Corriere 6.5.18
«Farei Sottovoce in eterno e non cambio mai il cellulare La mia vita da abitudinario»
di Roberta Scorranese
Il giornalista: non prendo l’aereo e i soldi non mi interessano
Stazione
Centrale di Milano, un pomeriggio di sole. La portiera del taxi si
chiude, un’onda di capelli danza sulla camicia a righe bianche e blu e
Gigi Marzullo comincia a fare Gigi Marzullo: «Ma lei da quanto tempo
vive a Milano? E dove abita? E si trova bene?». Per fortuna il cellulare
gli squilla prima della faccenda della vita e dei sogni. Ecco, il
cellulare: un Motorola che ha la stessa età della carriera di Marzullo,
trent’anni, se consideriamo Mezzanotte e dintorni prima e Sottovoce poi,
programma che va in onda su Rai 1 dal 1994.
Gigi, ma perché non usa lo smartphone?
«Per
carità. Uso solo vecchi telefonini che servono per telefonare e basta.
Ma sa quanti ne ho di questi? Dodici. Una scorta: quando ne comprai uno,
capii che non me ne sarei mai separato. Ma sapevo che prima o poi
sarebbero scomparsi. Allora feci riserva. Io sono così: mi affeziono e
tac, è finita».
Il taxi la prende alla larga. Poco male. Marzullo
ama Milano: viene qui una volta alla settimana per partecipare a Che
fuori tempo che fa, sta quasi pensando di comprare un appartamento in
centro, le ormai famose camicie a righe se le fa fare su misura da una
sarta brianzola. Passiamo davanti a san Marco, poi via Manzoni. Il
distretto dell’informazione, tra il Corriere della Sera e Il Giorno.
Avellinese, lei ha cominciato con «Il Mattino». Poi Roma e la tv. Nostalgia della scrittura?
«No,
sono uno che sta bene solo davanti a una telecamera. E possibilmente
senza pubblico in sala. Amo lo schermo. Pensi che a casa ho un
televisore in ogni stanza, anche in bagno. Guardo la tv sin dal mattino,
poi ogni giorno vado in ufficio, a piedi perché abito vicino a viale
Mazzini. La Rai è la mia vita. Ah, e non uso nemmeno carte di credito,
se le interessa», aggiunge sfoderando una mazzetta di banconote, tipo il
Milione del signor Bonaventura.
Paga il taxi, ci accomodiamo
nella hall di un albergo del centro. Marzullo viene qui da anni, dorme
sempre nella stessa stanza («Dottore, le portiamo i suoi salatini
preferiti, gradisce la solita stufetta?» chiedono dalla reception). E
nel corso di questa intervista non farà nulla per dissimulare l’indole
di un uomo abitudinario, con fragilità antiche, sì, eppure dotato della
tenacia e della perseveranza che solo chi viene dalla provincia può
capire.
Che bambino è stato Gigi Marzullo?
«Cicciottello e
timidissimo. Ora sono più magro, ma sempre introverso. Mamma e papà,
insegnanti, mi hanno cresciuto con severità. Poi gli studi a Pisa e un
vecchio sogno: fare l’attore. Volevo iscrivermi al Centro sperimentale
di cinematografia, però studiai medicina. Laurea e tirocinio di sei
mesi».
Marzullo in ospedale tra i pazienti, in camice bianco?
«Andavo
tra le signore con problemi psichici “armato” di un pacchetto di
sigarette. Gli altri medici gliele proibivano ma io capivo che quelle
donne avevano bisogno di fumare ogni tanto. Oggi penso che sarei stato
un medico molto rigoroso ma anche attento ai pazienti, li avrei
ascoltati con delicatezza. Una volta Glenn Ford, alla fine di una
intervista, mi disse: “ma lei non deve fare questo mestiere, lei deve
fare lo psichiatra”. Gli risposi: “ci sono andato vicino”».
Prima dei giornali e della Rai, il terremoto dell’Irpinia. Lei dov’era quel 23 novembre del 1980?
«Ad
Avellino, in macchina con amici, per il corso principale. L’automobile
cominciò a sussultare e noi pensammo a uno scherzo, a gente che ci stava
scuotendo il portabagagli. Poi vidi un fiume di persone in fuga,
balconi che crollavano, polvere. Una tragedia. Corsi a casa. Mia madre
era già per strada, mio padre stava scendendo. Dormimmo fuori per
giorni. Allora decisi di andare a Roma».
Pochi sanno che prima di approdare in tv lei ha fatto tante cose.
«Moltissime.
Le radio libere, Tele Avellino, il Corriere dell’Irpinia, il
praticantato al Mattino, poi, nonostante fossi giornalista, un contratto
da programmista regista a Rai 1, quindi un articolo due (contratto da
collaboratore fisso, ndr). Poi mi sono inventato la fascia della notte.
Io ci ho messo tanto a raggiungere certe sicurezze. Ecco perché oggi
sono così attaccato al mio lavoro. Sono un fanatico della Rai. Ai miei
collaboratori indico una chiesetta vicino all’ufficio e li esorto:
andiamo a pregare e a ringraziare il Signore perché lavoriamo
nell’azienda più bella. E aggiungo: libera».
Ma tra due anni lei andrà in pensione. Come farà?
