martedì 8 maggio 2018

internazionale 6.5.18
Le donne non si fermeranno
The Guardian, Regno Unito


Decine di migliaia di persone sono scese in piazza nelle città spagnole, indignate dalla decisione del tribunale di Pamplona che ha assolto cinque uomini dall’accusa di stupro di gruppo, condannandoli per il reato più lieve di abusi sessuali. La corte ha stabilito che non c’era stata violenza né intimidazione perché la vittima non aveva reagito. L’accusa è ricorsa in appello e vari politici hanno subito condannato la sentenza. Madrid ha promesso che riesaminerà le leggi sui crimini sessuali. In un tweet la polizia spagnola ha scritto “No signiica no” per dodici volte. Anni di campagne di sensibilizzazione hanno cambiato l’atteggiamento delle persone e delle autorità. Com’è possibile che ci sia ancora tanto da fare? Gli attivisti spagnoli hanno accusato la “cultura patriarcale e maschilista” del paese, ma la questione non riguarda solo la Spagna. In India ci sono state manifestazioni contro le agghiaccianti reazioni di funzionari e politici dopo lo stupro e l’uccisione di due ragazze, una delle quali di appena otto anni. Gli irlandesi hanno manifestato contro l’assoluzione di due rugbisti dall’accusa di stupro: a scatenare la rabbia erano stati gli otto giorni di controinterrogatori a cui era stata sottoposta la vittima.
La settimana scorsa negli Stati Uniti l’attore Bill Cosby è stato condannato per violenza sessuale. Secondo alcuni questa sentenza è un evento epocale, ma per altri è solo un’eccezione. Le accuse contro gli imputati devono essere valutate rigorosamente e i testimoni devono essere messi alla prova. Ma troppo spesso le vittime devono sofrire due volte. Perché lo stato non riesce a portare in tribunale i loro assalitori. Oppure perché durante il processo subiscono controinterrogatori concepiti per confutare la loro testimonianza, o devono affrontare il pregiudizio secondo cui la maggior parte delle accuse di violenza è falsa. Casi simili scoraggiano le donne che vorrebbero denunciare gli abusi subiti, dicono agli aggressori che possono farla franca, e lanciano un messaggio più ampio sul modo di trattare le donne che la società considera accettabile. In tutto il mondo invece le proteste stanno diffondendo un altro messaggio: le donne non solo meritano ma pretendono di meglio, e non si fermeranno finché non l’avranno ottenuto.

internazionale 6.5.18
La Cina rischia di rimanere esclusa
Secondo gli analisti cinesi, gli sviluppi nella penisola coreana potrebbero lasciare Pechino fuori dalle trattative
Catherine Wong, South China Morning Post, Hong Kong


Gli analisti cinesi sono convinti che Pechino dovrebbe essere coinvolta nei colloqui su un accordo di pace per mettere fine ufficialmente alla guerra di Corea. Ma temono che dopo il vertice tra il presidente statunitense Donald Trump e il leader nord coreano Kim Jong-un, la Cina resti fuori dai negoziati. Il 28 aprile Trump ha dichiarato che il suo incontro con Kim potrebbe avvenire “nelle prossime tre o quattro settimane” e, “perché no?”, nella Zona demilitarizzata. Il giorno dopo Pyongyang ha fatto la sua prima grande concessione: ha dato la sua disponibilità a chiudere il sito per i test nucleari di Punggye-ri, invitando esperti e giornalisti ad assistere allo smantellamento della struttura a maggio. e ha anche annunciato che il 5 maggio cambierà il suo fuso orario per farlo nuovamente coincidere con quello di Seoul. Nel 2015, infatti, la Corea del Nord aveva portato indietro le lancette di mezz’ora rispetto al Sud per non mantenere l’orario imposto dal Giappone durante il periodo coloniale. Ma gli analisti cinesi non sono convinti che Kim sia sincero quando sostiene di voler lavorare per la denuclearizzazione. “A giudicare dalla dichiarazione di Panmunjom, l’enfasi posta dalla Corea del Nord sulla ‘denuclearizzazione’ non riguarda specificamente Pyongyang. Da nessuna parte si legge che il governo intende rinunciare alle sue armi nucleari”, spiega Sun Xingjie, esperto di questioni coreane dell’università di Jilin. “La Corea del Sud potrebbe aver frainteso la definizione di denuclearizzazione data da Pyongyang”. Il 27 aprile Kim e Moon si sono impegnati a lavorare insieme per ottenere una “completa denuclearizzazione” della penisola coreana, senza però indicare passi concreti per raggiungere l’obiettivo. Inoltre i due leader hanno deciso di collaborare per mettere ufficialmente fine alla guerra di Corea, organizzando incontri trilaterali con gli Stati Uniti o quadrilaterali coinvolgendo anche Pechino. La Cina è stata uno dei tre paesi firmatari dell’armistizio nel 1953, insieme agli Stati Uniti e alla Corea del Nord. La Corea del Sud non figurava tra i firmatari. tuttavia Zhang Liangui, esperto di questioni coreane della scuola centrale che forma i dirigenti del Partito comunista cinese, sottolinea che la politica condotta negli ultimi anni da Pechino nei confronti di Pyongyang potrebbe comportare l’esclusione della Cina dal processo di pace. “Il ministero degli esteri cinese ha scelto di non occuparsi della crisi nucleare nordcoreana lasciando che Pyongyang e Washington comunicassero direttamente”, spiega Zhang. “Per questo i nuovi sviluppi sono fuori dal controllo della Cina e non sarebbe una sorpresa se Pechino fosse esclusa dal negoziato”. Recentemente un alto diplomatico di Seoul aveva rivelato al South China Morning Post che entrambe le Coree vorrebbero ridurre l’influenza di Pechino sulla penisola. Anche lo storico Shen Zhihua osserva che l’influenza della Cina nelle questioni coreane rischia di diminuire.
Intervistato da Voice of America, Zhihua ha dichiarato che Pechino non dovrebbe farsi troppe illusioni sui prossimi sviluppi, perché il vertice fra Trump e Kim potrebbe sfociare in un accordo con cui Washington riconoscerebbe la Corea del Nord come stato nucleare in cambio dell’abbandono da parte di Pyongyang dei missili a medio e lungo raggio, la principale minaccia per gli Stati Uniti. “ora tutto dipende da Washington”, ha spiegato Zhihua. “C’è la possibilità di ottenere una reale denuclearizzazione, ma solo se gli americani resteranno determinati e non penseranno solo al loro interesse”. L’amministrazione Trump ha chiesto uno smantellamento “completo, verificabile e irreversibile” del programma nucleare nordcoreano. Il nuovo consulente di Trump per la sicurezza nazionale, John Bolton, conosciuto per il suo atteggiamento intransigente sulla questione nordcoreana, chiede che il programma nucleare di Pyongyang sia eliminato completamente e ha bocciato qualsiasi approccio progressivo, sottolineando che i tentativi in questa direzione delle amministrazioni precedenti non hanno avuto successo. Quanto ai colloqui per un eventuale trattato di pace, Lu Chao, direttore dell’Istituto di studi frontalieri dell’Accademia di scienze sociali di Liaoning, spiega che da un punto di vista giuridico la Cina, in quanto firmataria dell’armistizio, dovrebbe essere coinvolta.

internazionale 6.5.18
Svezia Socialdemocrazia da rifare
Fokus, Svezia


Il Partito socialdemocratico svedese (Sap) è nei guai. Dopo i risultati deludenti delle ultime tre tornate elettorali, la forza che ha plasmato la politica svedese è in cerca di nuove idee. E per trovarle guarda al passato, scrive il settimanale Fokus. Negli ultimi quarant’anni il Sap ha perso circa un terzo dei voti. Secondo i suoi militanti più di sinistra, la colpa è delle politiche della cosiddetta terza via abbracciate negli anni novanta sulla scia del successo di Tony Blair nel Regno Unito. L’analisi sembra raforzata dal recente successo dei Democratici svedesi, la destra populista che ofre soluzioni illusorie alle richieste dei cittadini più poveri, dimenticati dal partito che per decenni li aveva rappresentati. La via d’uscita sembra essere quindi una netta svolta a sinistra, come quella impressa ai laburisti britannici da Jeremy Corbyn. Secondo Daniel Wolski, possibile astro nascente del partito, la linea liberale seguita dal Sap va almeno in parte rivista: “Non dico che dobbiamo tornare all’idea che la proprietà pubblica è sempre e comunque la soluzione. Ma dobbiamo restituire alla società maggiore influenza sulle politiche sociali”.

internazionale 6.5.18
La fine degli stati Il sistema basato sullo stato nazione è in crisi. E il ritorno del nazionalismo in tutto il mondo è l’ultimo sintomo del suo inarrestabile declino. L’analisi dello scrittore angloindiano Rana Dasgupta
Rana Dasgupta, The Guardian, Regno Unito.


