Il Sole Domenica 6.5.18
Scarpe strette
Camon in cattedra
di Pietrangelo Buttafuoco
Un
lettore, su Facebook, chiede a Ferdinando Camon – tra i più importanti
autori italiani – perché mai ebbe ad abbandonare la scuola e la risposta
è una confessione subito dopo risolta in una sacrosanta invettiva:
«Volevo insegnare tutta la vita; sono nato per questo; ho insegnato in
tutti i gradi di scuola, dalle medie alle magistrali, ai geometri, ai
ragionieri, all’università…». Ecco, l’accusa: «Sono stato sconfitto
dalla potenza della corruzione, della mafiosità dello Stato».
Lo
scrittore veneto ripercorre in un post la propria trattenuta rabbia. E
c’è – nell’essere essenza di letteratura – ben più che carriera: è la
vocazione. È quel che Giovanni Pascoli faceva a Matera – insegnare –
quello che Leonardo Sciascia ebbe a vivere nei plessi scolastici, ed è
educare per tramite di un abicì intriso di umiltà, pazienza e il senso
del dovere che deriva dalla cattedra dove il professore, o il «signor
Maestro»”, accoglie gli alunni e trova il senso di se stesso: «Sono nato
per questo», appunto.
Scrivere è più di vivere. Figurarsi
istruire se Camon nel suo prossimo libro edito da Guanda dedica un
capitolo a un disastro – l’insegnamento – in cui questa vicenda
personale di quarant’anni fa va a specchiarsi nell’andazzo di queste
nostre giornate.
Tutto ciò quando sempre più forte è la deriva cui
è costretta la scuola, non più appetibile per «la corruzione» e la
«mafiosità dello Stato». Una storiaccia di cattedre e concorsi fu quella
di Camon. Lui ne fu vittima e oggi non vuole fare nomi: «Il mio
interesse non è colpire qualcuno ma denunciare quel sistema». E invece
no. Sarebbe magnifico se un ministro, fosse solo per un giorno –
simbolicamente – restituisse l’ottantaduenne Camon alla sua cattedra. È
nato per questo, lui. E così pure lo Stato: per essere abicì e non
sistema.