«Chiederò
con insistenza alla Rai di farmi rimanere a lavorare con qualche
formula. Non è per soldi, io non spendo quasi nulla. È una questione di
identità: il mio lavoro è la mia esistenza. Solo se, alla centunesima
mia richiesta, l’azienda non cederà, allora proverò a lavorare altrove.
Ma spero di no».
Arriva il cameriere con un vassoio di salatini.
Ma non sono i soliti, quindi niente, meglio non mangiare nulla. Marzullo
ha una sua quieta, inscalfibile linearità.
Il termine
«marzullata» è stato adottato persino dalla Treccani. Indica un concetto
così semplice che, a detta dei critici, sfiora la banalità.
«Ma
mi scusi, secondo lei chiedere a una persona quante volte si è
innamorata è un concetto banale? Io nelle mie domande tocco temi alti,
come l’amore, la morte, il dolore, la gioia. Le domande sono molto
profonde, poi sta all’intervistato fornire le risposte giuste. Signori,
la televisione è questo».
Ma ammetterà che la televisione riduce all’essenziale anche i temi più complessi.
«Mi
consenta di dire che è il compito stesso della tv, e specialmente della
Rai. Io non posso permettermi di parlare solo a un certo pubblico, devo
arrivare a tutti. E sa che anche i giovani mi seguono, mi fermano per
strada e mi chiedono le foto? Loro guardano la tv di notte e seguono
Cinematografo».
Con quella trasmissione lei si è riallacciato alla sua passione, il cinema.
«Mi
sono trovato di fronte ai miei miti. Lea Massari, per dire. O Lisa
Gastoni, che mi ha promesso un invito a cena e io sto ancora aspettando.
A Laetitia Casta e a Julia Roberts regalai i miei libri. E Woody Allen,
quando gli dissi che ammiravo i suoi occhiali, me ne spedì un paio a
casa pochi giorni dopo».
Con lei si confidano tutti, o quasi.
«Alain
Delon mi raccontò che il suo film più riuscito è stato La prima notte
di quiete, regia di Valerio Zurlini. Sa a chi apparteneva il famoso
cappotto color cammello che indossava Alain nel film? A Pietro Barilla.
L’ho scoperto dopo».
Lei ha detto che i soldi non le interessano. Che cosa le interessa?
«Sfuggire
alla morte. Ho una paura pazzesca della morte. Non prendo l’aereo da
vent’anni perché ho paura che precipiti. Quando non dormo con la mia
compagna fatico a prendere sonno perché penso che potrei non
risvegliarmi. Sto male se penso che dovrò morire e perdere tutto quello
che mi sono conquistato: una trasmissione, una casa, le mie camicie a
righe. Lo so, è poco. Però per me è molto perché ho desiderato tanto
tutto questo. Io farei Sottovoce su Rai 1 ancora per tremila anni. Tutte
le sere. Continuerei a ripetere le stesse frasi che mi hanno reso
famoso per tremila anni».
Finalmente si capisce il senso di
espressioni come «La vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere?»,
reiterate con ferma ostinazione ogni sera: sono un talismano. Una
preghiera che lo fa sentire ancora vivo, un giorno in più strappato alla
morte.
Anche in amore ha tanta paura?
«Sono stato molto
inquieto in passato. Da quasi vent’anni sto con Antonella, lei mi ha
reso più stabile. Non posso dire di essere stato o di essere geloso,
perché ho un concetto di me molto alto, sarebbe un’affermazione
insincera. Però sono un uomo difficile, tanto difficile. Per dire, a
casa mia non si cucina mai».
Come sarebbe a dire «non si cucina»?
«Solo
forno a microonde, la cucina è chiusa, mai usata, intatta. Anche
l’acqua per la pasta la facciamo bollire nel microonde. Perché? Non
sopporto gli odori molesti, non sopporto lo sporco. Antonella mi ha
capito. E si prende i suoi spazi: lei viaggia, io no, per esempio. Ma ci
ritroviamo sempre. Quasi quasi...»
...si sposa?
«Sono felice che lei non mi abbia fatto questa domanda finora».
Però
le chiedo qual è stato il giorno più bello della sua vita. Non mi
risponderà mica che è stato quando l’hanno assunta in Rai?
«Vede che conosce già la risposta? Preferirebbe una bugia?»
Critiche feroci, specie all’inizio. E adesso?
«Ora
in tanti si sono arresi all’evidenza. La tv che faccio resiste da molti
anni perché la gente sente il bisogno di riconoscersi in domande come
le mie. E poi io mi so comportare bene. Non sono invidioso, né avido.
Non amo le barche, né le auto, né le amanti costose. Al massimo faccio
una gita a Ischia con gli amici, toh».
E capirai. Ci confessi un vizio, almeno.
«Mangio
tanti gelati. No, eh? Va bene, ammetto che mi piacciono le donne, o
almeno prima di incontrare Antonella mi piacevano. Mi piacciono le donne
composte in apparenza ma trasgressive dentro. In tailleur e filo di
perle ma con una carica provocatoria. Non parlo ovviamente di volgarità,
parlo di imprevedibilità. Però io non tradisco. Nemmeno gli amici, per
non dire della mia azienda».
Sopra tutto, la fedeltà alle cose. Stesso telefonino, stessa camicia a righe...
«Se
è per questo anche parte dell’arredamento di casa mia è a righe. Ma non
è tutto: ho cento paia di calzini dello stesso tipo, decine di scarpe
uguali, pantaloni...».