Cosa sta succedendo alla politica degli stati nazione? Negli Stati Uniti la realtà supera ormai la fantasia degli scrittori e il Regno Unito non mostra ancora segni di ripresa dopo l’“esaurimento nervoso nazionale” causato dalla Brexit, come ha scritto Philip Stephens sul Financial Times. Alle elezioni del 2017 la Francia “ha evitato l’infarto per un soffio”, ha commentato Le Monde, ma il risultato del voto non è servito a scongiurare una “decomposizione accelerata del sistema politico”. In Spagna, secondo El País, “lo stato di diritto, il sistema democratico e perfino l’economia di mercato sono in discussione”, mentre in Italia “il crollo dell’establishment” alle elezioni di marzo è stato paragonato dall’edizione locale dell’Huington Post alla “calata dei barbari”.
In Germania, intanto, i neofascisti si preparano a fare opposizione in parlamento, portando un elemento di preoccupazione e imprevedibilità nel bastione della stabilità europea. Ma le convulsioni della politica nazionale non riguardano solo l’occidente. La stanchezza, la sfiducia e la crescente inadeguatezza dei vecchi schemi sono i temi centrali del dibattito politico in tutto il mondo. E le soluzioni muscolari e autoritarie sono sempre più popolari: la guerra usata per distrarre l’opinione pubblica (Russia, Turchia); la “purificazione” etnico-religiosa (India, Ungheria, Birmania); l’ampliamento dei poteri presidenziali e il corrispondente disconoscimento dei diritti civili e dello stato di diritto (Cina, Ruanda, Venezuela, Thailandia, Filippine e molti altri). Che rapporto c’è tra tutti questi sconvolgimenti? Di solito tendiamo a considerarli separati perché le nazioni hanno una visione egocentrica della politica. Ogni paese tende a dare la colpa alla “sua” storia, ai “suoi” populisti, ai “suoi” mezzi d’informazione, alle “sue” istituzioni, alla “sua” cattiva politica. È comprensibile, perché gli organi che formano la coscienza politica moderna – l’istruzione pubblica e i mezzi d’informazione di massa – si sono affermati nell’ottocento sulla base dell’ideologia allora dominante, secondo cui ogni paese ha un destino nazionale unico e diverso. Oggi quando discutiamo di politica ci riferiamo a quello che succede all’interno degli stati sovrani; tutto il resto sono “affari esteri” o “relazioni internazionali”, anche in quest’epoca di profonda integrazione finanziaria e tecnologica. In tutti i paesi del mondo compriamo gli stessi prodotti e usiamo Google e Facebook, ma curiosamente la politica è ancora fatta di cose diverse in ogni paese e conserva l’antica fede nei confini nazionali.
Certo, oggi c’è la consapevolezza che il populismo stia emergendo in forme simili in luoghi diversi. Molti hanno notato le somiglianze tra le idee e lo stile di leader come Donald Trump, Vladimir Putin, Narendra Modi, Viktor Orbán e Recep Tayyip Erdoğan. È come se nell’aria ci fosse qualcosa, una strana coincidenza di atteggiamenti e sentimenti. Ma non è tutto. E in realtà non si tratta neanche di una coincidenza. Oggi, infatti, tutti i paesi fanno parte dello stesso sistema e sono sottoposti alle stesse pressioni. Sono proprio queste pressioni che stanno soffocando e piegando la politica nazionale in tutto il mondo. E nonostante la disperata ostentazione delle bandiere nazionali, l’effetto di queste pressioni è l’esatto contrario della presunta “rinascita della stato nazione”. Al contrario, la novità più importante della nostra epoca è proprio l’erosione dello stato: la sua incapacità di resistere alle spinte del ventunesimo secolo e la sua catastrofica perdita d’influenza sulla condizione umana. L’autorità politica nazionale è in declino, e siccome non ne conosciamo al
tre, ci sembra la fine del mondo. Ecco perché oggi è in voga una strana forma di nazionalismo apocalittico. Tuttavia il machismo come stile politico, la costruzione di muri, la xenofobia, il mito e la teoria della razza e le mirabolanti promesse di restaurazione nazionale non sono i rimedi alla crisi, ma i sintomi di una realtà che si sta lentamente rivelando: in tutto il mondo gli stati nazione attraversano una fase avanzata di decadenza politica e morale da cui non possono uscire da soli. Ma perché sta succedendo tutto questo? Per farla breve, le strutture politiche del novecento affogano in un oceano fatto di deregolamentazione finanziaria, tecnologia sempre più autonoma, militanza religiosa e rivalità tra grandi potenze. Nello stesso tempo nel mondo ex coloniale stanno maturando le conseguenze a lungo represse dell’avventatezza novecentesca: le nazioni si spaccano, spingendo le popolazioni ad abbracciare schemi di solidarietà post-nazionali. Nascono così le milizie tribali itineranti, i sotto-stati e i super-stati etnici e religiosi. Infine la demolizione, da parte delle superpotenze, della vecchia idea di comunità internazionale (quella legata alla Società delle nazioni, fondamentale per la costruzione del nuovo ordine mondiale dopo il 1918) ha trasformato il sistema degli stati nazione in un far west senza regole, che sta provocando la reazione nichilista dei paesi storicamente più deboli e sfruttati. Qual è il risultato? Per un numero crescente di persone, le nazioni e il sistema di cui fanno parte sono incapaci di garantire un futuro plausibile e sostenibile. Tanto più che le élite finanziarie – e la loro ricchezza – si sottraggono sempre di più agli obblighi di fedeltà nazionale. La perdita di autorità della politica nazionale deriva in gran parte proprio dalla sua incapacità di controllare i lussi di denaro. È evidente che il denaro sta uscendo dallo spazio nazionale per confluire in un’area “offshore” sempre più ampia. La fuga di queste risorse indebolisce le comunità nazionali dal punto di vista sia materiale sia simbolico. Ed è causa, ma anche effetto, della loro decadenza. Gli stati nazione hanno perso la loro autorità mora le, ed è anche per questo che l’evasione fiscale è diventata una caratteristica ormai accettata del sistema degli scambi commerciali del ventunesimo secolo. Un fenomeno ancora più drammatico riguarda milioni di persone che non hanno più una nazione di appartenenza e sono precipitate in una specie di inferno. A sette anni dalla caduta della dittatura di Gheddafi, la Libia è controllata da due governi rivali, ognuno con il suo parlamento, e da milizie in lotta per il controllo del petrolio. Ma la Libia è solo uno dei tanti paesi che esistono esclusivamente sulla carta geografica. Solo il 5 per cento dei conflitti combattuti nel mondo dal 1989 ha coinvolto gli stati: i 9 milioni di morti nelle guerre degli ultimi trent’anni sono stati causati in massima parte da conflitti interni, non da invasioni. E, come è successo nella Repubblica Democratica del Congo e in Siria, il vuoto di potere che a un certo punto si crea finisce per attirare nel conflitto paesi di tutto il mondo, distruggendo vite umane e seminando ovunque profughi traumatizzati. Niente descrive la crisi del sistema degli stati nazione meglio dei 65 milioni di profughi che ci sono oggi nel mondo, una “nuova normalità” che va ben oltre i livelli della “vecchia emergenza” del 1945, quando i profughi erano in totale 40 milioni. Il fatto di non essere disposti neanche a riconoscere questa crisi è fotografato perfettamente dal disprezzo per i profughi che oggi condiziona profondamente la politica nei paesi ricchi. Oltre l’utopia La crisi non era inevitabile. Dal 1945 in poi abbiamo ridotto la politica mondiale a una pericolosa parodia del sistema messo in piedi dal presidente statunitense Woodrow Wilson e dai leader di altre nazioni dopo il cataclisma della prima guerra mondiale. E oggi ne paghiamo le conseguenze. Ma non bisogna avere troppi rimpianti. Questo sistema, infatti, ha fatto molto meno di quanto immaginiamo per la sicurezza e la dignità umana – sotto molti aspetti è stato un fallimento colossale – e c’è un motivo se sta invecchiando più in fretta degli imperi di cui ha preso il posto. Anche se volessimo ricostruire quello che c’era prima, ormai sarebbe troppo tardi. Se lo stato nazione è riuscito a raggiungere dei risultati – in alcuni casi davvero notevoli – è perché per buona parte del novecento c’è stato un perfetto “incastro” tra politica, economia e informazione, tutte organizzate su scala nazionale. I governi avevano realmente il potere di controllare le energie economiche e ideologiche e di indirizzarle verso ini lodevoli, a volte addirittura utopistici. Quell’epoca è finita. Dopo decenni di globalizzazione, l’economia e l’informazione ormai non dipendono più dall’autorità dei governi. Oggi la distribuzione della ricchezza e delle risorse a livello planetario è quasi totalmente svincolata da ogni meccanismo politico. Ma riconoscere questa realtà vuol dire riconoscere la fine della politica stessa. E se continuiamo a pensare che il sistema di governo che abbiamo ereditato dai nostri padri non permette nessuna innovazione, allora ci condanniamo a un lungo periodo di paralisi politica e morale. Ci sono voluti cinquant’anni per costruire il sistema globale da cui oggi tutti dipendiamo, e non possiamo tornare indietro. Senza una grande innovazione politica, la tecnologia e il capitale globale ci governeranno senza alcun tipo di controllo democratico, con la stessa naturalezza e ineluttabilità con cui s’innalza il livello degli oceani. Se vogliamo riscoprire il senso della politica in quest’epoca di finanza globale, raccolta di dati senza freni, migrazioni di massa e sconvolgimenti climatici, dobbiamo immaginare forme politiche capaci di operare su questa stessa scala. Non c’è dubbio che il sistema politico attuale dev’essere integrato da una regolamentazione della finanza globale, e probabilmente anche da nuovi meccanismi politici transnazionali. È così che completeremo la globalizzazione, oggi pericolosamente incompiuta. Il sistema economico e tecnologico della globalizzazione è certamente spettacolare, ma per operare al servizio della comunità umana dev’essere subordinato a un’infrastruttura politica altrettanto formidabile, che non abbiamo ancora nemmeno cominciato a concepire. Inevitabilmente si obietterà che qualsiasi alternativa al sistema degli stati nazione è un’utopia irrealizzabile. Ma anche le conquiste tecnologiche degli ultimi decenni sembravano improbabili prima che arrivassero, e ci sono buoni motivi per sospettare di chi, dall’alto della sua posizione di potere, vorrebbe convincerci che l’essere umano è incapace di raggiungere traguardi simili nella sfera politica. In diverse fasi della storia la politica ha assunto una rilevanza ino a quel momento impensabile, a partire dalla creazione dello stato nazione. Come diventa ogni giorno più chiaro, la vera illusione è che le cose possano continuare ad andare avanti in questo modo. Il primo passo da fare è smettere di pensare che non c’è alternativa. Cominciamo quindi prendendo in esame la portata della crisi attuale. Promesse tradite Partiamo dall’occidente. L’Europa, naturalmente, ha inventato lo stato nazione: il principio della sovranità territoriale fu sancito dalla pace di Vestfalia, che nel 1648 mise ine alla guerra dei trent’anni. Dato che il trattato impediva di fatto conquiste su larga scala nel continente, le nazioni europee puntarono al resto del mondo. In patria, i dividendi del saccheggio coloniale si tradussero nella creazione di stati forti con solide burocrazie e sistemi politici democratici: in sintesi il modello della vita europea moderna. Alla ine dell’ottocento le nazioni europee avevano ormai acquisito tratti comuni ancora oggi riconoscibili, tra cui una serie di monopoli di stato gelosamente custoditi (per esempio sulla difesa, le tasse e la legge) che mettevano sostanzialmente il destino nazionale nelle mani dei governi. In cambio alla collettività veniva fatta una promessa: lo sviluppo spirituale e materiale dei cittadini e della nazione. Questa promessa si concretizzava in grandi progetti pubblici nel campo dell’istruzione, della sanità, dello stato sociale e della cultura. Il tradimento di questa promessa morale a cui abbiamo assistito negli ultimi quarant’anni è un evento sconvolgente, di portata quasi metafisica, e ha spinto i popoli occidentali a guardarsi intorno in cerca di nuovi valori in cui credere. Quella promessa, infatti, aveva rappresentato un momento fondamentale nell’evoluzione della psicologia occidentale. Era parte di una profonda riorganizzazione teologica: la rivoluzione francese aveva detronizzato non solo il sovrano, ma dio stesso, i cui attributi superlativi – onniscienza e onnipotenza – erano stati assorbiti nell’istituzione dello stato. Il potere dello stato di sviluppare, liberare e redimere l’umanità diventò la fede laica su cui lo stato stesso si fondava. Con la decolonizzazione del secondo dopoguerra la struttura dello stato nazione europeo è stata esportata in tutto il mondo. Per gli occidentali, tuttavia, quella promessa morale ha conservato un valore particolare e specifico, soprattutto dopo la creazione dello stato sociale e dopo decenni di crescita senza precedenti. La nostalgia per l’età dell’oro dello stato nazione distorce ancora oggi il dibattito politico occidentale, ma quell’epoca è stata il frutto di un’improbabile coincidenza di condizioni che non si ripeterà più. Era un’anomalia perfino la struttura stessa dello stato postbellico, caratterizzata da una capacità di controllo sull’economia interna storicamente eccezionale. I capitali non erano liberi di fluire incontrollati oltre i confini e le speculazioni valutarie erano trascurabili rispetto a oggi. I governi, in altre parole, avevano un controllo sostanziale sui lussi monetari, e se parlavano di cambiare le cose era perché erano effettivamente in grado di farlo. Il fatto che il capitale fosse vincolato significava che i governi erano liberi di imporre aliquote fiscali molto alte, grazie alle quali, in un’epoca di crescita economica senza precedenti, potevano dedicare grandi energie e risorse allo sviluppo del paese. Per alcuni decenni il potere dello stato è stato monumentale – quasi divino – e ha creato le società capitalistiche più sicure e più eque mai conosciute. La distruzione dell’autorità dello stato a vantaggio del capitale ha rappresentato l’obiettivo esplicito della rivoluzione finanziaria che definisce la nostra epoca. Di conseguenza, gli stati si sono visti costretti a tagliare le garanzie sociali per reinventarsi come custodi del mercato. Questo fenomeno ha drasticamente ridimensionato l’autorità politica nazionale, a livello sia reale sia simbolico. Nel 2013 Barack Obama ha definito la lotta alle disuguaglianze “la sida centrale del nostro tempo”, ma dal 1980 in poi le disuguaglianze negli Stati Uniti sono cresciute senza sosta, nonostante le preoccupazioni di Obama o di qualsiasi altro presidente. Il quadro è lo stesso in tutto l’occidente: i redditi dei più ricchi continuano ad aumentare, mentre l’austerità imposta dopo la crisi ha azzoppato il welfare state socialdemocratico. Oggi l’ira dell’opinione pubblica si abbatte sui governi che si rifiutano di rispettare la loro antica promessa morale, ma la verità è che lo stato ormai non ha molta scelta. I governi occidentali non hanno più il controllo della vita economica del paese, e se continuano a promettere grandi cambiamenti lo fanno solo per accontentare l’opinione pubblica o per dare l’illusione di avere ancora la situazione sotto controllo. È molto probabile che la prossima fase della rivoluzione tecno-finanziaria sarà ancora più disastrosa per l’autorità politica nazionale. Assisteremo alla continuazione su scala nazionale dei processi tecnologici già in atto, che promettono nuovi tipi di governo basati su algoritmi, con una ulteriore delegittimazione della politica. Le aziende che sfruttano la raccolta di grandi quantità di dati (Google, Facebook, eccetera) hanno già assunto molte funzioni un tempo affidate allo stato, dalla cartografia alla sorveglianza. E sono diventate le principali custodi della realtà sociale: l’adesione a questi sistemi è una nuova forma privata e deterritorializzata di cittadinanza, in tutto e per tutto alternativa a quella nazionale. E come dimostra la crescita delle valute digitali, presto emergeranno nuove tecnologie capaci di sostituire anche le altre funzioni fondamentali dello stato nazione. L’utopia libertaria in cui delle burocrazie antiquate soccombono a sistemi privati puri che prendono in mano la gestione della vita e delle risorse è uno scenario futuro più probabile di qualsiasi fantasia su un ritorno alla socialdemocrazia. L’autorità sotto attacco Governi controllati da forze esterne e in grado di esercitare un’inluenza solo parziale sulle questioni nazionali: nei paesi più poveri del mondo è sempre stato così. Ma in occidente questa nuova situazione è vissuta come un ritorno terriicante a un’antica vulnerabilità. L’attacco all’autorità politica non è solo un fenomeno “economico” o “tecnologico”. È uno sconvolgimento epocale che destabilizza e spoglia i popoli occidentali. Il risultato è che ci sono esplosioni di rabbia irrazionale, soprattutto contro gli immigrati, i capri espiatori designati. Così crolla l’idea della nazione occidentale come casa universale e crescono le identità tribali transazionali, considerate un nuovo rifugio: tanto il suprematismo bianco quanto il radicalismo islamico prendono le armi contro la contaminazione e la corruzione. La posta in gioco non potrebbe essere più alta. È facile dunque capire perché i governi occidentali tentino disperatamente di dimostrare quello che tutti ormai mettono in dubbio, cioè di avere ancora il controllo della situazione. Se Donald Trump si comporta come un amministratore delegato sociopatico non è solo per il suo carattere. Nell’era della globalizzazione i presidenti statunitensi hanno provato ripetutamente ad ampliare il potere del governo, ma quel potere non basterà mai. L’amministrazione Trump non avrà mai il controllo sulla vita degli americani che aveva l’amministrazione Kennedy, per questo è costretta a simularlo. Trump non può “far tornare grande l’America”, ma ha Twitter, con cui può costruire un culto della personalità da pistolero solitario dando la colpa dell’impotenza dello stato alle donne, a quelli di sinistra e ai neri. Non può sanare le divisioni sociali degli Stati Uniti, ma controlla ancora l’apparato di sicurezza, che sfrutta a suo vantaggio per atteggiarsi a “duro”, dichiarando guerra alla criminalità, espellendo gli stranieri e raforzando i conini. Trump non può dare soldi ai poveri che lo hanno votato, ma può contare su una moneta mitologica: anche gli elettori più poveri, infatti, possiedono una risorsa importante – la cittadinanza statunitense – che Trump può “vendere” come in passato ha venduto i suoi casinò e i suoi alberghi. Come Putin e Orbán, Trump ammanta la cittadinanza di un nuovo potere marziale, e si vanta di negarla a quelli che la desiderano. Ovviamente, più una cosa scarseggia, più è preziosa. Così anche i cittadini che non hanno nulla si convincono di avere molto. È una strategia sgradevole, ma non possiamo semplicemente dare la colpa a pochi cattivi interpreti. La situazione è questa: l’autorità politica è agli sgoccioli e i leader non sono in grado di produrre cambiamenti materiali signiicativi. Per questo devono alimentare e mettere in campo sentimenti forti: l’odio verso stranieri e nemici interni, oppure l’entusiasmo per imprese militari insignificanti (per esempio l’annessione della Crimea da parte di Vladimir Putin). Alcuni pensano che queste strategie crolleranno sotto il peso della loro inconsistenza e che magicamente la moderazione tornerà di moda. Ma come ha dimostrato la Russia di Putin, lo sciovinismo è più eicace