sabato 12 maggio 2018

La Stampa 12.5.18
Con i migranti attraverso le Alpi
dove muore l’Europa dei diritti
di Domenico Quirico


Volete vedere morire l’Europa, quella che ci ha magnificamente illuso con i diritti, i bei discorsi pieni di vento, le cui frontiere invisibili sconfinavano infinitamente oltre quelle della Unione visibile? Vi faccio da guida. Il viaggio è breve: stazione di Torino Porta Nuova, binario venti, dove partono i treni locali per la val di Susa, sì proprio quella dei No Tav, poi da Oulx in autobus salite a Claviere e, a piedi, al Monginevro per poi scendere a Briançon. Scoprirete un’Europa che non conoscete: nel terzo millennio lo scandalo di bambini e donne incinte che strisciano, di notte, tra la neve, verso frontiere inesorabili; e città dove poliziotti danno la caccia nelle strade ai neri; monti dove milizie di razzisti strafottenti, ramazzate in mezzo continente, si danno, sotto le telecamere, alle «ratonnades», le cacce ai topi dell’età di Vichy. E poi consegnano le loro prede a uno Stato, la Francia, connivente e grato.
Preparatevi. È un posto, questo, dove accettiamo, in modo ipocrita, l’orrenda divisione degli uomini che fomenta il dolore e lo rende senza pietà. Abbiamo chiesto al mondo dei fuggiaschi dai fanatismi, dalle povertà bibliche, di essere amati. Abbiamo gridato: qualsiasi cosa noi abbiamo commesso in passato, resterà tuttavia quello che abbiamo dato al mondo che perorerà sempre in nostro favore. Ma non serve a nulla essere amati: perché non siamo noi a esserlo. Si tratta sempre di qualcuno che non siamo.
Allora che cosa significa oggi per noi europei il possibile? A che punto siamo? Che cosa avviene nelle profondità di questo vecchio popolo? Alla frontiera di Monginevro ci si dicono le cose più vere, quelle che fanno male all’improvviso, come se ci si assalisse.
Il reato di solidarietà
Sì, parlo di migranti, ancora loro. Anche se nessuno sembra più occuparsene, rastrellati e inchiodati per ora lontani da qui, in attesa di esser resi definitivamente invisibili. E invece. E invece incontrate luoghi come «Jesus», a Claviere, un locale strappato, con virtuosa prepotenza, alla parrocchia perché i migranti possano respirare e nutrirsi prima della marcia a piedi verso la Francia. E l’ex caserma dove, a Briançon, altri uomini di buona volontà, francesi questi, li aiutano se ce l’hanno fatta. E ascoltate, increduli, le storie dell’inverno appena passato, non di scalate o discese in neve fresca, ma dei salvataggi di donne incinte e bambini, del calvario dei migranti al passo della Scala; di guide alpine denunciate per reato di solidarietà; di militanti che tra poche settimane, in un processo a Gap, rischiano dieci anni per una manifestazione pacifica a Monginevro per chiedere che la frontiera francese si aprisse ai migranti.
Ecco, la solidarietà: nata, qui, dall’obbligo che la gente di montagna sente di salvare chi la neve, il freddo, la miseria ha messo in difficoltà, e che poi diventa mobilitazione, decine di stanze offerte da famiglie per ospitare i migranti. Oltre e fuori dalla burocrazia dei centri di assistenza, dell’accoglienza in carta da bollo. È un modello come sostiene qualcuno? Non lo so. È politica, un risvolto della battaglia dei No Tav? Non saprei rispondere, quello che mi preme è perché non ci afferra più quel senso di necessità affascinante che emana da ogni vita umana. Rifletto sulle parole di un militante: «Noi lottiamo contro chi rifiuta il migrante ma anche contro chi vuole “assisterlo”, fermarlo a tutti costi. Vogliamo che ognuno abbia la possibilità di decidere il proprio destino». Una buona sintesi, mi pare, di ciò che dicevamo di essere. L’onore d’Europa dipende soltanto da noi, se lo abbiamo perduto nessuno può restituircelo, tranne noi stessi.
Allora: il treno. È mattina, una stazione silenziosa, quasi vuota. I treni dei migranti sono controllati, loro lo sanno, salgono qualche stazione più avanti. Appassisce anche il piccolo traffico che vi fioriva attorno, passeur veri e falsi, che vendevano informazioni sul viaggio verso la Francia, indirizzi telefonici, i sentieri «sicuri» o semplicemente chiedevano denaro in cambio di false promesse di passaggi facili e senza problemi. Penultimi tra gli infiniti sciacalli che li hanno braccati durante il cammino.
