’ebraicità, l’esperienza di essere ebreo.
«Sì,
potremmo dire l’ebraismo etnico. Certo, perché sono sempre stato
consapevole di me stesso come ebreo, anche se non sono mai stato un
ebreo osservante. Ho fatto il bar-mitzvah, quella è stata l’ultima volta
che sono andato in una sinagoga. La difficile condizione storica degli
ebrei mi divenne chiara molto presto. Quindi ne sono stato sempre
consapevole. Per quanto riguarda la scelta dei miei personaggi nei miei
libri, ho scritto su di loro perché li conoscevo. Ero interessato agli
ebrei, ero interessato a queste persone che conoscevo, erano ebrei. E
dopo il mio primo libro, dopo Goodbye, Columbus, a parte Lamento di
Portnoy, l’intera importanza dell’ebraicità diminuisce. Non è da nessuna
parte nella mia trilogia, in Pastorale americana. Certo, lui è ebreo,
ma...»
Ci sono altri libri in cui il tema è estremamente
importante. Come in «La controvita», in «Il complotto contro l’America»,
in «Operazione Shylock»…
«Non riesco a uscirne!»
Che mi può
dire del grande cambiamento da lei apportato a partire dal 2000 nel
modo di elencare i titoli dei suoi libri, nella pagina situata accanto
al frontespizio nelle edizioni americane, quando ha cominciato a
raggrupparli per gruppi di romanzi e non più in semplice ordine
cronologico? Quando e perché ha iniziato a pensare che quello era un
nuovo modo di presentare le sue opere?
«Penso di aver voluto
attirare l’attenzione dei lettori sul fatto che alcuni di questi libri
sono collegati, non sono semplicemente una lunga lista di libri. E
infatti la gente ha cominciato a vedere Zuckerman come un personaggio
perché avevo collocato insieme tutti quei libri, e così è stato anche
per Kapesh come personaggio. E poi c’erano i “Roth books”, i libri con
il personaggio di Roth. Quindi mi è sembrata una buona idea, e penso che
in effetti sia stata efficace, ha portato la gente a focalizzare
l’attenzione, per quanto si possa indurla a farlo».
Il primo
volume dei Meridiani Mondadori include otto dei suoi romanzi scritti tra
il 1959 e il 1986 fino a «La controvita». Personalmente trovo questo
romanzo estremamente importante da tutti i punti di vista: per il
dibattito, per la struttura…
«È un buon libro. Qualcosa è mutato, i
miei lavori sono cambiati con questo romanzo. Questo è il tipo di perno
su cui si cambia, perché qui ho avuto l’idea della complessità e
dell’amplificazione. Nei miei primi romanzi, ad eccezione di Lasciar
andare che era una creazione giovanile, io condensavo molto. E poi con
La controvita mi sono aperto e ho permesso l’ingresso della complessità.
E questo ha cambiato tutto ciò che è venuto dopo, fino all’ultimo. Gli
ultimi quattro libri sono ridiventati piuttosto semplici».
Con «La
controvita» lei ha esplorato la possibilità di creare delle storie
alternative, mostrando come la realtà può prendere delle direzioni
diverse.
«Come di fatto avviene!»
Sì, come avviene! Anche a seconda delle nostre scelte, ma…
«…ma qualche volta no!»