di quanto non vogliamo ammettere. Anche perché i cittadini vogliono disperatamente che l’inganno funzioni: sotto sotto hanno paura di quello che può succedere se si scopre che il potere dello stato è una bufala. Nei paesi più poveri del mondo il quadro è diverso. Molte nazioni sono nate nel ventesimo secolo dalle ceneri degli imperi euroasiatici. Oggi è diventato normale disprezzare gli imperi, ma per gran parte della storia sono stati il normale sistema di governo. L’impero ottomano, durato dal 1300 al 1922, garantì livelli di pace e di sviluppo culturale che sembrano incredibili quando si pensa al Medio Oriente di oggi. La Siria moderna non sembra poter durare più di un secolo senza disgregarsi, e non è stata quasi mai in grado di assicurare sicurezza o stabilità ai suoi cittadini. Gli imperi non erano democratici, ma erano costruiti per includere chiunque iniva sotto il loro dominio. Le nazioni, invece, si basano sulla distinzione fondamentale tra chi ne fa parte e chi no, e dunque portano in sé la tentazione della purezza etnica. Tutto questo le rende più instabili degli imperi, perché queste caratteristiche possono sempre essere cavalcate da qualche demagogo nativista. Nonostante questo, nel secolo scorso a un certo punto si è stabilito che gli imperi appartenevano al passato e che il futuro era degli stati nazione. Questo cambiamento rivoluzionario ha fatto poco o nulla per colmare il divario economico tra colonizzati e colonizzatori. Anzi, ha costretto molte popolazioni post-coloniali a ingoiare un amarissimo cocktail a base di autoritarismo, pulizia etnica, guerra, corruzione e devastazioni ambientali. Se oggi solo poche ex colonie sono diventate nazioni paciiche, ricche e democratiche, la colpa non è dei “cattivi leader” che hanno rovinato paesi perfettamente funzionanti, come vorrebbe far credere l’occidente. Durante la decolonizzazione le nazioni sono state assemblate nel giro di pochi mesi. E spesso le loro popolazioni si sono fatte risucchiare in conlitti violenti per il controllo del nuovo apparato dello stato, del potere e della ricchezza che ne derivavano. Molti di questi nuovi stati erano tenuti insieme da un uomo forte che aveva aidato il sistema alla sua tribù o al suo clan e manteneva il potere alimentando rivalità settarie o sfruttando le diferenze etnicoreligiose come strumenti di terrore politico. La lista non è breve. Pensiamo a igure come Ne Win (Birmania), Hissène Habré (Ciad), Hosni Mubarak (Egitto), Mengistu Haile Mariam (Etiopia), Ahmed Sékou Touré (Guinea), Muhammad Suharto (Indonesia), lo scià dell’Iran, Saddam Hussein (Iraq), Muammar Gheddai (Libia), Moussa Traoré (Mali), il generale Zia-ul-Haq (Pakistan), Ferdinand Marcos (Filippine), i re dell’Arabia Saudita, Siaka Stevens (Sierra Leone), Mohamed Siad Barre (Somalia), Jaafar Nimeiri (Sudan), Hafez al Assad (Siria), Idi Amin (Uganda), Mobutu Sese Seko (Zaire) o Robert Mugabe (Zimbabwe). Questi paesi sono stati sostanzialmente con dannati a restare “quasi-stati”, secondo la deinizione del politologo Robert H. Jackson. Formalmente equivalenti alle vecchie nazioni con cui condividevano il palcoscenico internazionale, in realtà erano entità molto diverse, incapaci di garantire beneici paragonabili ai loro cittadini. Ma i dittatori non sarebbero mai riusciti a tenere insieme realtà così contraddittorie senza un aiuto dall’esterno. Lo spirito postimperiale, naturalmente, gli era congeniale: il rifiuto del dominio straniero da parte dell’Onu aveva come corollario l’imperativo universale a rispettare la sovranità nazionale, a prescindere dagli orrori commessi all’interno dei singoli paesi. La guerra fredda, inoltre, moltiplicava le risorse a disposizione dei regimi più brutali per difendersi da rivoluzioni e secessioni. Le due superpotenze hanno inanziato l’escalation dei conlitti post-coloniali ino a livelli di mortalità stupefacenti: le proxy wars, le guerre per procura scoppiate in quel periodo in paesi come Afghanistan, Corea, El Salvador, Angola e Sudan, hanno causato quasi 15 milioni di vittime. Per le superpotenze l’obiettivo di questa violenza era la costruzione di una rete stabile di alleati, o meglio clienti, in grado di sconiggere gli avversari interni. Contenere i conlitti In realtà non c’era nulla di stabile nella stabilità della guerra fredda: semplicemente le sue devastazioni erano coninate all’interno di stati-cuscinetto. Ma dopo il crollo del sistema delle superpotenze, con l’implosione dell’autorità dello stato, in molti paesi economicamente e politicamente impoveriti contenere i conlitti è diventato impossibile. La distruzione delle culture nazionali ha dato origine a preoccupanti forze post-nazionali, come il gruppo Stato islamico (Is), capaci di attraversare i conini nazionali e di difondere il caos in ogni angolo del pianeta. Negli ultimi vent’anni i postumi tossici della guerra fredda in Africa e in Medio Oriente sono stati sfruttati da queste forze, che prosperano grazie alla progressiva disgregazione di paesi come Yemen, Sud Sudan, Siria e Somalia e di altre nazioni che inevitabilmente seguiranno la stessa strada. I militanti delle nuove forze si sono liberati dall’incantesimo dei vecchi slogan sulla costruzione della nazione. Si basano su un’interpretazione carismatica della religione, e il futuro a cui aspirano guarda agli antichi imperi che esistevano prima dell’invenzione degli stati nazione. I gruppi religiosi militanti dell’Africa e del Medio Oriente sono sempre meno interessati alla conquista dell’apparato dello stato; preferiscono ricavarsi degli spazi nell’autorità statale, costruendo reti transnazionali per gestire la riscossione delle imposte, gli scambi commerciali e gli approvvigionamenti militari. Una di queste reti si estende, in direzione est-ovest, dalla Mauritania allo Yemen, e, secondo la traiettoria sud-nord, dal Kenya e dalla Somalia verso l’Algeria e la Siria. Questa nuova struttura erode dall’interno la vecchia architettura politica, rendendo gli stati nazione sostanzialmente impotenti (per esempio il Mali e la Repubblica Centrafricana) e creando ulteriori opportunità di consolidamento ed espansione. Nel frattempo, gruppi etnici come i curdi e i tuareg – che dopo la decolonizzazione sono rimasti senza una patria, abbandonati e perseguitati per anni – hanno sfruttato le crepe dell’autorità dello stato per mettere insieme i primi abbozzi di territori transnazionali. È nelle regioni più pericolose del mondo che si sperimentano le nuove possibilità della politica. L’impegno dell’occidente verso gli stati-nazione è stato opportunistico e parziale. Per decenni l’occidente si è disinteressato alle soferenze di vaste aree del pianeta, oppresse da spaventose parodie degli stati tradizionali, e oggi non può lamentarsi se quei popoli non mostrano nessun attaccamento all’idea dello stato nazione. Anche perché sono proprio quei popoli a dover sopportare le conseguenze più traumatiche del cambiamento climatico, un fenomeno di fronte al quale sono i meno responsabili ma i più vulnerabili. Il calcolo strategico dei nuovi gruppi militanti in queste regioni è per certi versi corretto: la transizione dall’impero agli stati nazione indipendenti è stata un fallimento continuo e totale, e dopo tre generazioni bisogna trovare una via d’uscita. Ma questa via d’uscita non può essere rappresentata da gruppi come Al Shabaab, i janjaweed, Seleka, Boko haram, Ansar dine, lo Stato islamico e Al Qaeda. La situazione richiede nuove idee per l’organizzazione politica e la ridistribuzione economica globale. Non esiste più nessuna superpotenza abbastanza forte da poter contenere gli efetti dell’esplosione dei “quasi-stati”. Irrigidire i conini non basterà sicuramente a tenere a bada il fenomeno. L’unica via d’uscita Pensiamo alla natura stessa dello stato nazione. L’ordine internazionale come lo conosciamo non è così vecchio. Lo stato nazione è diventato il modello universale dell’organizzazione politica umana solo dopo la prima guerra mondiale, quando un nuovo principio – “l’autodeterminazione dei popoli”, come la deinì il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson – ebbe la meglio sugli altri progetti allora in discussione. Oggi, dopo un secolo di luttuose relazioni internazionali, l’unico aspetto di questo principio che ancora ricordiamo è quello a noi più familiare: l’indipendenza nazionale. Ma il piano originario di Wilson, elaborato da un gruppo di persone di cui facevano parte idealisti di ogni provenienza, da Andrew Carnegie a Leonard Woolf (marito di Virginia), aveva un obiettivo più ambizioso: la nascita di una democrazia allargata che superasse i conini degli stati, in grado di assicurare la cooperazione internazionale, la pace e la giustizia. Del resto, come potevano i popoli vivere al sicuro nelle loro nuove nazioni se queste non erano soggette a nessuna legge? Il nuovo ordine delle nazioni aveva senso solo in presenza di una “società delle nazioni”: un’organizzazione globale e formale dotata di istituzioni proprie, con il potere di sanzionare gli atti di violenza che i singoli stati non erano in grado di gestire da soli, cioè quelli commessi dagli stati stessi contro altri stati o contro i propri cittadini. La guerra fredda ha definitivamente seppellito questa “società internazionale”, e da decenni conviviamo con una versione fortemente ridimensionata del progetto originario. In questo arco di tempo le due superpotenze hanno volutamente eliminato ogni restrizione agli interventi internazionali, alimentando un livello di anarchia degno della “spartizione dell’Africa” che andò in scena tra la ine dell’ottocento e la prima guerra mondiale. Il loro potere, liberato da ogni restrizione, ha prodotto esattamente quello che ci si poteva aspettare: il banditismo. La fine della guerra fredda non ha cambiato di una virgola l’atteggiamento statunitense: oggi il potere di Washington dipende dall’illegalità che vige nella comunità internazionale e dalla guerra perpetua contro i deboli che è una sua diretta conseguenza. Come un governo illegittimo non può durare a lungo senza che nasca un’opposizione, così l’ordine internazionale illegittimo con cui abbiamo convissuto per tanti anni sta rapidamente esaurendo il consenso di cui godeva un tempo. In molte parti del mondo nessuno s’illude più che questo sistema possa ofrire un futuro sostenibile. Non resta che uscirne. Alcuni puntano tutto su un passaporto occidentale: visto che in occidente il valore della vita è ancora tutelato dal sistema, è l’unica garanzia di una protezione costituzionale signiicativa. Ma avere un passaporto occidentale non è facile. Resta un’altra via d’uscita: imbracciare le armi contro il sistema degli stati. Il gruppo Stato islamico ha esercitato una forte attrazione perché ha promesso di cancellare dal Medio Oriente la catastrofe del secolo postimperiale. Si ricorderà che i proclami più trionfalistici dell’Is sono arrivati dopo la conquista del conine tra Iraq e Siria, presentata come una rivincita sui trattati del 1916 con cui il Regno Unito e la Francia si spartirono l’Impero ottomano, inaugurando un secolo di bombardamenti sulla Mesopotamia. Tutto questo nasce dal riiuto, perfettamente giustiicabile, di un sistema che per oltre cent’anni ha bollato gli arabi come “selvaggi” a cui non andava riconosciuta alcuna dignità o protezione. L’era dell’autodeterminazione dei popoli si è rivelata un’era di illegalità internazionale che ha minato la legittimità del sistema degli stati nazione. E mentre i gruppi rivoluzionari tentano di distruggere il sistema “dal basso”, le potenze regionali lo stanno distruggendo “dall’alto”, violando i conini nazionali nelle loro aree di inluenza. L’intervento russo in Ucraina dimostra che oggi c’è una sostanziale impunità per i capricci neoimperiali, e la possibilità che la Cina occupi Taiwan – il ventiduesimo paese più ricco del mondo – è ancora un rischio concreto. Ma la vera portata della nostra insicurezza si rivelerà nel momento in cui il potere degli Stati Uniti, già relativo, si ridurrà ulteriormente, rendendo Washington impotente di fronte al caos che ha contribuito a creare. Democrazie e denaro I tre elementi della crisi dello stato nazione qui descritti potranno solo peggiorare. Primo, la crisi esistenziale dei paesi ricchi causata dall’attacco delle forze globali al potere nazionale. Secondo, l’instabilità delle regioni e dei paesi più poveri, dopo che hanno mostrato la loro vera fragilità con la ine dei regimi legati alla guerra fredda. E terzo, l’illegittimità di un ordine internazionale che non ha mai aspirato a diventare una “società delle nazioni” governata secondo lo stato di diritto. Questi tre elementi sono il frutto di forze che le politiche nazionali non possono controllare, e per questo motivo sono sostanzialmente immuni a qualsiasi riforma interna agli stati (anche se nei prossimi anni assisteremo a molti tentativi in questo senso). Quindi, se non vogliamo vedere il sistema globale scivolare verso forme di crisi ancora più estreme, abbiamo l’obbligo di ricostruirne le traballanti fondamenta politiche. Non è un’impresa da poco: ci vorrà quasi un secolo. E ancora non sappiamo dove approderemo. Tutto quello che possiamo fare è ipotizzare una serie di direzioni. Sembreranno inconcepibili, perché inora abbiamo conosciuto esclusivamente il sistema attuale. Ma è così che cominciano i cambiamenti radicali. La prima direzione è chiara, ed è quella della regolamentazione della inanza globale. Oggi i grandi motori della crescita sono organizzati in modo da eludere i sistemi iscali nazionali (il 94 per cento delle riserve di liquidità della Apple si trova ofshore: 250 miliardi di dollari, più delle riserve in valuta estera del governo britannico e della Banca d’Inghilterra messe insieme). Questo sta indebolendo gli stati nazione, sia concretamente sia simbolicamente. Non c’è motivo di dare ascolto a chi, in modo interessato, giura che la regolamentazione della inanza globale è un’impresa impossibile: dal punto di vista tecnologico è molto più banale degli strabilianti meccanismi messi in piedi per consentire l’elusione iscale. Ripensare la cittadinanza La storia dello stato nazione è fatta di costanti innovazioni iscali, e la prossima innovazione sarà transnazionale: dobbiamo creare un sistema capace di tracciare i lussi internazionali di denaro e di trasferirne una parte al settore pubblico. Se non ci riusciremo, la nostra infrastruttura politica continuerà a inluire sempre meno sulla vita materiale delle persone. Allo stesso tempo dobbiamo pensare più seriamente a una ridistribuzione globale della ricchezza: non attraverso gli aiuti, che sono misure straordinarie, ma con il trasferimento sistematico di risorse dai ricchi ai poveri per migliorare la sicurezza di tutti, come succede nelle società nazionali. Il secondo punto è che serve una democrazia globale flessibile. Con il rafforzamento dei nuovi poteri locali e transnazionali, il rigido monopolio dello stato nazione sulla vita politica sta diventando sempre più insostenibile. Le nazioni devono essere inserite in un’architettura di strutture democratiche stabili – alcune più piccole, altre più ampie – capace di far sì che le turbolenze a livello nazionale non portino al collasso del sistema. L’Unione europea è il principale esperimento in questo senso, ed è signiicativo che il continente che ha inventato lo stato nazione sia anche il primo che sta provando a superarlo. L’Unione ha fallito in molte delle sue funzioni, principalmente perché non ha creato uno spirito veramente democratico. Ma il libero movimento di persone e beni ha enormemente democratizzato le opportunità economiche all’interno del continente. E se l’Unione diventasse una “Europa delle regioni” – capace di comprendere la Catalogna e la Scozia, non solo la Spagna e il Regno Unito – potrebbe contribuire a stabilizzare le tensioni politiche nazionali. Oggi servono altri esperimenti politici di questo tipo, a livello continentale e globale. Gli stessi governi nazionali devono essere soggetti a un maggiore controllo: finora, infatti, si sono dimostrati le forze più pericolose nell’era dello stato nazione, dichiarando guerra ad altri paesi e opprimendo, uccidendo o comunque sottraendosi agli obblighi verso i loro popoli. Le minoranze nazionali oppresse devono avere una struttura legale sovranazionale a cui potersi rivolgere: questo è sempre stato uno degli obiettivi di Wilson, e il suo mancato raggiungimento è stato una sciagura per l’umanità. Terzo e ultimo punto: dobbiamo studiare una nuova concezione della cittadinanza. Oggi la cittadinanza è la prima forma d’ingiustizia nel mondo: funziona come un modello estremo di proprietà ereditaria e – come succede in altri sistemi in cui il privilegio ereditario è determinante – non fa scattare nessun meccanismo di fedeltà e identiicazione in chi non la può ereditare. Molti paesi hanno cercato, attraverso il welfare e l’istruzione pubblica, di neutralizzare le conseguenze dei vantaggi accidentali che derivano dalla nascita. Eppure questi “vantaggi accidentali” rimangono una forza dominante a livello globale: nel 97 per cento dei casi la cittadinanza è ereditaria, il che signiica che le variabili fondamentali della vita su questo pianeta sono già decise alla nascita. Chi nasce inlandese ha tutele giuridiche e aspettative economiche talmente diverse rispetto a un somalo o a un siriano che diventa diicile perino comprendersi a vicenda. Anche le opportunità di movimento di un finlandese sono completamente diverse. Ma in un sistema mondiale – più che in un sistema di nazioni – non può esserci giustiicazione per una diferenza così radicale. La liberalizzazione del movimento delle persone è un corollario essenziale della liberalizzazione dei capitali: non è giusto tutelare la libertà di spostare i capitali da un paese all’altro e contemporaneamente impedire alle persone di fare altrettanto. I sistemi tecnologici contemporanei mettono a disposizione modelli per ripensare la cittadinanza separandola dal territorio e distribuendo in modo più equo i suoi vantaggi. I diritti e le opportunità che spettano ai cittadini occidentali, per esempio, potrebbero essere rivendicati da persone che vivono a migliaia di chilometri di distanza, senza bisogno di spostarsi in occidente. Potremmo anche partecipare a processi politici geograicamente lontani ma che comunque ci riguardano: se il compito della democrazia è dare agli elettori una qualche forma di controllo sulle proprie condizioni di vita, come possono le elezioni statunitensi non coinvolgere la maggior parte della popolazione del pianeta? Che forma prenderebbe il dibattito politico statunitense se dovesse rivolgersi anche agli elettori in Iraq o in Afghanistan? Alla vigilia del suo centesimo compleanno, il sistema degli stati nazione attraversa una crisi da cui al momento è incapace di tirarsi fuori. È il momento di pensare a come costruire una via d’uscita. Una risposta ancora non c’è. Ma abbiamo imparato molto dalla fase economica e tecnologica della globalizzazione, e oggi possiamo identiicare i concetti fondamentali della fase successiva: quella in cui costruiremo i meccanismi politici di un sistema mondiale integrato. Siamo di fronte a una sida dell’immaginazione politica altrettanto significativa di quella che ha prodotto i grandi ideali del diciottesimo secolo, e con essi la repubblica francese e quella americana. Ma oggi possiamo cominciare ad affrontarla.
L’autore
Rana Dasgupta è uno scrittore britannico di origine indiana. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Delhi (Feltrinelli 2015). Il suo prossimo lavoro in inglese uscirà nel 2019 e s’intitolerà After nations (Dopo le nazioni).

