sabato 12 maggio 2018

Il Fatto 12.5.18
Br, così Moro “chiamò” per trattare la liberazione lo 007 del patto con l’Olp
di Miguel Gotor


La drammatica evoluzione del sequestro Moro fu condizionata da un secondo aspetto di politica estera segreta, quello che riguardò i rapporti con i palestinesi. Accanto al nodo della sicurezza atlantica concernente le rivelazioni intorno a Gladio, infatti, Moro in alcune sue lettere fece riferimento a degli accordi di intelligence, il cosiddetto “lodo Giovannone”, stipulato nell’ottobre 1973 con i palestinesi, nei giorni in cui infuriava la Guerra del Kippur tra Israele ed Egitto. Si trattava di un’intesa che il governo italiano, allora guidato da Mariano Rumor, mentre Aldo Moro era ministro degli Esteri e Paolo Emilio Taviani degli Interni (tra le carte del suo archivio personale sono stati ritrovati documenti relativi alla questione risalenti già al dicembre 1972), strinse grazie all’azione del colonnello Stefano Giovannone, che da circa un anno occupava l’incarico di capocentro dei Servizi segreti militari italiani a Beirut. Il lodo prevedeva di salvaguardare l’Italia da attentati della guerriglia palestinese e di evitare che il nostro territorio, in quegli anni già dilaniato dallo stragismo neofascista con regolare puntualità, si trasformasse in un campo di battaglia del conflitto tra arabi e israeliani, portato avanti dai rispettivi servizi di intelligence.
In cambio di questa tutela, volta a garantire il più possibile la sicurezza quotidiana e l’incolumità dei cittadini italiani sul loro territorio nazionale, il nostro Paese si impegnava, per cause di forza maggiore inerenti la ragione di Stato, ma in dispregio del dettato costituzionale che prevede l’obbligatorietà dell’azione penale, ad assicurare alla controparte mediorientale due condizioni: anzitutto a concedere dei salvacondotti giudiziari ai guerriglieri palestinesi catturati sul suolo nazionale dalle forze dell’ordine nell’atto di compiere attentati verso obiettivi italiani o stranieri (in particolare israeliani e statunitensi); in secondo luogo, a “chiudere un occhio” sul continuo traffico d’armi che dal Nord dell’Europa, utilizzando l’Italia come una passerella, i palestinesi utilizzavano per combattere gli israeliani in Medioriente.
Naturalmente si trattava di accordi segreti, a conoscenza di selezionati vertici militari e politici, i quali ritennero pro bono patriae che corrispondesse al supremo interesse nazionale stipularli. Oggi sappiamo che il ministro degli Esteri Aldo Moro svolse un ruolo nella definizione di questo lodo, la cui titolarità, a livello pubblicistico, gli fu maliziosamente attribuita da Cossiga. Ad esempio, l’ambasciatore Luigi Cottafavi ha testimoniato che i giuristi Leopoldo Elia, Renato Dell’Andro e Giuseppe Manzari, tutti legati a Moro da stretti rapporti di fiducia e di stima, furono utilizzati nel 1973 nelle vesti di consulenti per definire i termini dell’accordo.
Nel corso del suo sequestro, Moro indirizzò proprio a Cottafavi, Dell’Andro e Manzari delle lettere sull’argomento, certamente scritte tra il 22 e il 23 aprile, ma distribuite dalle Brigate rosse in modo riservato soltanto il 29 aprile 1978. A questi testi vanno aggiunte le due missive spedite all’allora capogruppo della Dc Flaminio Piccoli e una al presidente del Comitato parlamentare di controllo sui servizi di informazione, sicurezza e sul segreto di Stato Erminio Pennacchini, anch’esse redatte come le precedenti negli stessi due giorni e recapitate soltanto una settimana dopo dai sequestratori. Il fatto che i brigatisti abbiano distribuito in modo riservato questo fascio di lettere è importante perché dimostra come fossero consapevoli che esse riguardavano un nodo segreto della diplomazia estera italiana che, in quel frangente, avevano interesse a tutelare, in quanto era in corso, proprio in quei giorni, una trattativa occulta che a parole, nei loro comunicati, avevano negato “perché nulla deve essere nascosto al popolo”.
Tra queste lettere è lo stesso Moro a dirci che la “più importante” è quella rivolta a Piccoli in cui si affermava: “Si tratta della nota vicenda dei palestinesi che ci angustiò per tanti anni e che tu, con il mio modesto concorso, riuscisti a disinnescare”. In essa Moro aggiungeva: “Vorrei che comunque Giovannone stesse su piazza”, ossia richiedendo la presenza del colonnello dei Servizi a Roma in quei giorni. In un’altra missiva aggiungeva: “Dunque, non una, ma più volte, furono liberati con meccanismi vari palestinesi detenuti e anche condannati, allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero state poste in essere, se fosse continuata la detenzione” e ribadiva la necessità che “se è in Italia (e sarebbe bene da ogni punto di vista farlo venire) il Col. Giovannoni (sic), che Cossiga stima”.