La valle sempre più stretta vaneggia, sotto, come una voragine, sfuma la pianura con le macchie bianchicce di paesi e città, si alzano pareti vestite di folti boschi scuri e di rocce ferrigne e, in alto, bave di biacca, la neve superstite al sole. Passa un ragazzo nero scortato dal capotreno. In silenzio. E penso a questa gente di deserto e di savana: queste rocce formidabili parlano loro un linguaggio muto che dice forse cose solenni e tremende; che sentono confusamente, senza comprenderle, come un mistero sovrumano.
Alla stazione di Oulx, davanti al Residence du Commerce, i migranti ci sono. Riempiono già il bus che sale a Claviere e a Monginevro, in Francia. Una donna grossa, che sembra dar consiglio agli altri, e ragazzi, alcuni giovanissimi. Guardo le scarpe: ciabatte di gomma, mocassini scalcagnati, sandali.
Davanti alla chiesa a Claviere il bus fa sosta, scendono tutti i migranti, tra un chilometro c’è la gendarmeria francese. Che li aspetta. Su un muretto sedute alcune donne, e bambini infagottati in giacche a vento lise, più grandi di loro. Su di loro si depone come polvere il rimorso di una grande missione mancata. Sono state appena respinte, ricacciate indietro. Raccontano che talora di fronte a donne e bimbi piccoli qualche gendarme fa finta di niente. Stavolta no.
Nelle stanze del posto di sosta «Jesus», una attivista, stende sul tavolo una carta della valle: traccia percorsi, spiega, segna qui c’è la caserma delle guardie di confine state lontani tenetevi a fianco della strada più in basso. Qui è bosco attenti, c’è ancora neve la traccia si perde. Mentre parla il suo corpo produce con foga parole, espansioni sentimentali, energia. Un bambino trae accordi da una chitarra. Una famiglia è seduta davanti alle brande, la donna allatta placidamente il più piccolo. Ci guardiamo a lungo dalle nostre sedie, come bestie timide, senza dire mai nulla. Non faccio più interviste ai migranti. I loro racconti da sette anni non portano a nulla: che serve frugare con le parole perché rivelino ogni proprio attimo e si trasformino in pensiero? Non bisogna sentire pietà. Dobbiamo misurarci insieme.
Ci avviamo verso il confine, due migranti sembrano decisi a partire con noi, esitano: forse è meglio aspettare la notte. Forse ci raggiungeranno salendo. Attraversiamo il campo di golf che la neve, sciolta ormai a larghe chiazze, impaluda di tinte giallastre. A segnare la via palline abbandonate e resti delle traversate che il disgelo ha scoperto: calze, berretti, guanti, bottiglie, cibo gettato via.
Dove venite in vacanza, ogni giorno, da mesi, il mondo è un continuo passaggio di sofferenze inavvertite. La sofferenza non è nulla: l’ingiustizia, l’insulto è che una gran parte di essa passa inavvertita.
Monginevro è vuota: fredda, incolore e inerte, case livide e chiuse, negozi sbarrati, strade senza auto e senza uomini, in quel silenzio pare che il tuo respiro rimbombi. Non ci sono autobus per Briançon in questa stagione morta. Tentiamo l’autostop. Ci carica una coppia di ragazzi italiani, simpatici, allegri, vanno a un festival di danza tradizionale vicino a Gap. Sono felici: tre giorni di danze. Poi raccontano che viaggiava con loro un ragazzo marocchino, contattato con la formula dell’auto condivisa, per risparmiar le spese: prima della frontiera abbiamo scoperto che aveva solo una fotocopia della carta di identità non valida per l’espatrio, uffa! Abbiamo dovuto rifar la strada per scaricarlo a Claviere, non vogliamo guai noi, con questi migranti.
Siamo chiusi come in un sacco. Questi rifiuti sono i nostri piccoli suicidi di tutti i giorni.
A Briançon davanti alla stazione ferroviaria, sotto i muri enormi, i bastioni pietrosi del forte di Vauban, freddo, arcigno, armoniosamente spaventevole, ritrovo i migranti, nella piccola casa dei volontari francesi che li aiutano dopo il passaggio. Abitanti e turisti passano con le loro compere sotto il braccio, i ristoranti preparano sulle tavole, bianche, con i fiori, le liste delle vivande, le campane della chiesa suonano le ore. I migranti ti guardano come sempre i migranti, come se sapessero che tra un minuto, tra un’ora non ti vedranno più; sguardi che sembrano sfuggirti perché sanno di essere farfalle ondeggianti in un mondo calmo e sicuro. Loro soli sanno che tutto è provvisorio, che tra poco non saranno più qui e nessuno si accorgerà che sono spariti.
Il racconto della volontaria
Una volontaria ci racconta che da un paio di giorni la polizia insegue i ragazzi neri nelle strade, chiede documenti anche a quelli che hanno lo status di rifugiato: cercano la provocazione, sperano in una ribellione violenta.
Merci presidente Macron! Ci hai davvero ingannati!
Questa notte sono arrivati dalla montagna sette migranti. Ieri ventiquattro.