internazionale 6.5.18
Pediatria
L’isolamento dei minori


La British medical association, il Royal college of psychiatrists e il Royal college of paediatrics and child health hanno chiesto l’abolizione dell’isolamento disciplinare nelle carceri minorili del Regno Unito. Oggi quasi quattro detenuti minorenni su dieci passano ino a 22 ore al giorno in una piccola cella, isolati fisicamente e socialmente, senza interazioni né stimoli. L’isolamento può durare ino a ottanta giorni. Si abusa di questo regime a causa delle carenze di personale e in situazioni di violenza, ma gli effetti sui ragazzi sono gravi: aumento del rischio di suicidio, atti di autolesionismo, problemi di reinserimento sociale. Anche se cresce il consenso contro un sistema che viola i diritti umani, sottolinea The Lancet, la pratica è ancora diffusa in molti paesi.

l’espresso 6.5.18
DOSSIER Quarant’anni dopo la 194
L’aborto dimenticato
Una grande battaglia civile. Vinta con una buona legge. Il numero è in calo. Ma ancor oggi per tante donne è una drammatica lotteria
di Susanna Turco


Era una «tragedia italiana», è stata una battaglia collettiva, simbolica, epocale. Una rivoluzione. «Imperfetta ma riuscita», come ha detto il medico e scrittore Carlo Flamigni. Dove è finita, quarant’anni dopo, la legge 194? Dirlo fuori dai cliché è difficilissimo. «Qualche tempo fa eravamo stati chiamati dagli studenti di un liceo di Roma, per discutere Mina Welby del fine vita e io di aborto. Mentre parlava lei i ragazzi erano affascinati, quando è venuto il mio turno erano, invece, distratti. Come se, sotto sotto, si domandassero: questo non è un problema, perché ti riscaldi tanto? Ma che cosa vuoi?». Mirella Parachini, ginecologa pioniera della 194 e attivista radicale, racconta così, con franchezza e ironia, l’ultima frontiera, il punto in cui la ruota si è fermata, per adesso almeno. Per i liceali del 2018 del resto, la legge che rende le donne libere di scegliere sull’interruzione di gravidanza è ancora più lontana di quanto non fosse, per i liceali del 1978 , il diritto di voto femminile. Un frammento delle cronache dell’epoca aiuta a misurare i passi: «Per noi l’autodeterminazione della donna, ormai, è diventata un principio intoccabile», proclamava alla Camera, in piena trattativa sulla legge, D’Alema a Ciriaco De Mita. Ma era D’Alema nel senso di Giuseppe, il padre di Massimo. Da quell’«ormai» sono passati quarant’anni. Dal milione e mezzo di aborti clandestini stimati dall’Unesco per l’Italia dei primi anni Settanta, e gli 84 mila effettuati nel 2016 secondo legge, i termini della questione si sono fatti «più sottili». Tra l’applicazione a macchia di leopardo, che in alcune regioni d’Italia muta il diritto «in una drammatica lotteria», come dice Stefania Cantore dell’Unione donne in Italia parlando della situazione difficile di Napoli e Campania, i toni spesso a torto pimpanti delle relazioni ministeriali, le campagne violente da parte degli anti-abortisti, che si sono preparati all’anniversario affiggendo a Roma il cartellone con il feto più grande che la storia ricordi. In mezzo a tutto ciò, si viaggia anche su altri canali di un diritto acquisito. Che va difeso “Per non tornare nel buio” come recita il recente libro di Livia Turco: ricordando, come dice Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni, che «la 194 tutela la salute delle donne, che quindi renderla inapplicabile significa volerle colpire»; o lottando per migliorare, con una maggior diffusione dei farmaci, o per la contraccezione gratuita. Ma senza tralasciare il dato di fondo: la legge funziona, nonostante molte criticità. «Ci sono cose che non vanno, ma non bisogna fermarsi alla lamentela. Se guardo indietro, benedico una legge che è servita
a portare avanti la libertà delle donne di scegliere su se stesse», dice ancora Parachini. Un diritto conquistato e in parte svuotato. Non solo per le difficoltà di accesso: anche perché, come racconta uno studio Istat elaborato in occasione dei 40 anni della 194, in Italia si fanno meno figli e in età più avanzata, è entrata in gioco la contraccezione d’emergenza (enorme la crescita di questi anni), e tra bassi tassi di fecondità e bassi tassi di aborti (tra i più esigui dei paesi occidentali), la questione si è spostata, è andata da un’altra parte. Molise, il caso limite Saltano all’occhio, ad esempio, i dati raccolti per L’Espresso e riportati nelle pagine seguenti, un sondaggio secondo il quale il 90 per cento dei ragazzi interpellati, età compresa tra i 15 e i 18 anni, non è mai entrato in un consultorio;
solo il 6 per cento crede che funzionino; soltanto il 4 andrebbe lì a parlare di una eventuale gravidanza. Fotografia di un fallimento. Ben oltre la realtà di una rete che ha sempre faticato ad avviarsi. La 194, in effetti, faceva dei consultori una pietra angolare del contatto con le donne, il primo punto di riferimento, dall’educazione alla contraccezione al rilascio del certificato per abortire. Un ruolo mai davvero sviluppato. Nel 1980 c’erano 917 consultori - nessuno in Molise, quattro in Sicilia. In trentasei anni se ne sono aggiunti appena mille. Nell’ultima relazione del ministero della Sanità, infatti, i consultori censiti risultano 1.944 (4 in Molise), pari a un tasso dello 0,6 per ventimila abitanti (per legge quel tasso dovrebbe essere 1, cioè quasi il doppio). «È chiaro che i ragazzi non frequentano i consultori, è un dato di evidenza: perché non li conoscono», spiega Anna Pompili, cofondatrice di Amica (Associazione Medici Italiani Contraccezione e Aborto): «Ormai i consultori non riescono più ad andare nelle scuole. Sono ridotti a fare le veci degli ambulatori. Hanno equipe ridotte all’osso, non si riesce a gestire nemmeno l’ordinario». La realtà è lontana anche dalle statistiche: «I dati ministeriali non la fotografano. Nella regione Lazio, ad esempio, sotto la voce “consultori” ci sono anche centri vaccinali, per disabili, di psichiatria infantile. A Milano, su 33 consultori, 12 sono privati e, di questi, 10 sono confessionali. Come può parlare di contraccezione il consultorio Massimiliano Kolbe? Al massimo, se va bene, parla di metodi naturali e della loro straordinaria efficacia», dice Pompili. Che porta un altro esempio: «Ho lavorato al consultorio di Cesano di Roma, una frazione importante, più di 10 mila abitanti e tante donne immigrate. In poco tempo sono andate in pensione, progressivamente: assistente sociale, ostetrica, psicologa. Alla fine eravamo rimaste in due ginecologhe con una infermiera. La Asl ci ha spostato ad altri consultori: ufficialmente però quello di Cesano resta aperto, c’è una infermiera due volte a settimana che risponde alle telefonate. E una ginecologa che va a fare i pap test ogni tanto». Sempre nel Lazio, la consulta dei consultori nel 2014 ha fatto una indagine, dalla quale risultava poco più della metà dei consultori avevano equipe mediche complete, e nella grande maggioranza dei casi i locali riuscivano a restare aperti due giorni su sette. La stessa relazione del ministero della Salute, in effetti, non nasconde la problematica di una «non adeguata presenza sul territorio». Che è alla base anche della scarsa diffusione dei metodi contraccettivi tra i giovani, un punto sul quale l’Italia continua a non brillare a paragone con il resto d’Europa Benedette pillole Calano gli aborti: ogni anno sono un po’ meno, sulla serie lunga dagli oltre 200 mila della fine dei Settanta, ino agli 84 mila del 2016. Ovviamente anche perché cambiano gli stili di vita. Di questi anni è ad esempio il boom della contraccezione d’emergenza. Con l’entrata in commercio della pillola dei cinque giorni dopo (2012) e l’abolizione dell’obbligo di ricetta le vendite si sono moltiplicate: secondo i dati Aifa, la distribuzione della pillola dei cinque giorni dopo è schizzata dalle quasi 7,7 mila confezioni del 2012, alle 189 mila del 2016; e quella della Norlevo, nota come “pillola del giorno dopo”, nel 2016 ha registrato un dato di vendita pari a 214,532 confezioni, in aumento rispetto al 2015 in cui registrava 161,888 confezioni distribuite. Il che porta dritti alla domanda: «Visto che proprio per le giovanissime, negli ultimi anni, la percentuale di aborti non è calata, perché non rendere più facile l’accesso a questi farmaci anche per le minorenni?», dice Parachini. Il buco nero del sommerso I dati sono comunque in discesa. Non solo tra le italiane. Ma anche tra le immigrate, che rappresentano circa un terzo delle interruzioni totali, ma il cui tasso di abortività è in calo da qualche tempo. Tutto a posto dunque? Fino a un certo punto. «In ospedale poco tempo fa c’erano tante nigeriane, che improvvisamente sono tutte scomparse», racconta Pompili: «Il ministero si rallegra per il calo, ma non si domanda dove siano finite, quelle nigeriane. Oltre a sbandierare che siamo sotto i centomila aborti l’anno, si dovrebbe domandare se queste donne abbiano improvvisamente smesso di abortire, o se magari siano andate altrove», nota Pompili. Il sospetto, non riscontrabile in dati, è che in parte il fenomeno ritorni nel privato, fuorilegge, in casa, tra le mura. Non più mammane e ferri da calza, certo. La contemporaneità porta strumenti che prima non c’erano: il web e i farmaci. Via internet si ricava qualsiasi informazione, comprese tutte quelle necessarie ad abortire. Si può sapere a chi rivolgersi per ottenere ricette e certificati, si può trovare un qualsiasi aiuto e ogni genere di istruzione, ci si può anche procurare i farmaci necessari ad abortire. Una procedura più rischiosa, oltreché illegale: ma rendere difficili gli aborti spinge anche in quella direzione. Verso il Cytotec, ad esempio, un farmaco che una volta serviva per le ulcere gastriche. Così, in ospedale ci si finisce d’urgenza. Quanto ai numeri, difficile quantificare i fuorilegge. Il ministero della Salute pubblica i dati Istat derivati da un modello statistico, che peraltro è invariato da anni. Secondo questi studi, a situarsi fuori dalla legge sono tra i 12 e i 15 mila aborti l’anno, più 3-5 mila delle straniere. Come racconta Filomena Gallo, però, i segnali concreti di questo fenomeno da una parte ci sono, dall’altra sono pochi. La relazione annuale del ministero della Giustizia (anche in via Arenula devono dire ogni anno come sta andando la 194 dal loro punto di vista) segnala che nel 2016 ci sono stati 33 procedimenti penali per violazione della 194, con 42 persone coinvolte. Troppo poche, in rapporto ai 20 mila stimati dall’Istat. Una esiguità che peraltro lo stesso rapporto del ministero della Giustizia sottolinea: quasi fosse una buona notizia, quando invece si tratta del segno di un mistero. Ma allora, come tornano i conti?
Ci sono solo piccolissimi segnali che indicano direzioni possibili. Ad esempio Women on web, un’organizzazione digitale “per il diritto all’aborto” con sede ad Amsterdam, invia per posta, a chiunque ne faccia richiesta, la combinazione di misoprostolo e mifepristone (le due pillole per l’aborto farmacologico) nei Paesi dove la pratica o è illegale o è inaccessibile: ebbene, secondo dati non ufficiali, le italiane li cercano sempre di più: 28 donne nel 2013, 53 nel 2014, 278 nel 2015, fino alle 474 del 2017. I numeri sono relativi, il trend però chiarissimo. Se questi sono i dati di chi sostiene la libera scelta della donna senza ini di lucro, c’è solo da supporre cosa possa accadere nei vasti mondi in cui il guadagno c’entra eccome. Per lo meno, significa che qualcosa non funziona, più di quanto le esultanze ministeriali non dicano. In Italia del resto l’aborto farmacologico stenta a decollare: entrato in commercio nel 2009, in meno di dieci anni è passato dallo 0,7 al quasi 16 per cento del totale degli aborti. Una crescita veloce, che però è scarsissima, rispetto agli altri paesi in cui è consentito l’utilizzo della Ru486. «Tutti gli altri paesi europei sono sopra il 50 per cento», spiega Anna Pompili. Ci sono limitazioni oggettive, nel nostro Paese, che potrebbero essere superate. Ad esempio, nonostante la commercializzazione sia avvenuta attraverso il meccanismo del mutuo riconoscimento, l’Aifa ha stabilito che le italiane possono utilizzare la Ru486 ino alle sette settimane (49 giorni) mentre negli altri paesi europei il limite è più ampio e arriva a 63 giorni e le ultime raccomandazioni della Fda allargano il regime a settanta giorni, raccomandando che la somministrazione avvenga in casa. Da noi invece nella maggior parte delle regioni è ancora necessario il ricovero ospedaliero di tre giorni. Altro che casa. «Gli stessi farmaci servono per gli aborti spontanei: ma in quei casi, sempre secondo Aifa, possono essere somministrati in ambulatorio. Invece se si tratta di aborti volontari, no», dice Pompili. Dove il diritto non esiste Ovviamente, come racconta chi se ne occupa, se si affermasse l’aborto farmacologico sarebbero superati due dei limiti più gravi nell’applicazione della 194: l’obiezione di coscienza dei singoli medici e delle intere strutture ospedaliere. L’ultimo elemento, fa si che la 194 sia garantita, di fatto in poco più di metà delle strutture (si sfiora giusto adesso il 60 per cento): in teoria, invece, dovrebbe essere il cento per cento. Parachini è lineare: «La legge lo dice benissimo. L’ente ospedaliero è tenuto in ogni caso, in ogni caso ad assicurare l’espletamento. L’espletamento, non il trasferimento». In pratica, infatti, tutto ciò significa che per interrompere la gravidanza è necessario spostarsi. Di provincia o di regione. Anche in questo caso i dati del ministero sbiadiscono il fenomeno, perché pubblicano i dati su base regionale. Ma già se, grazie all’Istat si scende a livello di provincia, il discorso è un po’ più chiaro: città come Isernia, Crotone, Frosinone o Fermo totalizzano zero aborti. Là è impossibile interrompere la gravidanza. Le centinaia di donne che ne hanno avuto necessità, sono emigrate per lo meno nella provincia più vicina. Quando non fuori regione. Accade anche l’inverso, come racconta ad esempio il caso di Petralia Sottana, tremila abitanti e almeno 300 donne che ogni anno arrivano da fuori per fare gli interventi di interruzione di gravidanza, in una regione dove l’obiezione supera l’86 per cento. Gli ostacoli che si incontrano sulla strada dell’interruzione non sono tutti visibili al primo colpo d’occhio. L’ultimo emerso in ordine di tempo è quello di Napoli dove, certificato da una inchiesta del Mattino, è saltato fuori che il Pertini accetta ino a sette persone al giorno, e il Cardarelli ino a quattro il martedì e il giovedì. In una regione dove da anni non si riesce a quantificare quanti siano gli obiettori di coscienza. Gli ultimi dati, del 2013 e comunque parziali, parlano dell’81,8 per cento dei ginecologi. È proprio l’obiezione a restare l’aspetto più critico di tutti. Percentuali altissime, picchi che sfiorano il 90 per cento, come in Basilicata, o casi da fiction, come il caso di un unico “non obiettore” in tutto il Molise. Il tema si è posto in dall’inizio. Già nel 1980 gli obiettori erano il 70 per cento della popolazione medica. E, nonostante la vertiginosa discesa del numero di aborti, la situazione non accenna a migliorare, anzi. Il numero dei “non obiettori” continua a calare: un po’ perché molti raggiungono l’età della pensione, come ha segnalato la Laiga già tre anni fa, un po’ perché la prevalenza di medici obiettori ai vertici di ospedali e università non incentiva certo a prendere quella strada. Nel 2016, al congresso Fiapac di Lisbona sono stati presentati i risultati di un questionario sottoposto agli specializzandi in ginecologia delle università romane. Ebbene, un medico su tre aveva una conoscenza «insufficiente» della 194 e solo il 15 per cento si era occupato di interruzione volontaria, contro il 74 per cento che invece aveva afrontato gli aborti spontanei. Senza formazione, è difficile poi spingersi a scegliere quelle strade. Idea: cambiare i concorsi Ma come mai, anno dopo anno, il ministero certifica che «non ci sono particolari criticità nell’erogazione del servizio di Ivg», mentre invece dalle realtà locali arrivano notizie talvolta drammatiche? Silvana Agatone, presidente di Laiga, spiega: «Per arrivare ai dati che diffonde il ministero, ogni anno noi medici riempiamo una scheda, un foglio per ogni aborto. Accade che, se io vado in pensione, non faccio più schede. La ministra Lorenzin dirà: bene, sono calati gli aborti. Fa ridere? È questo quel che accade: non ci sono rilevazioni sulla richiesta di interrompere la gravidanza, ma solo sugli aborti effettuati. Se, ad esempio, il San Camillo di Roma riesce a offrire dieci posti al giorno ma la richiesta è di trenta, delle donne che restano fuori nessuno sa nulla, al ministero non arriva. A Trapani c’era un “non obiettore”. Faceva ottanta interruzioni al mese. È andato in pensione: non si sono fatti ottanta aborti. Domanda: dove sono finite le donne che non hanno potuto abortire a Trapani?». Invece, nessuno lo chiede: quando diminuisce l’offerta magicamente sembra diminuire anche la domanda. Chiosa di Parachini: «Al che, la ministra fa una cosa geniale. Prende il numero degli aborti, prende il numero degli obiettori, fa la divisione e conclude: ammazza, i “non obiettori” avanzano. La verità è che si tratta di un calcolo demenziale». Se è per questo, c’è chi l’obiezione vorrebbe toglierla del tutto. E chi pensa che i due diritti possano continuare a convivere. Ma, spiega Filomena Gallo, comunque «servirebbe una legge per disciplinare l’obiezione di coscienza, magari per impiegare in modo diverso chi fa quella scelta. Servirebbe anche un albo pubblico dei medici obiettori, cosicché le donne possano scegliere da chi farsi seguire, e la garanzia dei concorsi divisi a metà: cinquanta per cento dei posti per gli obiettori, l’altro cinquanta per i non obiettori». Proprio attorno a questo tema si muovevano le (poche) proposte di legge per modificare la 194 nell’ultima legislatura: avanzate, in termini diversi, da sinistra, Forza Italia e Cinque stelle. Non che gli attacchi alla 194 siano finiti. Anche se siamo lontani dall’epoca in cui Giuliano Ferrara chiedeva «la moratoria», le associazioni degli integralisti dell’antiaborto non hanno perso vigore. L’iniziativa più recente è quella di Pro-vita onlus, che si è appoggiata ai senatori di Lega e Fratelli d’Italia per promuovere, anche dalle aule del Senato, una campagna in cui chiede al ministero della Salute di diffondere fantomatiche informazioni «relative ai danni che l’aborto può causare alla salute delle donne». Ed è già alle viste un convegno sulla denatalità e un corteo anti-aborto. Buon anniversario, legge 194.

l’espresso 6.5.18
Grazie Gigliola, contadina veneta Anno 1973, una ragazza finisce alla sbarra: fu così che tutto iniziò
di Chiara Valentini


Il momento d’inizio della lunga battaglia per la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza fu, probabilmente, il processo a Gigliola Pierobon: una ragazza figlia di contadini di San Martino di Lupara, provincia di Padova, processata nel maggio del 1973 per aver abortito. Rimasta incinta a 17 anni e abbandonata dal suo ragazzo, terrorizzata dall’idea di essere cacciata di casa, Gigliola aveva conosciuto il triste percorso dell’aborto clandestino: il tavolo di cucina di una mammana, una sonda rudimentale piantata in corpo, un dolore atroce, una grave infezione. La sua avvocata, Bianca Guidetti Serra, trasformò il processo in un evento politico-mediatico. E Gigliola in un’aula gremita di pubblico femminile, scandì: «La mia storia è quella di tante altre e il mio “reato” è un fatto commesso ogni anno in Italia da più di tre milioni di donne». Il dato era forse esagerato (secondo il ministero della Sanità la cifra, comunque impressionante, era di 750 mila). Ma il problema dell’aborto, ancora vietato dalle norme di epoca fascista e inserito fra i delitti “contro l’integrità e la sanità della stirpe” con pene da due a cinque anni, era troppo drammatico e contraddittorio con la nuova aria dei tempi, specie dopo la vittoria del divorzio nel referendum del 1974. Così attorno al tema nacque e si sviluppò il movimento delle donne, con tutte le sue varianti. Il primo, tra i gruppi organizzati, fu il “Movimento di liberazione della donna” (Mld), presto federato con il partito Radicale di Marco Pannella: fra i suoi obiettivi principali, proprio la legalizzazione dell’aborto e un referendum per ottenerla. Al contrario “Rivolta femminile”, il movimento che faceva capo alla neofemminista Carla Lonzi, nel suo manifesto dichiarava “decaduta di fatto” la legge antiabortiva «in nome dei milioni di aborti a cui sono costrette le donne». In un’ottica ancora diversa un’altra propaggine radicale, il Cisa diretto da Adele Faccio (dove presto si attiverà la giovane Emma Bonino) che scelse le iniziative concrete della disobbedienza civile: Bonino accompagnava periodicamente gruppi di donne di altre città ad abortire clandestinamente a Firenze, nell’ambulatorio del ginecologo radicale Giorgio Conciani; un altro gruppo femminista, il Crac, organizzava viaggi analoghi a Londra. Tutto questo andirivieni non sfuggì alla polizia, che nel gennaio del 1975 fece irruzione nella clinica fiorentina e oltre a Conciani arrestò quaranta donne in attesa dell’intervento. Scattarono le manette anche per Adele Faccio ed Emma Bonino, oltre che per il segretario radicale Gianfranco Spadaccia. Era la prima volta dalla ine del fascismo che veniva arrestato un segretario di partito. Anche la stampa finì sotto tiro: “L’Espresso”, che aveva pubblicato in copertina l’immagine di una donna incinta, nuda e inchiodata a una croce, fu sequestrato per vilipendio della religione e il direttore Livio Zanetti denunciato. Diverse manifestazioni di protesta si tennero in varie città italiane e i radicali riuscirono a raccogliere le firme per un referendum sull’aborto, a cui non si giunse per lo scioglimento delle Camere, nel 1976. Intervenne però la Corte Costituzionale che dichiarò non punibile l’aborto terapeutico in base al principio che il diritto alla vita e alla salute di «chi è già persona» non è equivalente a quello di chi «persona deve ancora diventare». Fu un’apertura importante e anche il Parlamento si mosse con un testo dove l’aborto veniva dichiarato lecito, ma con la decisione finale spettante al medico anziché alla donna. Il movimento, cresciuto tumultuosamente, si rivoltò e il 6 dicembre a Roma 20 mila donne sfilarono per le strade gridando «Vogliamo l’autodeterminazione», cioè la libertà e la responsabilità di «decidere del nostro corpo». Per sottolineare questa posizione le donne del movimento chiesero ai maschi di non partecipare al loro corteo. Vennero contestati anche i leader di sinistra: «Berlinguer, non passerai sulla pancia delle donne», era uno degli slogan ricorrenti; negli anni del compromesso storico con la Dc aleggiava infatti il sospetto di un Pci troppo cedevole su temi cari ai cattolici e al Vaticano. E in effetti nella proposta comunista era prevista addirittura, per la decisione finale, una commissione di tre esperti, quasi un piccolo tribunale. A svolgere una mediazione importante ci pensò l’Udi, la storica associazione delle donne della sinistra, che si era battuta per l’autodeterminazione. Così, quando la Dc e i neofascisti del Msi fecero passare con un colpo di mano un articolo che di nuovo definiva l’aborto come un reato, il movimento mise in atto la sua manifestazione più grande, quella “delle 50 mila donne”. Per la prima volta sfilò anche l’Udi e Berlinguer capì che la libertà femminile andava riconosciuta ino in fondo. La legge 194 passò nella primavera del 1978 e fu pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 22 maggio. Non tutti i cattolici la digerirono, e alcuni fra l’altro rinfacciarono ai laici e alla sinistra di averla fatta approvare nei giorni drammatici della prigionia e dell’assassinio di Aldo Moro, quasi approfittando dello sbandamento della Dc. I radicali e un’ala del femminismo chiedevano al contrario la liberalizzazione completa, anche per le minorenni. Si arrivò così, nel maggio del 1981, a due referendum abrogativi di segno opposto: uno per cancellare e uno per ampliare la legge 194. Entrambi furono bocciati. Quello dei cattolici oltranzisti si scontrò con il 68 per cento di No, 9 punti in più del referendum sul divorzio. La legge 194 era salva