Queste due lettere a Piccoli sono importanti anche per un altro motivo: nei dattiloscritti corrispondenti ritrovati in via Monte Nevoso nell’ottobre 1978 compaiono una serie di errori di ortografia tipici che consentono di attribuire l’attività di battitura a macchina con sufficiente certezza a Prospero Gallinari. Inoltre, uno dei due dattiloscritti, è l’unico che riporta un segno autografo a penna di un brigatista (la perizia grafologica ha dimostrato essere la mano di Mario Moretti) che aggiunse e corresse, peraltro in modo impreciso, gli incarichi di governo attribuiti da Moro a Pennacchini.
Ma le due missive sono tra le più rilevanti dell’intero epistolario perché attestano l’esistenza di un canale di ritorno riservato tra la prigionia e l’esterno e quindi contribuiscono a potenziare la dimensione spionistico-informativa del sequestro. Infatti, in entrambe si richiedeva la presenza di Giovannone in Italia e le due missive furono sicuramente recapitate il 29 aprile, ma con altrettanta certezza vennero scritte dal prigioniero nel pomeriggio del 23 aprile. Ora, a partire dalla declassificazione di documenti dei servizi avvenuta soltanto nel 2014 grazie alla cosiddetta “Direttiva Renzi”, sappiamo che Giovannone, in base al foglio di viaggio che non fa alcun riferimento alla vicenda Moro, già il 24 aprile era in viaggio verso l’Italia (“su piazza”, come richiesto dallo scrivente), facendo uno scalo tecnico a Creta “causa rifornimento dovuto a fortissimo vento contrario”. Dal momento che le lettere uscirono dalla prigione soltanto il 29 aprile, è evidente che qualcuno dal suo interno fu in grado di avvertire i Servizi della richiesta di Moro e della necessità della missione di Giovannone dal momento che i brigatisti tergiversavano nel distribuire le missive, impiegando, diversamente da altri casi accertati, quasi una settimana.
Sul cosiddetto “lodo Giovannone” e sulla trattativa segreta che riguardò i palestinesi in funzione di intermediazione per ottenere la liberazione a Beirut di quattro capi militari della Raf, legati all’organizzazione terroristica internazionalista di Illich Ramirez Sanchez, detto Carlos, sono usciti validi recenti contributi di Francesco Grignetti (Salvate Aldo Moro. La trattativa e la pista internazionale, Editore Melampo) e, sulla scorta dei lavori della Commissione Moro che ha presieduto nell’ultima legislatura di Giuseppe Fioroni e Maria Antonietta Calabrò (Moro il caso non è chiuso. La verità non detta, Lindau).
I quattro tedeschi, autori di svariati omicidi in Germania nel 1977, erano detenuti in quei giorni in Jugoslavia e lo spionaggio italiano, o almeno la parte di esso leale a Moro, si impegnò, direttamente con il presidente Josip Broz Tito per promuovere la loro liberazione, si può facilmente immaginare con quale reazione da parte di Bonn. Sappiamo che durante il sequestro il collaboratore di Moro, Sereno Freato, si recò in missione segreta a Belgrado dal presidente Tito viaggiando su un aereo privato messogli a disposizione dall’allora giovane e rampante imprenditore milanese Silvio Berlusconi. Inoltre, siamo a conoscenza che, all’alba del 9 maggio 1978, il vicecapo del Sismi, Fulvio Martini, si recò in macchina in Jugoslavia partendo da Venezia arrivando fino alla cella dove i quattro giovani erano detenuti. Proprio lì fu raggiunto dalla notizia della morte di Moro e fece rientro in Italia. Nell’agosto 1978, sarebbe stato allontanato dal servizio segreto militare ormai egemonizzato dal piduista Giuseppe Santovito, ma ritornò ai massimi vertici della struttura, nominato nel maggio 1984 dal premier Bettino Craxi, dirigendola sino al 1991, ormai in un’altra Italia. Le sue memorie, Nome in codice Ulisse, sono dedicate alla veneranda memoria di Giovannone che perse la furibonda partita per salvare Moro.
Alla luce di questi dati, fa sorridere che, a distanza di quarant’anni dai fatti, i protagonisti o i testimoni di allora ancora discettino nell’ormai rituale occasione degli anniversari sulla cosiddetta linea della fermezza (i più colti si spingono a citare Creonte e Antigone), continuando a ignorare la realtà, ormai accertata, delle trattative che intervennero in quei giorni, il che obbligherebbe a interrogarsi sulle ragioni politiche del loro presunto fallimento per la parte riguardante la vita dell’ostaggio. Speriamo che in occasione del prossimo decennale, costoro possano trovare il tempo di leggere qualche serio libro di inchiesta e dei buoni libri di storia
10 – fine