l’espresso 6.5.18
Il nostro calvario non è finito
Di Valeria Parrella


Il senso più bello, più profondo, per cui essere orgogliosi dopo quarant’anni dalla 194, e quello più abietto, più vergognoso, passano per due racconti del terrore. Il primo, quello che ci dice tutta la bellezza di vivere in un paese liberato dalle nostre madri, è il racconto delle nostre nonne. Delle donne che oggi hanno ottanta e novant’anni: se ne sentono molti, soprattutto al sud, soprattutto nei paesi. Sono racconti intimi, personali, difficile che arrivino alle orecchie degli uomini: essi passano sotto quelli accettati e comuni che riguardano i bombardamenti, la fame, e la conquista del voto. Sono, ancora adesso, ancora dopo cinquant’anni da quando accaddero, racconti clandestini: perché si nutrono di un dolore che vive nelle cavità del corpo. Vivono nelle braccia artritiche, sotto i capelli bianchi. E dicono che tra le violenze più atroci agite sul corpo delle donne, c’è il portare in grembo per nove mesi un bambino non voluto. Questa pena non si può comminare a nessuno, nessun maschio la tollererebbe. Bisogna prestare ascolto a queste donne avvizzite, con gli occhi buoni, che hanno sfaccendato per i loro mariti una vita sana, bambine di fronte alla tecnologia, le donne incapaci di prendere da sole un autobus perché il perimetro della loro libertà finiva al fruttivendolo sotto casa. Raccontano tutte le stesse storie: «all’epoca tante cose non si sapevano» dicono delle sette, dieci volte in cui sono rimaste incinta, credendo davvero che anche i loro mariti non sapessero, o giustificando la loro inettitudine, perché tanto ormai è fatta. Farsi raccontare i giorni di terrore in attesa del mestruo, e l’oltraggio infinito del non poter fare nulla. O arrischiar la vita dalle mammane illecite «come le prostitute» dicono, e non c’è giudizio: c’è solo compassione per una sorte ancora più grama. Bisogna ascoltare la ricetta dell’infuso di prezzemolo. I dolori. Quelle belle mani nodose che si stringono tra di loro, come se le contrazioni fossero ora. È contro questa immagine di strazio che si levarono le nostre madri in piazza. E quei padri che volevano vivere accanto a donne libere e fiere. La storia della nostra vergogna passa per il racconto delle nostre figlie: delle ragazze che sciamano dalle università, giovani donne fragili e bellissime che custodiscono il futuro. Un racconto in cui il proprio corpo diventa campo di battaglia di ginecologi obiettori di coscienza, delle asl che lo consentono, di un sistema che garantisce l’impunità a chi non applica la legge. È la storia del calvario a cui le nostre ragazze sono sottoposte se decidono di abortire. La corsa contro il tempo, lo spostamento di distretto in distretto, lo sconfinamento in altre regioni e poi, lo raccontano tutte: l’atteggiamento supponente, lo sdegno dei sanitari. Lo raccontano tutte, anche chi quel figlio lo voleva e ha dovuto praticare l’aborto terapeutico: il giudizio intollerabile, la mancanza di assistenza nella fase finale. Pensare “adesso muoio” e non poter chiedere a nessuno se è vero, perché l’ultimo infermiere non obiettore aveva finito proprio allora il suo turno. Sono storie di roghi e inquisizioni del nuovo millennio davanti alle quali nessun padre- neppure il medico obiettore vorrebbe si trovasse mai la propria figlia, pericolose e buie come quelle di allora: perché dai sensi di colpa esalano le dittature. Mentre la legge 194 nacque dall’afflato opposto: liberare gli esseri umani dal senso di colpa sociale dell’essere artefici della propria esistenza.

l’espresso 6.5.18
Utero mio non ti conosco
Scarsa consapevolezza e educazione sessuale. Unico aiuto: la Rete. Una ricerca esclusiva tra gli under 18. E un quarto dice no all’aborto
di Elena Testi


L e domande si diffondono tramite un messaggio WhatsApp. I ragazzi aprono il link e compilano. Magari vacillano un po’ di fronte alla dicitura “legge 194” - «che roba è?» - ma una volta compreso che i quesiti riguardano l’interruzione di gravidanza, i dieci interrogativi si diffondono con un passaparola via chat. Da nord a sud, in dieci giorni, al sondaggio proposto in forma anonima dall’Espresso aderiscono 1.500 ragazzi con un’età compresa fra i 15 ed i 18 anni: il 61.4 percento sono femmine, il 35.9 sono maschi. Sono passati 40 anni da quando le adolescenti scendevano in piazza mostrando cartelli con su scritto “l’utero è mio e lo gestisco io”. E molte cose sono cambiate. In meglio, se parliamo di diritti, di leggi, di pillole d’emergenza. Ma anche in peggio, se parliamo di consapevolezza “politica”, conoscenza del problema, dialogo per affrontarlo. Dalle 1.500 risposte, ad esempio, emerge una generazione spaccata: il 58,5 si dice favorevole alla libertà di interrompere la gravidanza mentre il 25,6 è contrario e il 15.9 non ha alcuna opinione in merito. Con differenze geografiche forti e inquietanti: al sud la maggior parte degli intervistati sono contrari, al nord molti si dicono favorevoli ma vedono l’interruzione di gravidanza come «un diritto ormai acquisito e per questo scontato». Dei contrari, il 45,2 per cento si dice tale «per motivi etici», il 40,8 «per motivi personali» mentre il 14 percento «per motivi religiosi». Non tutti sono così, s’intende. Specie nelle grandi città. In un liceo alle porte di Roma, c’è Chiara che ha lo zainetto calato su una spalla, il braccio destro stringe il vocabolario di latino: «È giorno di versione», dice ansiosa. Non ha ancora diciotto anni ma il sesso non le è certo sconosciuto, come del resto per quasi tutte le sue compagne di liceo. Insieme a lei ci sono due ragazze: una è appena maggiorenne, l’altra frequenta la sua stessa classe. «Per me l’aborto è un diritto essenziale», dice una. «Alla ine il corpo è tuo e per quanto il figlio sia di entrambi, quella che deve fare la parte difficile è la donna». Al trio si aggiunge un’altra adolescente dello stesso liceo: «Io conosco una ragazza che ha deciso di non tenere il bambino, penso che alla ine abbia fatto bene perché a 16 anni non abbiamo la maturità per crescere un figlio». Prevale la volontà di continuare con gli studi, di considerare la gravidanza un ostacolo troppo grande per il proprio percorso di vita: sono questi i principali motivi che spingono un adolescente a voler abortire. «Ma c’è chi», dice una di loro, «invece decide di proseguire perché non vuole mettere ine a una vita”. In Italia i dati sono chiari: siamo il paese europeo con il minor numero di aborti tra i giovani. L’ultimo report pubblicato dal Ministero della Salute e datato 2016 parla di «2.596 interruzioni di gravidanza tra giovani che non hanno ancora compiuto 18 anni, con livelli più elevati nell’Italia centrale». È invece in crescita costante il cosiddetto fenomeno delle “baby mamme”, giovani che partoriscono tra i 15 ed i 20 anni: in base agli ultimi numeri pubblicati si parla di più di 20 mila madri minorenni nel nostro Paese. Tra gli adulti del domani c’è chi addossa la colpa proprio ai limiti della legge 194: l’aborto senza il consenso dei genitori passa attraverso l’approvazione del giudice tutelare che entro cinque giorni, come previsto dall’articolo 12, valuta la situazione e concede o meno alla minorenne la possibilità al trattamento chirurgico. Molti non conoscono la procedura e di fronte alla parola “giudice” restano interdetti. Una ragazza si infiamma: «Credo sia una decisione da prendere senza chiedere il permesso dell’autorità giudiziaria, perché si tratta di una questione personale, a maggior ragione se riguarda un minore, che ha tutti i diritti del mondo di decidere di rifiutare una gravidanza». Un’altra chiede invece «un adeguato supporto psicologico per chi è intenzionato ad abortire, in modo che possa essere il più informato e consapevole sulla questione». Sembra incredibile ma ancora nel 2018 nella scuola italiana l’insegnamento all’affettività e al sesso viene concepito come un argomento scottante, difficile, che è meglio appaltare alle famiglie, almeno stando ai risultati del sondaggio: per il 68.3 per cento l’educazione sessuale non entra in classe perché «è vista dalle istituzioni come un tabù» e solo il 39 per cento afferma di avere appreso tra i banchi di scuola l’uso dei contraccettivi. Se si va oltre la supericfie si scopre che spesso, anche quando c’è, l’educazione sessuale consiste in una sola lezione in tutti i cinque anni della scuola superiore. Uno studente di un liceo classico di Lodi accusa: «I progetti sono di poche ore e spesso decisamente parziali. Spiegare la sfera della sessualità è un percorso lungo, non ci si può limitare a mostrare quali sono i metodi contraccettivi». Si aggiunge una ragazza di Perugia: «La preside del nostro liceo aveva iniziato un percorso, ma questo si è interrotto dopo che alcuni genitori hanno protesto, ritenendo inopportuno che a scuole si insegnassero “certe cose”». Nel rapporto “Policies for sexuality education in the european union”, pubblicato dal Dipartimento Direzione generale per le politiche interne del Parlamento Ue, si scopre che l’Italia è uno dei sette paesi dove l’insegnamento all’educazione sessuale non è obbligatorio per legge: «Colpa», si legge nel documento, «dell’opposizione della Chiesa cattolica e di alcuni gruppi politici». Nel 1991 (cioè 27 anni fa!) il Parlamento tentò la svolta con un disegno di legge che introduceva l’insegnamento all’affettività con un modulo specifico durante le ore di biologia, ma la proposta naufragò e da allora nessuno ha più posto il problema. Sicché a portare l’educazione all’affettività nelle scuole, a volte, sono gli stessi studenti: come nel caso della Rete degli Studenti Medi che durante alcune assemblee d’istituto, organizzate in varie scuole italiane, ha invitato degli esperti per parlare con i ragazzi, consapevoli del fatto che - se il rapporto con i genitori non è solido e il senso di vergogna prende il sopravvento - per molti non resta che il web. Già: i forum pullulano di richieste d’aiuto di adolescenti allarmati che chiedono cosa devono fare in caso di gravidanza. Una ragazza spiega: «Internet mi dà la possibilità di trovare le informazioni necessarie che non sarebbero reperibili altrove. Naturalmente trovare siti e fonti affidabili non è facile, ma si riesce». Un’altra aggiunge: «Dal momento che nelle famiglie si discute poco di questi argomenti, può capitare che qualcuno preferisca cercare soluzioni sul web a problemi imbarazzanti». Così accade che “dottor Google” prenda il posto dei consultori, spariti dalla vista. Solo il 9,7 per cento dei ragazzi riferisce di avere varcato la soglia di un consultorio almeno una volta e solo per il 6,3 per cento «i consultori funzionano». Quasi un ragazzo su due nemmeno sa rispondere alla domanda. Uno studente di Catanzaro dichiara di non sapere neanche se nella sua città esistono o meno; una ragazza di Roma dice di conoscere pochissime coetanee che hanno deciso di rivolgersi a «uno di quei centri per risolvere un problema». Le risposte al sondaggio sembrano confermare: alla domanda «in caso di gravidanza a chi ti rivolgeresti?» solo il 4 per cento pensa che andrebbe in un consultorio. Una sconfitta pesante per loro ma anche per la generazione precedente: quella che tanto ha lottato per il diritto di averli e di farli funzionare.

l’espresso 6.5.18
Voci dal palazzo
Di Susanna Turco
All’asta l’Unità, ma chi la vuole?


«Toc toc, c’è qualcuno là fuori?». In risposta, il silenzio. Ecco, a proposito di evoluzioni, sparizioni, e destini della sinistra: nel silenzio totale del Partito democratico - un periodaccio, bisogna riconoscerlo - sta per essere messa all’asta l’Unità. Per la vendita dello storico giornale fondato da Antonio Gramsci, e chiuso da quasi un anno, manca solo un passaggio: si aspetta che il tecnico incaricato a fine aprile dal Tribunale di Roma depositi la perizia. Poi il giudice procederà. La società editrice del giornale, che fa capo al costruttore Pessina (rilevò il quotidiano nel 2015, epoca di pieno trionfo renziano), si è rifiutata di liquidare ai giornalisti e ai poligrafici licenziati gli stipendi arretrati: inutili le pressioni e le ingiunzioni di pagamento del Tribunale. Così, a dicembre 2017 è stata pignorata la testata. Quindi, in aprile, è partita la procedura per la messa in vendita. Ma i tempi sono strettissimi: poco più di un mese - come rivela il sito Strisciarossa.it. A giugno, infatti, passato un anno dallo stop alle pubblicazioni, in base alla legge sulla stampa decadrà l’efficacia della testata: chiunque potrà registrarne una nuova, chiamata l’Unità. Di qui, alcuni timidi appelli di ex giornalisti, in stile particella di sodio (toc toc, c’è qualcuno la fuori?) affinché qualcuno si incarichi dell’impresa ed eviti «che la testata finisca in mano al primo che passa».
Ps: fuori dai giochi è già rimasto l’archivio storico dell’Unità, un patrimonio che va dal febbraio 1924 al 2017. Oscurato online già dai tempi della chiusura, resta a disposizione dell’editore, non si sa bene perché.

l’espresso 6.5.18
La traversata del deserto/5
La discussione sulla sinistra prosegue qui con l’intervento di Loris Caruso (ricercatore in sociologia politica alla Scuola Normale Superiore) e di Davide Vittori (collaboratore del Cise, Centro italiano di studi elettorali). Entrambi sono animatori de Il Cantiere delle idee.
Nostalgia dello Stato
Quali paure e quali speranze ha oggi “il popolo”? Una ricerca sul campo ipotizza alcune risposte. Di cui ogni futura sinistra dovrebbe tenere conto
di Loris Caruso e Davide Vittori


La crisi delle socialdemocrazie europee si è concretizzata nelle urne nell’ultimo quinquennio, ma ha radici più lontane. I partiti socialdemocratici non hanno tentato semplicemente di divenire il partito della classe media. Dagli anni ’90 hanno cessato di essere alternativi ai partiti conservatori e liberali. Sono diventati parte di un “cartello elettorale” ben introdotto nelle élite economiche e sempre più privo di base sociale. Non sorprende quindi che durante la recessione siano stati partiti esterni a questo “cartello” ad aver denunciato la sostanziale indifferenza tra le varie proposte offerte dai partiti socialisti. Da un lato, la congiuntura economica e la cosiddetta crisi migratoria hanno fornito ai partiti della destra radicale la perfetta combinazione di welfare nazionalistico e valori tradizionalisti (se non xenofobi). Dall’altro, in alcuni Paesi nuove forze a sinistra della socialdemocrazia hanno catalizzato il malcontento nei confronti di politiche economiche restrittive, proponendo una variante inclusiva e progressista di “populismo”: Podemos, Syriza, La France Insoumise, il Blocco di Sinistra (in Portogallo), il Labour di Jeremy Corbyn e partiti come i GroenLinks olandesi e il Partito dei Lavoratori del Belgio, hanno ottenuto risultati elettorali significativi contrapponendo al nazionalismo della destra proposte capaci di attrarre un elettorato eterogeneo. La corruzione, il rinnovamento delle istituzioni nazionali ed europee, l’ambientalismo e piattaforme anti-austerità non focalizzate solo sulla questione lavoro hanno fornito una spinta ancora maggiore rispetto alle mobilitazioni alter-globaliste dei primi anni 2000. Non è un destino, insomma, che nella crisi cresca solo la destra. Ma non può essere questo un alibi per la sinistra italiana. In Italia, con la trasformazione del Pd in partito della Terza Via blairiana e i governi di coalizione con partiti di centrodestra, il “cartello” tra Pd e partiti liberali si è strutturato per un quinquennio. Il Movimento 5 Stelle è così diventato il principale partito europeo “anti-cartello”, facendo leva su temi (costi della politica, rinnovamento delle istituzioni e anti-corruzione), considerati poco rilevanti dalla sinistra. Quando questi temi sono divenuti centrali nelle campagne elettorali, il M5S è apparso l’unico attore credibile per interpretarli, diventando il punto di riferimento dell’elettorato delle regioni più povere. Sebbene le sinistre abbiano tentato di interpretare tali stimoli esterni, esse sono apparse, nella migliore delle ipotesi, copie sbiadite del loro passato. Proprio su questo punto - il rapporto tra “il popolo” e la politica, che sembra diventato il nodo centrale dei problemi della sinistra - si è svolta una ricerca realizzata da una rete di ricercatori e attivisti (“Il Cantiere delle Idee”). La ricerca parte da due osservazioni. Primo, la sinistra fa sempre più fatica a raggiungere il voto popolare, come hanno ancora una volta mostrato le ultime elezioni italiane. Secondo, da anni media e forze politiche insistono a evocare e interpretare “il popolo”, spesso nell’accezione di “ceti popolari” o classi deboli. Tutti sembrano sapere, o fanno mostra di sapere, quali sono le necessità, le domande inascoltate, le rappresentazioni e le convinzioni del “popolo”, eterna terra di conquista dei media, delle imprese e della politica, che al “popolo” devono vendere, ciascuno, il proprio prodotto. Nessuno, però, sembra voler ascoltare direttamente e in modo approfondito questo popolo, al di là dei sondaggi. È ciò che si è proposto di fare il Cantiere con questa ricerca, basata su interviste fatte ad abitanti dei quartieri popolari di quattro città italiane: Milano, Firenze, Roma e Cosenza. Con gli intervistati si sono fatte conversazioni strutturate sulla loro condizione sociale e sul modo in cui se la rappresentano, sulle figure sociali a cui attribuiscono i problemi propri, del proprio quartiere, della città in cui vivono e dell’Italia, su ciò che pensano della politica esistente e di quella che vorrebbero, della destra e della sinistra, dello Stato e dell’economia. Possiamo qui descrivere solo a grandi linee alcuni risultati della ricerca. Innanzitutto, la sinistra è considerata sostanzialmente inesistente. Alcuni intervistati faticavano perfino a capire la domanda: “chi rappresenta la sinistra in Italia?”. Non perché non avessero presente la distinzione tra destra e sinistra, ma perché non avevano idea di chi collocare nella casella sinistra. Anche tra chi si ritiene progressista, domina un’assenza di riferimenti ideali, di partito e di leadership. Come ci si poteva aspettare, i sentimenti e le parole che gli intervistati associano alla politica italiana sono quelli della sfiducia e dell’assenza di riconoscimento e di aspettative. Alla politica esistente ci si riferisce con termini che a volte si avvicinano al disgusto. Ai politici non viene mai attribuito uno status di autorevolezza o prestigio. In nessuna intervista è emersa un’adesione convinta a qualche forza politica. Si vota contro qualcosa o qualcuno e, soprattutto, senza avere aspettative (nemmeno tra chi vota M5S). Eppure si vota. Tutti gli intervistati ritengono che la politica, le istituzioni, lo Stato e perfino i partiti, siano utili o debbano tornare a esserlo. Resiste una fiducia nella democrazia, nella rappresentanza e quindi anche nella partecipazione elettorale. Si spera che nascano nuovi partiti a cui si chiede di essere seri, coerenti, e capaci di proporre una visione d’insieme dello sviluppo sociale. Si ha bisogno di “griglie” per capire e muoversi nel presente, e si pensa che sia la politica a doverle offrire. Se la politica esistente è condannata, non lo è la politica in quanto tale. Anzi, la si rimpiange. Soprattutto, emerge una richiesta di Stato. È lo Stato che è indicato sia come grande assente che come entità che potrebbe e dovrebbe risolvere i problemi da cui le persone sono colpite (tra i più segnalati: il lavoro, non solo perché non c’è, ma anche perché si lavora male e si guadagna poco; il reddito; le diseguaglianze; la casa; la sicurezza in tutte le sue accezioni, da quella che si pensa derivi dall’“emergenza immigrazione” a quella legata ai pericoli, molto sentiti, della microcriminalità, ino alla sicurezza sociale). Lo Stato è invocato anche indirettamente, come “luogo” necessario di coordinamento e armonizzazione di una vita sociale percepita, quasi unanimemente, come uno stato di natura, una giungla in cui si lotta, tutti contro tutti, per la sopravvivenza. Allo Stato si chiede di ricostruire una vita civile, un rapporto di reciprocità e di cooperazione tra le persone e tra i cittadini e le istituzioni. Si chiede, in una parola, di “ridare forma” a una società sentita come informe e pericolosa, in cui non solo il potere e le élite, ma anche le persone da cui si è circondati nella vita quotidiana, appaiono spesso sfuggenti e senza volto. È la richiesta di un ritorno alla funzione antropologica fondamentale delle istituzioni: tenere insieme le persone e dare una prevedibilità alla vita sociale. Dalla ricerca - che sarà presentata il 19 maggio a Firenze - emergono alcune prime indicazioni su come pensare una sinistra che sappia rendere popolari i propri valori. Ci piacerebbe che il lavoro iniziato dal “Cantiere delle Idee” possa essere uno stimolo per andare oltre.
Per informazioni, è appena nata su Facebook la pagina “Il Cantiere delle idee”; mail: info@cantiereidee.it.

l’espresso 6.5.18
Le idee
Dis-education
L’abuso dell’inglese. Il modello aziendale. Così il ministero distrugge la scuola
di Raffaele Simone


Tra le tante iniziative in ricordo di Tullio De Mauro che stanno avendo luogo a un anno e poco più dalla sua scomparsa, non mi pare di averne vista nessuna dedicata a una delle imprese a cui teneva di più. Parlo della sua testarda speranza che l’amministrazione italiana potesse finalmente imparare, se non a parlare, almeno a scrivere in modo civile e affabile. A questa speranza dette corpo tra l’altro promuovendo il “Manuale di stile dei documenti amministrativi” di Alfredo Fioritto (2009). Se la ministra Fedeli, che in più occasioni si è fatta paladina della memoria di De Mauro, se ne fosse ricordata, dai suoi uffici non uscirebbero documenti come il raggelante Sillabo (sic) per l’educazione all’imprenditorialità destinato alle scuole medie di secondo grado, che ha fatto scalpore il mese scorso. Il Sillabo, che è accompagnato da una circolare non meno raggelante, è infatti gremito di espressioni inglesi fitte fino allo stordimento: molte inutili, parecchie oscure, altre platealmente ridicole. Su questo punto è insorta l’Accademia della Crusca, che vigila sulla comunicazione pubblica segnalando eccessi, abusi e sfondoni. Secondo l’Accademia, il Sillabo sembra promuovere, più che lo spirito imprenditoriale, «un abbandono sistematico della lingua italiana». Un vero scoramento deve aver colto l’Accademia, se, alla ine della nota sul Sillabo, gettando la spugna, dichiara che «in considerazione della gravità del modello linguistico-concettuale offerto dal Sillabo» rinuncia del tutto a proporre soluzioni italiane alternative. È chiaro che per rieducare l’amministrazione italiana (nel linguaggio e in altri ambiti) non è bastato lo scrupolo di De Mauro né basta la devozione che la ministra gli dichiara. La Crusca però ha segnalato con discrezione un altro aspetto critico del Sillabo: oltre che la lingua in cui è scritto, a creare allarme sono i concetti di cui è intessuto. Il itto documento (11 pagine) infatti non è che una tetra lista di frasi all’infinito (alcune senza neanche quello), divise in gruppi tematici e messe in fila quasi come giaculatorie, che non dicono nulla a chi si aspetta che i discorsi contengano un senso complessivo. Ci vuol poco a immaginare che il Sillabo non è che la svelta messa in pagina di uno di quei Power Point che psicologi e consulenti aziendali usano a sostegno delle loro chiacchierate. Riporto qui alcuni campioni pescati a caso, con miei concisi commenti tra parentesi: «Comprendere l’importanza di avere una visione su possibili scenari futuri e loro concrete attuazioni (ovvio, banale). Condividere le passioni personali con il resto della classe anche attraverso giochi di ruolo, quiz individuali e lavori di gruppo (i quiz come strumento per condividere le passioni personali?). I pilastri di un’idea: rispondere ad un’esigenza e creare una soluzione originale (banale).» In qualche caso, si sfiora la scrittura automatica: «Personas: costruire gli archetipi degli stakeholder correlati ad una sida/idea specifica (beneficiari, clienti, ecc.) a supporto dell’implementazione di un’idea. Comprendere le caratteristiche e le potenzialità della co-progetta zione, anche attraverso approcci di design thinking e sfruttando tecniche di prototipazione rapida.» Di queste massime, nel documento ne trovate centinaia, il che rende la lettura a dir poco disperante. Ma gli estratti che ho dato qui sopra mostrano che il punto dolente del Sillabo non è tanto la cascata di espressioni inglesi, e neanche l’inondazione di platitudes che contiene. È piuttosto il modello di cultura che ne trapela. Cerco di darne una prototipazione rapida. Il mondo avanzato è avviluppato da tempo da una spessa coltre di cascami di cultura aziendal-economica (e del connesso linguaggio), originata nei dipartimenti di management statunitensi e poi spruzzata in forma degradata su tutti gli ambienti operativi. Il destinatario di qualunque servizio (alunno, passeggero, ammalato, detenuto) è ormai un cliente (o anche un customer), l’ente che gli assicura il servizio è un’azienda, la soddisfazione dell’utente è la customer satisfaction, le figure professionali che intervengono sono gli attori (o i players), il risultato è creazione di valore, bisogna essere non più attivi ma proattivi, la ricerca di finanziamenti è un fundraising e così via. In questo universo l’inglese è a casa sua per una sua speciale proprietà: un banale termine inglese messo al posto di uno italiano comune dà di colpo l’impressione di essere un ineludibile termine tecnico, magari elaborato in qualche laboratorio californiano e raffinato da anni di uso specialistico. In questo modo il senso comune (banalità incluse) viene spacciato facilmente come scienza avanzata.
Ciò che più ci interroga, però, è il fatto che su questa base culturale si son costruite imprese potenti e aggressive, il cui business è ormai fiorente su scala mondiale. Uno dei settori più permeabili è la scuola o (come è meglio dire seguendo il Sillabo) l’education, da tempo diventata un ghiotto obiettivo (o target) per i privatizzatori di tutto. Ad aprire la strada è stata la digitalizzazione, che, data la vastità della popolazione che abita la scuola, fa gola a molti. Soprattutto a quel che chiamo il blocco educativo-computazionale, il temibile complesso di multinazionali 4.0 tra informatica e media che stanno divorando tutto ciò che sul mondo della scuola si impernia: case editrici, attività di formazione, arredamento e equipaggiamento, strutture per il tempo libero. Possono contare sull’ingenuità o la furbizia dei decisori e sull’entusiasmo da neofiti dei professionisti della scuola, che in questo modo si sentono moderni. Molte delle lavagne elettroniche (LIM) che inondarono l’Italia una decina di anni fa giacciono abbandonate, ma furono ugualmente piazzate a tremila euro ciascuna. Da tempo in mezzo mondo si preme per riempire le scuole di tablet, che un’ideologia entusiastica diffusa presenta come il rimedio di tutti i mali. La nostra Fedeli ha perfino insediato una commissione che indichi come sfruttare il telefonino a scopo didattico. Ai tempi della sua predecessora, la ministra Giannini, il Miur sbandierò un accordo con TED, multinazionale dell’education, per tenere nelle scuole corsi di public speaking. Si tratta di un’organizzazione statunitense «votata (diceva il comunicato stampa) alle idee che meritano di essere diffuse» (sic). E cos’era il Public speaking? Nient’altro che il più noto “parlare in pubblico” o, con termine desueto, l’oratoria, che la multinazionale aveva riscoperto e trasformato in sillabo per piazzarla nelle scuole. Non so che ine abbia fatto quell’accordo, ma ricordo che il pacchetto comprendeva anche un concorso finale, il TEDxYouth, «rivolto a tutti gli studenti italiani delle scuole superiori che potranno candidarsi e raccontare le proprie idee in un “discorso” di 18 minuti in 11 diverse categorie.» Nemmeno gli insegnanti sono risparmiati, se si lasciano tentare dal Global Teacher Prize, organizzato da una Varkey Foundation, che designa il miglior insegnante del mondo! Il Sillabo della Fedeli ha fatto giustamente insorgere l’Accademia della Crusca. Dovrebbe però fare effetto anche ai cittadini, perché è un segnale minuto ma eloquente dello spirito aziendalistico e privatizzante che sofia sull’Occidente e ne sta ristrutturando le istituzioni.

l’espresso 6.5.18
Ribelli in nome della terra colloquio con Paolo Giordano e Roberto Saviano
di Sabina Minardi
La rivoluzione. I sogni. La natura. La fede. E l’impegno degli intellettuali. Due scrittori si confrontano sui temi del Maggio francese. 50 anni dopo


Comincia con uno scambio di letture: Roberto Saviano suggerisce Mark Fisher, “Il Realismo capitalista”, la sfida è «immaginare un mondo che non esiste più». Paolo Giordano propone Wolfgang Streeck, “Come finirà il capitalismo?”: «Il problema è immaginare il dopo».
Intanto, qui e ora, arriva in libreria “Divorare il cielo” (Einaudi), l’ultimo romanzo di Paolo Giordano. L’occasione per un faccia a faccia tra due protagonisti della generazione anni Ottanta. E si capisce subito che il dialogo andrà lontano: tra responsabilità e disimpegno, desiderio di sacro e ideismo tecnologico, le pagine del libro - il sogno alternativo di un gruppo di ragazzi che diventano adulti intorno a una masseria pugliese - guidano un percorso di temi comuni. E di atteggiamenti che più agli antipodi non potrebbero essere: Saviano immerge le mani nella vita, a partire dal marcio. Giordano la osserva con distacco: perché siano fantasia e preveggenza a guidare il suo racconto. Sullo sfondo, quel maggio francese che esattamente 50 anni fa incendiò le strade di Parigi, diede la parola a studenti e operai, illuse tutti di un cambiamento radicale. E lasciò un falò di sogni: realizzare un mondo giusto, amare senza convenzioni, rispettare l’ambiente e la natura. Gli stessi ideali di Bern, Tommaso, Nicola e Teresa, gli adolescenti di Giordano che rinnovano il sogno di vivere liberi e di condividere tutto, persino la stessa ragazza. Finché non si ritrovano spalle al muro. E allora il collettivo ritorna individuale, sul pubblico prevale il privato. Credo che questo romanzo chiami in causa di continuo il tema della responsabilità. Cosa vuol dire essere responsabili oggi: come generazione, come individui? Saviano: «Ho trovato l’operazione letteraria di Giordano molto coraggiosa. Da equilibrista, quasi: ha affrontato il tema del rifondare un mondo dentro una dinamica comunitaria e il tema ecologista senza mettere in ridicolo chi lo pratica oggi in modo quasi mistico: penso ai melariani, ai seguaci di Osho, ai davidiani. Giordano smonta l’illusione di poter essere veramente diversi. Da un lato dà l’impressione che l’unica strada per la libertà sia fuggire dalla responsabilità, dall’altro affida a questo gruppo di persone il compito di fondare una nuova forma di responsabilità: un nuovo rapporto con la natura, coi sessi, di fratellanza. Ma scatta un corto circuito: l’idea del fallimento è implicita in loro. È come se tutti sapessero che qualunque sarà la scelta non potrà che andare male. Anch’io ho trovato la responsabilità il centro del romanzo. Ma è un “assalto al cielo”, per citare il Maggio francese, che la condizione umana zavorra: non c’è speranza di spiccare veramente il volo». Giordano: «Non mi ero reso conto che il fallimento fosse un’idea così intrinseca. Avevo chiaro che questi ragazzi reiterano la stessa dinamica per tutto il libro: Bern ricerca la fede persa e la reincarna ogni volta in un credo differente. Ma che ci fosse un fallimento a priori nel suo modo di fare è una falla inconscia. E una differenza sostanziale con l’idea di cambiamento concreto predicato nel ’68». Il maggio francese, in realtà, è stato letto da molti come un fallimento. Ma anche il misticismo del romanzo richiama il ’68: penso alla figura del santone Cesare, una specie di sadhu indiano, che predica la metempsicosi. Come le è venuto in mente? Giordano: «Un paio di anni fa ho cominciato a interessarmi a una storia che aveva al centro un guaritore. E un tema sul quale riletto da tempo è l’assenza di fede di oggi. Se osservo i miei coetanei tutti hanno un guru, che sia l’osteopata o lo psicanalista, e inseguono forme di guarigioni personali che sfamano quella parte di assoluto che manca. Lentamente il personaggio di Cesare è diventato anche quello del padre, la cui assenza è un mio tipico tema». Saviano: «Il punto di vista di un mondo nuovo, mistico, in effetti si riallaccia a un pezzo dell’insurrezione movimentista degli anni Sessanta. Penso alla vicenda di Mauro Rostagno, che ho sentito riecheggiare dentro il libro. Visto il fallimento della possibilità di riformare la società attraverso il socialismo, la reazione è stata realizzare il cambiamento dentro di sé. Tiziano Terzani fu maestro in questo, perché riuscì a traghettare una scelta che poteva persino sembrare ridicola in una rivoluzione
interiore. Il libro di Giordano oscilla tra questi due piani: cambiare l’esterno e l’interno. Io invece sono proteso verso il fuori, tendo a raccontare dinamiche esterne. E vedo oggi un rapporto col sacro continuamente condizionato da aspetti contingenti. Persino la forma più folle, il radicalismo islamista che porta a morire, nella realtà non ha nulla di metafisico, perché prevede una ricompensa con tanto di vergini, di droga, di riscatto dal ghetto. Nelle pagine del libro c’è una riflessione sulla ricerca di un assoluto che vada oltre il profitto e lo scambio. Le generazioni precedenti più facilmente hanno trovato una strada verso il trascendente. Oggi è impossibile: c’è sempre qualcosa che ti ricorda che ciò in cui stai credendo non vale la pena». C’è un vuoto di sacro. Ma anche di sogni. I ragazzi del maggio francese, “The Dreamers” di Bernardo Bertolucci, forse non sapevano come conquistare il potere, ma di certo sapevano sognare. La sera del 6 maggio 1968 migliaia di ragazzi inondano il Quartiere Latino. La piccola bastiglia di Nanterre ha acceso la miccia e un fiume di giovani festosi invade gli Champs-Élysées, canta l’Internazionale, chiede la riforma dell’università e salari più giusti. Anche i protagonisti del libro fanno sogni grandi. Perché i ragazzi, di fronte a ingiustizie continue, non scendono più in piazza? Giordano: «Io non scendevo in piazza neanche al liceo, quando si manifestava contro la globalizzazione. A 17 anni sentivo tutto troppo astratto. E non prendevo parte alle manifestazioni perché mi sembrava una forma di omologazione». Saviano: «È interessante questa tua esperienza, che nel libro ti ha permesso di avere una posizione non ideologica. Se guardi i libri su chi ha tentato l’assalto al cielo c’è sempre una simpatia, una nostalgia. A partire dagli avversari contro cui ci si scagliava, che erano giganti: penso ad André Malraux, antifascista, eppure visto come l’establishment nemico della fantasia al potere. C’è nostalgia per quella gioventù, per la libertà dei corpi in cui credeva. Oggi non è che si sia persa la voglia di stare in strada: è diventato un gesto conformista, sono d’accordo. Anche se io, da studente, manifestavo: però con l’illusione di farlo in modo diverso. Non volevo far parte di una comunità, volevo entrare in una comunità per cambiarla». Giordano: «Tu scendevi in piazza, io no. Si vedeva quello che saremmo diventati». Saviano: «Credo che oggi il web abbia sostituito la partecipazione isica. Anche in bene. Qualche settimana fa è partita in Italia l’iniziativa del selie con la mano sul volto. L’ho innescata io per denunciare gli attacchi con gas in Siria. Non ha inciso sui fatti, però ha generato consapevolezza. Al tempo stesso il web dà spazio a odio e superficialità, per il solo fatto della distanza fisica tra le persone: la stessa gente che ti insulta diicilmente ti direbbe quelle cose in faccia, probabilmente te ne direbbe di più interessanti». Giordano: «Sono diverso da te anche in questo: mi tengo fuori dalla piazza del web perché questa furia mi atterrisce. Bisogna avere gli enzimi per stare dentro questa lotta. Io ne vengo annichilito. Però Assalto al cielo dalla masseria “Divorare il cielo” (Einaudi), il nuovo romanzo di Paolo Giordano, arriva in libreria l’8 maggio. Sarà presentato al Salone del Libro di Torino sabato 12 maggio alle 18,30. Dialogherà con l’autore Manuel Agnelli. Anche Roberto Saviano, il 12 maggio, sarà protagonista di un appuntamento al Salone del libro. In un incontro (ore 17) intitolato “Dal reale al seriale”, lo scrittore farà il punto sul mondo narrativo che ha costruito sulle pagine dei suoi libri e, da lì, sugli schermi: da Gomorra ad altri progetti in corso. Insieme con lui Alessandro Cattelan e Francesco Paciico. Q Foto: M. Frassineti - Agf, M. Chianura - Agf ho l’impressione che non sia la stessa cosa delle rivolte di una volta: la condivisione di corpi è diversa dall’anonimato». Ha preso parte a proteste ambientaliste, per raccontarle nel libro? Giordano: «No. Una cosa che io non faccio mai prima di scrivere è documentarmi: voglio evitare di sentirmi inchiodato ai fatti. Sono andato una volta a vedere un presidio contro l’abbattimento degli ulivi a causa della xylella. Però tutta la ricerca di documentazione l’ho fatta dopo: solo per vedere se c’erano stati episodi ai quali mi ero avvicinato. Per me scrivere è presagire, siorare qualcosa senza ancora conoscerlo». Saviano: «È interessante: come scrittore riconosci l’impossibilità di cambiare il mondo, e cerchi di comprometterti il meno possibile. Tutta la tua letteratura è così. Tu hai detto: io non mi documento mai. Mentre io perdo la vita a documentarmi. E mentre tu facevi questa afermazione, io sentivo l’enorme senso di liberazione. I nostri obiettivi sono diversi: lo scrittore non vuole essere aggredito dalla realtà, vuole sentire le emozioni e non farsi condizionare. E anche i tuoi personaggi agiscono così: cercano un modo decente per vivere, senza fare del male agli altri, ma senza neanche sforzarsi di cambiare il mondo. Rispecchiano la contemporaneità. Mi spiego meglio. Oggi si dibatte sui limiti enormi di fronte alla tecnologia. Se io ho bisogno di dormire 8 ore per stare bene, cosa me ne faccio di una massa di informazioni che dovrei ottenere senza mai fermarmi? Deve cambiare l’uomo. Nella testa di un ragazzo di 15 anni, la tecnologia è uno spazio ininitamente superiore rispetto a quello che può ottenere nella politica e nella società. E questo è terribile, perché in realtà la tecnologia da sola non porta a nulla». La rivoluzione si è spostata su un piano personale. E le utopie che fine hanno fatto? Saviano: «L’utopia, cioè il sogno di una cosa per citare Marx e Pasolini, si realizza nella possibilità individuale di cambiare: tua, della tua famiglia, della tua cerchia di amici. Nella società del web, dove persino il sesso è un gesto conformista, la nuova utopia diventa poter risolvere il tuo quotidiano. Senza un’idea, se non marginale, di riscatto e di emancipazione».
Giordano: Mi appassiona questo aspetto della tecnologia, probabilmente perché provengo dal mondo della fisica. Nel libro c’è un punto non casuale, quando i protagonisti passano dall’utopia dell’agricoltura sostenibile in masseria alla ricerca dell’inseminazione artificiale a Kiev. C’è discontinuità etica fra le due cose, che però non avvertono perché, cambiato il desiderio, hanno mutato anche i parametri etici. È un rischio che sento. Nel senso che abbiamo tanti desideri, in continuazione, a ogni età, moltissime possibilità per realizzarli, e per questo adattiamo continuamente i nostri valori». «La verità è morta. È una lettera dell’alfabeto, una parola, un materiale che posso utilizzare», dice un personaggio nel libro, a sottolineare questo relativismo. Ma trovare nel cambiamento personale la strada per la rivoluzione non è il contrario di quello che ha sempre chiesto lei, Saviano: la necessità di schierarsi, uscire allo scoperto? Saviano: «Ogni cambiamento, sociale e politico, nasce e pretende un cambiamento individuale. Io, da scrittore civile, non ho mai avuto grandi speranze nella trasformazione dei molti, piuttosto grandi speranze nella consapevolezza dei pochi: cioè che la consapevolezza che vado a cercare occhio nell’occhio, mano nella mano, sia l’inizio di un percorso lungo e complesso. Ma oggi tempo e complessità suscitano diffidenza. Se ha bisogno di tempo, come i libri, diventa superfluo. Oggi la logica che percepisco è che sia meglio una cosa fatta male ma subito, invece che fatta bene ma con un po’ di tempo in più. Perché se hai un’idea devi sbrigarti, o ci sarà qualcuno che ne avrà una simile e prima di te. Perciò cambiare nella propria interiorità non è in contraddizione, è la premessa per un cambiamento sociale. Va aggiunto che l’idea di cambiamento è sempre più delegata a strumenti: alle app, ai software. Siamo fuori dal campo delle scelte politiche. Questo succede ai protagonisti del libro: la scelta etica iniziale - rispettare l’ambiente, vivere in una comune - alla fine si sposta verso la manipolazione genetica, la ricerca della vita a tutti i costi. Perché siamo dentro un mondo così complesso che le scelte individuali non riescono a resistere. Ecco perché comportamenti come il non mangiare carne sembrano risposte dogmatiche, mistiche, a problemi irrisolvibili». Giordano: «Mi fai pensare a un libro bellissimo, “La vegetariana”, della coreana Han Kang. La protagonista diventa vegetariana con questo spirito: impongo almeno la mia volontà su questo piccolo pezzo di orticello che mi appartiene, il mio corpo, perché ho un’impossibilità totale di incidere sull’esterno. Nella realtà avviene di continuo: ci sono utopie intelligenti disseminate per la Puglia o in Campania, dove forme di agricoltura sostenibile sono il rilesso di persone che hanno studiato, ragionato, e impongono la loro volontà sull’unica cosa che possono controllare ancora: un fazzoletto di terra. Siamo lontani dai sogni del ’68. E mi colpisce la tua consapevolezza sull’impossibilità di coltivare oggi la complessità. Io vedo in te, al contrario, una persona che si comporta come se spinto da una fede». Saviano: «La fede è che un buco nella rete ci sia. E che laddove c’è uno spazio di condivisione, puoi versare dei contenuti. La sorte di un oggetto che richiede tempo e voglia di complessità come il libro è terriicante perché siamo davanti a dei punti di non ritorno: penso all’ansia da notiica e di non poter controllare WhatsApp, durante la lettura. Per molti anni si è ripetuto che leggere è faticoso, è costoso, c’è l’insidia della tv. Ma gli Cultura Dibattiti Foto: Keystone France - Gamma Keystone / GettyImages spazi c’erano: il letto, l’aereo, il treno, la panchina, il bagno. Oggi sono occupati dal cellulare. Perché continuo a essere positivo? Perché ho l’ottimismo della volontà: credo che immettere contenuti nelle piattaforme possa ancora cambiare qualcosa. Anche se gli efetti non sono misurabili». L’impegno dei protagonisti di “Divorare il cielo” si addensa intorno alla battaglia ambientalista. Ci sono i movimenti di difesa degli ulivi. C’è un’Islanda, rappresentata più che come espressione di natura pura come l’Antropocene realizzato. La difesa dell’ambiente è una direzione che molti esponenti del Maggio francese hanno preso, a partire da Daniel Cohn-Bendit. Saviano: «È vero. L’ecologismo di Cohn Bendit o di Joschka Fischer in Germania o di Alexander Langer si connette al tema delle utopie: di fronte al capitalismo, al socialismo reale che, realizzato, è di gran lunga peggiore della peggiore democrazia, ci si chiede che fare: se cercare la fuga dentro di sé. Oppure salvare quelle risorse di cui anche il capitalismo non può fare a meno: l’aria, il cibo, il rapporto con gli animali, i mari, l’acqua. È una negoziazione: non è più possibile la rivoluzione che abolisca la corsa ai soldi, al proitto. Scelgo una strada ecologica, che permetta uno sfruttamento delle risorse in equilibrio. L’ecologismo diventa una posizione intermedia tra socialdemo crazia e realpolitik e il sogno rivoluzionario totale. Forse l’ultima fede davvero rimasta è quella dei vegani. O di chi decide ogni giorno di separare la plastica dai riiuti…». Giordano: «Come me: io sono un fondamentalista della raccolta diferenziata!». Saviano: «Perché senti che la tua azione può ancora contare qualcosa. Quanto sarebbe più facile dire: cosa cambia se io butto tutto insieme nella spazzatura?». Giordano: «A me l’ecologia sembra l’unico credo davvero egualitario verso il mondo. Riguarda tutti allo stesso modo. I cambiamenti climatici coinvolgono ricchi e poveri del mondo. Ci inchiodano a un’idea di uguaglianza. E con un atteggiamento di realpolitik: non è che noi lottiamo per cancellare il cambiamento climatico, cerchiamo di limitare i danni. È un’etica che ha già incorporato l’idea di fallimento, e fa il possibile per attenuare le conseguenze. Anche questo è un atteggiamento molto contemporaneo». Saviano: «Aggiungo che la possibilità che scelte individuali cambino una comunità e producano un risultato, è complicata da un’altra cosa. In passato chiunque esprimesse le sue idee si trovava di fronte a una comunità propensa a condividerlo o a gente che per il solo fatto di aver speso del tempo ad ascoltarlo si poneva in un atteggiamento di dialettica. Oggi ogni idea viene comunicata attraverso piattaforme che attirano una tale quantità di odio, che qualunque idea, anche la più bella, la più alta, è sottoposta a uno stress che ne renderà diicilissima la realizzazione. Se oggi un poeta avesse postato: “M’illumino d’immenso”, sotto avreste letto: “Ah, sì? Bella cazzata che hai scritto! “Bravo, coi soldi dello Stato scrivi ’ste scemenze”, e cose simili. Che cosa comporta leggere questi commenti? Pressione, ansia: probabilmente il poeta non scriverebbe più gli stessi versi, comincerebbe a negoziare. Se Il Borghese scriveva che Pasolini era un vile e un imbroglione, a leggerlo erano i lettori di quel giornale. Oggi tutti si imbattono con facilità in quell’articolo, che poiché è molto “cliccato” - attenzione, non “comprato” che implica una scelta-, infetta della stessa ferocia altri giornali. Si può ancora resistere? È talmente grande la massa di cose che ci vengono addosso che decidere cosa vogliamo essere, issare i perimetri della nostra vita, è ogni giorno più diicile». È il Sud, come suggerisce il romanzo, il laboratorio delle ultime utopie: di questo modo nuovo, nient’affatto scontato, di stare al mondo? Giordano: «Da uomo del Nord, noto di più le cose del Sud: mi appaiono con più evidenza. Vedo più i contrasti, e quindi anche le cose luminose. Il Sud è estremo in tutto: nella natura, nell’espressività, e anche nel degrado e nei tentativi di reazione. Anche perché lì diventa una questione di vita o di morte». Saviano: «È proprio così. Il sud d’Italia, ma in generale il sud del mondo, e a dirla tutta le periferie dove il diritto non c’è e devi sostituirlo con creatività furbizia genio, ha capacità di stare al mondo superiore. Perché non hai le garanzie, i diritti, non puoi contare su strade già battute. Il Sud in questo momento è in una situazione drammatica, con delle eccezioni rare e fragili: come la Puglia. Sì, è ovvio che il cambiamento debba partire da lì».

l’espresso 6.5.18
Libro
Mario Fortunato
Mistero della notte
Frank Bidart è un grande poeta. Quasi ignoto in Italia. Esce ora “Desiderio”


Ci sono almeno due ragioni per leggere i versi del californiano Frank Bidart (1939). La prima, la più importante, è che una sua raccolta ha appena visto la luce - ed era ora - in Italia: “Desiderio” (Edizioni Tlon, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, pp. 175, € 13,90). La seconda è che Bidart ha vinto il premio Pulitzer 2018 per la poesia. Benché quasi ottantenne, Bidart è praticamente uno sconosciuto in Italia. Il che depone male in primis contro la nostra editoria. D’altro canto, la sua non è certo una poesia facile, o affabile. Né lui ha le amabili caratteristiche del genio sregolato, folle, con spiccate inclinazioni per l’alcol e le droghe e qualche sospetto di accattonaggio, come prescrivono tutti i cliché del settore. Au contraire, il poeta è un maturo professore di letteratura, che ha frequentato le migliori università americane; è gay ma senza farne esibizione teatrale (anche se da giovane aveva cominciato la carriera di attore); scrive versi poco inclini al sentimentalismo, e il suo maestro riconosciuto è Robert Lowell, di cui è stato allievo e curatore dei “Collected Poems”. La raccolta meritoriamente proposta dalle Edizioni Tlon (prima che si sapesse del Pulitzer) è una delle migliori del poeta e risale al 1997. Giustamente, nella sua attenta e bella introduzione, Tommaso Giartosio parla di una poesia che sembra costeggiare (e corteggiare) la psicoanalisi, tuttavia opponendovisi, come sempre ci si oppone a ciò che ci appartiene senza che noi per questo lo amiamo. In effetti, i versi di Bidart sembrano qui e là usare le figure dell’Io e Super-io freudiani soltanto per potersene sbarazzare rapidamente, come strutture psichiche mortificanti e generiche. Mentre sembra trovare le più fresche immagini del sé, ripescandole, o meglio estraendole, come da un pozzo, dall’antichità classica, cioè da quel repertorio mitico a cui la civiltà occidentale appartiene, anche se non lo sa, lo ha dimenticato o smarrito per via. Da questo punto di vista, il lungo componimento che chiude il libro (si intitola “La seconda ora della notte”) è davvero uno dei pezzi più misteriosamente belli della poesia della seconda metà del XX secolo.

l’espresso 6.5.18
Classica
Riccardo Lenzi
Quel genio di mio marito
La biografia mozartiana di Nissen, pubblicata la prima volta dalla vedova


Un curioso, imprescindibile, contributo alla conoscenza di come nasca il mito del compositore del “Flauto magico”, è la prima completa traduzione in italiano della “Biografia di Mozart” di Georg Nikolaus Nissen, originariamente pubblicata da Constanze, vedova del musicista, a Lipsia nel 1828. Zecchini editore già aveva suscitato l’interesse dei fan del Divino con l’intero epistolario familiare in tre volumi (2011) e con il “Diario di Nannerl” (2016), sorella del compositore. Ora alimenta la loro curiosità con questa biografia di Nissen (a cura di Marco Mottura e con la presentazione di Armando Torno) che, per le sue dimensioni imponenti (quasi 700 pagine) e i documenti raccolti, può essere considerata la prima di riferimento dedicata al Salisburghese. Infatti fu preceduta da pochissime, frammentarie pubblicazioni, malgrado fossero passati ben 37 anni dalla morte di Mozart. La prima di una certa ampiezza fu un necrologio di Friedrich von Schlichtegroll (solo 31 pagine) e, nel 1808, quella di Franz Xaver Niemetscheck che in buona parte si rifaceva alla prima. Fu dunque un gran progresso il lavoro di Nissen, diplomatico e scrittore danese e, circostanza decisiva per la riuscita del progetto, secondo marito di Constanze Weber, la vedova di Mozart, che ovviamente fu preziosissima testimone della vicenda terrena del primo sfortunato coniuge e con la quale Nissen convisse dal 1798, per poi convogliarvi a nozze nel 1809. Un altro elemento decisivo fu la donazione a Nissen da parte di Maria Anna (Nannerl) Mozart di circa quattrocento lettere della corrispondenza familiare con il celebre fratello, miniera ricchissima di informazioni che mai nessuno in precedenza aveva avuto a disposizione. Anche i due figli di Mozart, Carl Thomas e Franz Xaver, dettero un modesto contributo di memorie. In coda al volume una raccolta supplementare con un catalogo delle composizioni, un’ampia disamina delle opere teatrali, una descrizione dei ritratti, un’antologia di poesie ispirate dal compositore: alcune veramente brutte. Un feticismo talvolta grossolano dal quale probabilmente nacque la moda che ispirò i bonbon Mozartkugeln.

l’espresso 6.5.18
Timbuctu ritrovata
La furia dell’Isis si è scagliata contro la mitica biblioteca. Ma quel sapere prezioso rinasce ora grazie a Boubacar Sadeck, l’ultimo grande calligrafo
di Andrea De Georgio


Boubacar intinge un bastoncino di legno nell’inchiostro nero pece di un barattolo. Col palmo della mano accarezza più volte il foglio adagiato sulle gambe per assicurarsi che non ci siano granelli di sabbia prima di cominciare a tracciare linee e punti. Attorno a lui alcuni bambini di diverse età ne osservano con attenzione i gesti pacati, cercando d’imitare i tratti del maestro. Timbuctu, perla del deserto a nord del Mali. A pochi passi dalla famosa moschea di sabbia di Djinguereber (XIV secolo) fra i vicoli stretti della Medina le tipiche case d’architettura marocchina si susseguono ordinate, con porte e finestre di legno intarsiato. In una di queste costruzioni a due piani ha vissuto Alexander Gordon Laing, esploratore scozzese, primo europeo arrivato a Timbuctu nel 1826, come ricorda, sopra l’entrata, una sbiadita targa turistica. Oggi questo piccolo edificio del centro ospita l’“Atelier delle arti e mestieri del copista applicate ai manoscritti” di Boubacar Sadeck, ultimo calligrafo della Città Misteriosa. «La calligrafia è un’arte che richiede pazienza. Nel mondo di oggi, invece, i giovani non hanno voglia di aspettare». Parla e si muove lentamente, Sadeck, senza staccare lo sguardo dal manoscritto che tiene in mano. È un uomo sulla quarantina dal portamento elegante, avvolto nell’ampio boubou, veste tradizionale, e nel turbante che gli protegge il volto dal vento del deserto. Seduto a fianco a lui sulla stuoia adagiata sul pavimento del cortile il suo assistente osserva il lavoro degli allievi. Sui muri all’entrata e nella stanza che dà sullo stretto cortile sono appese le opere del maestro: cornici, arabeschi, pelli di montone e lastre di sale dipinte con iscrizioni ricopiate dai manoscritti antichi. Su un tavolo impolverato sono disposte alcune pagine ingiallite del XVI e XVII secolo, un piccolo museo con esempi dei quattro principali stili di scrittura (orientale, saharawi, suqui e marocchina) dei manoscritti antichi, tesoro nascosto della città. Timbuctu raggiunse l’apice nel XVI secolo, l’ “Età dell’Oro” come viene ricordata dai suoi abitanti, sfruttando la favorevole posizione geografica sulla rotta delle carovane che facevano la spola dal Mediterraneo all’Africa occidentale trasportando preziosa mercanzia: sale, oro e libri. Riscopertasi importante snodo commerciale la città, adagiata fra il deserto del Sahara e il fiume Niger, divenne una delle più grandi biblioteche a cielo aperto del pianeta, con oltre 25 mila studenti e ricercatori stranieri. Un corpus di diverse centinaia di migliaia di manoscritti antichi (i più vecchi risalgono al IX secolo) fu ricopiata in arabo, ma anche in diverse lingue africane e in ebraico da una schiera di scribi assoldati da abbienti famiglie della città. Una catena di calligrafi, studiosi e commentatori ha così permesso la trasmissione di un inestimabile sapere che spazia dalla medicina alla poesia, dall’astronomia alla matematica, dalle relazioni internazionali alla religione - ino ai giorni nostri. «A differenza del passato, oggi il lavoro del copista non è considerato nobile perché non è redditizio. Per questo sono rimasto praticamente il solo a praticarlo, qui a Timbuctu. Negli ultimi anni molti calligrafi hanno cambiato lavoro oppure sono andati in pensione senza riuscire a lasciare il proprio mestiere in eredità ai figli». Boubacar racconta la fatica nel trovare clienti oltre che giovani da formare. «Prima della guerra era diverso. Coi tanti turisti che visitavano la città riuscivamo a vivere bene del nostro lavoro». Oggi, invece, a cinque anni dal conflitto franco-maliano contro i jihadisti di Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) che nel 2012 occuparono i due terzi settentrionali del Paese, il persistere dell’insicurezza, degli attentati suicidi e dei rapimenti di occidentali non permettono il ritorno della pace e del turismo, settore economico che dava da vivere a moltissime famiglie. Ultimamente le opere calligrafiche di Sadeck sono state esposte in numerose mostre di arte contemporanea in giro per il mondo: da Atene, per Documenta14, e ino al 20 maggio a Treviso, per una mostra sulla calligrafia in Mali, Niger, Algeria e Libia che ha inaugurato le Gallerie delle Prigioni, nuovo spazio espositivo di Imago Mundi. Nonostante la ribalta internazionale, però, Boubacar non riesce a trovare fondi per il suo centro di formazione che, racconta, «sarà presto destinato a chiudere i battenti». Preoccupato delle sorti dell’atelier di Sadeck alle prese con la modernità è anche Hamou Dédéou, uno dei maggiori esperti di manoscritti della città. Nella sua casa, fra una lezione di arabo e l’altra, l’anziano professore di Boubacar e di tanti altri igli di Timbuctu spiega il valore della calligrafia: «Quando si ricopia un testo a mano, è tutto lo spirito che lavora e concorre alla creazione di un oggetto, il libro, che si nutre dei sentimenti di chi scrive. Ecco perché leggendo e sfogliando un manoscritto si sente subito la magia che contiene. Una fotocopia, invece, è solo un’immagine di un’immagine. È comodo avere una copia istantanea di un testo, ma un foglio che esce da una macchina non ha anima». Hamou cita Leone L’Africano, il quale sosteneva che la ricchezza più ingente di Timbuctu fossero proprio i suoi testi. «I manoscritti sono la carta d’identità di Timbuctu. Sono come una torcia che ci permette di sapere cosa eravamo e dove stiamo andando. Sono il nostro computer. Nei libri è contenuto l’intero sapere del genere umano, non solo le basi dell’Islam: tutto è spiegato, perino il radicalismo e le dinamiche internazionali contemporanee. Basta saper cercare». Per sette anni questo studioso ha lavorato all’Istituto di Alti Studi e Ricerca Islamica Ahmed Baba, la più grande biblioteca pubblica della città, situata nella piazza della Moschea di Sankoré. Q uesta istituzione creata dal governo maliano nel 1973 con la missione di salvaguardare e collezionare i manoscritti della regione, nel 2009 è stata ristrutturata e dotata di tecnologie avanzate (sale refrigerate, deumidiicatori, teche protettive) per la conservazione dei tomi grazie a un inanziamento del Sudafrica di 6 milioni di euro. Nel gennaio 2013, alla vigilia della cacciata di Aqmi dalla città, i jihadisti hanno attaccato il centro. «I “Folli di Dio” hanno prelevato dai nostri locali 4.202 libri, bruciandone un migliaio sul posto e portando via tutti gli altri». Abdoulakri Idrissa Maiga è direttore dell’Istituto dedicato al grande intellettuale di Timbuctu Ahmed Baba. Nel suo ufficio di Bamako, capitale del Mali situata mille chilometri più a sud, Maiga supervisiona i lavori di digitalizzazione. Nella palazzina un gruppo di giovani è incaricato della pulizia e catalogazione dei testi, che vengono fotografati e schedati pagina per pagina. La collezione di questo organismo statale conta circa 50 mila opere, di cui 10.602 si trovano a Timbuctu mentre le altre sono state portate a Bamako fra il 2012 e il 2013, nascoste in casse di ferro e tratte in salvo dalla popolazione, poi trasportate in capitale su moto, piroghe e a dorso di mulo. Un salvataggio leggendario e organizzato in piena occupazione jihadista da tre “eroi” della città: Maiga, Ismael Haidara, il direttore del Fondo Kati, collezione andalusa di manoscritti di Timbuctu, e Abdalkhader Haidara, presidente dell’ong maliana Savama-DCI. Quest’ultimo con la sua associazione ha trasportato a Bamako più di 380mila manoscritti della propria e di altre famiglie di Timbuctu, riuscendo ad ottenere negli ultimi anni ingenti finanziamenti per progetti di salvaguardia dei testi di cui dispone.«Ad oggi abbiamo completato circa 1’80 per cento della catalogazione e metà della digitalizzazione», annuncia Abdalkhader Haidara. Nei locali di Bamako giovani con guanti di lattice e grembiuli blu si aggirano fra le sale di stoccaggio, pulitura e digitalizzazione dei manoscritti. Corre voce che recentemente Savama abbia raggiunto un accordo con Google per la cessione dei diritti di divulgazione di alcuni testi antichi di Timbuctu. «Ma le trattative sono lunghe», spiega Haidara. Il colosso di Internet starebbe negoziando la quantità di manoscritti da rendere consultabili online. L’Istituto Ahmed Baba, invece, pare abbia riiutato la proposta economica di Google. Nel frattempo molti progetti di conservazione e digitalizzazione stanno vedendo la luce anche in alcune biblioteche private di Timbuctu recentemente ristrutturate con fondi dell’Unesco e della Minusma, la missione di stabilizzazione dell’Onu in Mali. È il caso, ad esempio, della libreria della famiglia dell’imam Ben Essayouti, che si trova di fronte alla Moschea di Djingareiber. Una collezione di 4mila testi antichi da poco tornati nella struttura danneggiata da tre autobombe esplose nelle vicinanze e appena ricostruita dalla Minusma. Qui è in corso un progetto di digitalizzazione inanziato dalla British Library e dall’Ambasciata americana in Mali che ha dotato la piccola biblioteca di apparecchiature fotograiche ad altissima deinizione come quelle installate a Savama e nella sede di Bamako dell’istituto Ahmed Baba. L’harmattan, impietoso vento del Sahara, soffia sabbia nel cortile dell’atelier di Sadeck. «In giornate così non si può lavorare». Il maestro si aggiusta il turbante e fa cenno ai bambini di chiudere i blocchi di fogli. Sul muro dello studio, fra una poesia di Ahmed Baba e un versetto del Corano, le parole senza tempo del Califo di Cordova al-Qasim al-Ma’mun (XI secolo): “Le stelle della saggezza brillano nelle profondità dell’inchiostro”

l’espresso 6.5.18
Eugenio Scalfari
Il vetro soffiato
L’io economico di Carlo Marx
L’impulso ad accumulare ricchezza fa parte degli istinti fondamentali dell’uomo, come quello di sopravvivenza. Ma il desiderio è qualcosa di superiore


Massimo Cacciari, su questo nostro giornale della scorsa settimana, ha battezzato Carlo Marx con l’appellativo di “Economico” sostenendo che la politica e l’ideologia marxista sono state certamente assai importanti nella storia degli ultimi 150 anni, ma non quanto il pensiero economico di quel personaggio che non soltanto ha mobilitato masse sterminate di popoli ma soprattutto ha spiegato qual è l’istinto fondamentale che ha scosso l’umanità in dai tempi della sua nascita. Non è una scoperta quella di Cacciari, che però introduce una questione di importanza massima: l’“Economico” mettendo in luce ciò che è avvenuto nei tempi moderni, quando l’economia ha concentrato gran parte della sua sostanza nella moneta e quindi sui fenomeni del capitalismo nel bene e nel male. Questo è il punto che mescola il marxismo politico alla teoria economica di un Marx filosofo di livello non certo inferiore a Hobbes, a Fichte, a Kant, a Leibniz, a Hegel e insomma i più profondi venuti dopo Cartesio e dopo l’Illuminismo di Diderot, Voltaire, Rousseau, d’Holbach e Condorcet. Tutto bene esposto? L’“Economico” descrive non soltanto l’importanza intellettuale di Marx ma della nostra specie così come è diventata nei tempi moderni? Sì, l’autore descrive bene queste varie posizioni. Sono tentato di ricordare ciò che accadde tra la regina Elisabetta la Grande e il corsaro inglese Francis Drake, il quale navigava con le sue navi sulle rotte battute dai galeoni spagnoli che tornavano dall’America meridionale carichi d’oro e d’argento. Drake le avvistava e le attaccava all’improvviso, trasportando l’oro sulle proprie navi e lasciando i galeoni alla ventura. Poi tratteneva per sé una parte dell’oro di cui si era appropriato e consegnava alla regina il grosso di quel metallo prezioso. La regina apprezzò molto queste frequenti imprese di Drake e lo nominò addirittura baronetto e quindi con il possibile accesso alla Camera dei Lord ad una condizione però: che lui continuasse a fare il corsaro. Così avvenne e questa è una storia assai divertente ma che insegna anche le differenze di comportamenti che si ripetono molto spesso. Questa differenza emerge anche nel racconto di Cacciari quando segnala la differenza profonda tra l’aspetto politico della dottrina di Marx e l’importanza dell’“Economico” marxiano. Ma… Quel ma, ovviamente, ha un suo significato: la cupidigia per la ricchezza e la sua importanza nella vita del mondo intero comunque non risolve la differenza tra l’impegno politico e quello filosofico di Marx. Non è una scoperta filosofica, ma un istinto. Gli istinti, come sappiamo, sono le caratteristiche fondamentali di tutte le specie viventi, in particolare quelli propri della specie nostra. Noi siamo dominati dall’istinto di sopravvivenza il che implica che ciascuno di noi vuole diventare sempre più forte e potente, quale che sia la condizione sociale nella quale è nato e vive. La forza di questo istinto fa nascere contrasti, lotte, guerre, ma anche alleanze e amicizie. Così si svolge a vari livelli la nostra vita ed emerge da quell’istinto anche il bisogno di soddisfare alcuni desideri. Il desiderio non è un bisogno ma qualche cosa di più: un’aspirazione che l’istinto non sente ma il desiderio sì e proviene da una questione di fondo che ci contraddistingue dalle altre specie: l’Io che dà a ciascuno di noi un bisogno suppletivo che accresce la nostra tendenza ad allargare il cerchio dei bisogni aggiungendovi quello dei desideri. L’Io è il depositario dell’istinto di sopravvivenza e lo soddisfa appunto con la conquista di quanto è necessario per soddisfare l’istinto di sopravvivenza: soddisfare il bisogno di cibo, la conquista di territorio, la sconitta di chi vi si oppone con analoghi e contrastanti bisogni e desideri. Di qui lotte e collaborazioni, odio e amicizia, guerre e paci, odio e amo - re, libertà e schiavitù. Questo è l’uomo, questa la nostra specie da quando l’uomo nacque con gli istinti che abbiamo segnalato. Per completare il disegno dobbia - mo aggiungere che l’istinto di sopravvivenza è duplice: riguarda anzitutto se stesso, poi le persone a noi più amorevolmente vicine ed inine, in modo non vistoso ma pur sempre esistente, la propria specie nel suo complesso. Quest’aspetto dell’istin - to di sopravvivenza lo sentiamo in vari modi: fatalità, pietà, misericordia, comunanza con il prossimo ed inine speranza di essere beneicato dopo la morte. Qui nasce il sentimento religioso che sostiene quella che può chiamarsi la fede in Dio. Fa parte degli istinti che tendono ad affrancarsi dalla morte, anche se spesso quell’istinto di sopravviven - za resta deluso o comunque assai incerto e spesso negato a dispetto dell’istinto il quale, tra le tante, contiene anche questa: il bisogno di certezza. Questo bisogno fa tutt’uno con l’istinto di sopravvivenza: come essere certi. Se l’istinto è forte la certezza c’è, ma è una certezza della quale manca la prova e perciò l’appoggio dell’istinto è manchevole. Cessa d’essere istinto, diventa desiderio e tale resta. Nell’antica mitologia di carattere ellenico il dio dei desideri era Eros, e anche il solo che possa appagarli. Se e quando li appaga, l’amore ci dà quella certezza che l’istinto puro e semplice non ci dà. I desideri non sono istinti ma sentimenti: un’altra cosa che ci rende più liberi e più responsabili.