Il Sole Domenica 6.5.18
L’omicidio di Aldo Moro
Così si chiuse un’èra politica
di Michele Ciliberto
Singolare
libro, questo di Marco da Milano: intende confrontarsi con uno dei
momenti più drammatici della storia repubblicana - il sequestro e
l’assassinio di Aldo Moro - ma lo fa intrecciando tre registri
stilistici differenti: l’interpretazione storica; l’autobiografia di una
generazione (è nato nel 1968); la memoria familiare.
Forse, è
proprio quest’ultima la chiave, e il trait d’union, del libro nel quale
si staglia, come centro sentimentale ed etico-politico la figura del
padre: legato a Moro, giornalista, è lui che scandisce i momenti
principali della vita del figlio.
Lo stile al quale si affida
l’autore, è quello della scrittura del sé; ma, e questo è il suo tratto
più originale, si snoda attraverso un processo di continua
oggettivazione, con riferimenti a personaggi, paesaggi, situazioni, che
costituiscono le stazioni di una seria, e a volte dolorosa, ricerca
auto-biografica.
Essa si svolge con il ritmo del viaggio in una
serie di luoghi che contribuiscono a illuminare l’itinerario
dell’autore, ed è in questo modo che sono intrecciate riflessione
autobiografica, memoria, giudizio storico. Il filo del tempo e della
memoria si spazializza, con una tecnica precisa: se si parla di Sciascia
lo scrittore - viaggiatore va a Racalmuto; quando il discorso coinvolge
Pasolini, si sposta in Friuli; se in primo piano è Craxi, va fino ad
Hammameth. Non è un espediente narrativo, per rendere il racconto più
attraente e mosso: è piuttosto un modo per favorire e potenziare quella
tendenza alla oggettivazione che è il tratto di un libro che ambisce ad
essere, oltre che un saggio, un racconto intrecciando i tempi dell’anima
e lo spazio della storia.
Un racconto sulla politica, sul potere:
questo è il “problema” che da Milano affronta attraverso lo specchio
della vicenda di Moro, seguendolo dall’inizio della carriera fino alla
prigionia e alla morte. Il libro è appunto questo: una interrogazione
sul potere, sulla sua durezza, e sulla sua violenza, mostrate – in una
sorta di via crucis – attraverso il comportamento degli amici e dei
colleghi di Moro e di tutti quelli che, con l’eccezione di Craxi, non
vollero ascoltare le parole del prigioniero.
E sta proprio qui,
per contrasto, la forza di Moro secondo Damilano: nell’essere stato
dentro, fino in fondo alla politica, e al tempo stesso sopra di essa.
Dentro e fuori, per la consapevolezza che ebbe sempre della sua
«grandezza apparente», e dei limiti entro cui, pur vivendola con tutto
se stesso, era necessario circoscriverla. L’immagine di Moro in chiesa,
inginocchiato a pregare , che si imprime in modo indelebile nella
memoria del piccolo Damilano - al quale il padre indica il leader
democristiano - è il segno visibile di questo: di una concezione “laica”
della politica, acquisita, per quanto possa apparire paradossale,
proprio attraverso una esperienza religiosa capace di distinguere tra
ciò che è di Dio e ciò che è di Cesare, e perciò lontana da visioni
“hobbesiane” del potere: nodo esistenziale e teorico decisivo, questo,
venuto alla luce in modo drammatico proprio nei giorni del sequestro di
Moro.
Nel libro il dramma di Aldo Moro è la chiave per
riconsiderare, alla luce della situazione attuale, gli ultimi cinquanta
anni della storia nazionale. Damilano sostiene che il punto di svolta è
costituito dagli anni 70: è allora che finiscono la Democrazia
cristiana, il Partito Comunista ed anche la politica. Ed è una
periodizzazione esatta: è negli anni 70 del secolo scorso che nel nostro
Paese si svolge una battaglia campale conclusasi con la sconfitta della
sinistra ed anche, in conseguenza della morte di Moro, con la chiusura
di un intero ciclo della politica nazionale. È in quegli anni che
comincia ad entrare in una crisi da cui non si è più ripresa la
struttura politica e costituzionale generata dalla cultura
dell’antifascismo e iniziano ad incrinarsi i pilastri della democrazia
rappresentativa nel nostro Paese. Allora iniziano a perdere peso le
organizzazioni di massa tipiche del XX secolo ed è in quegli anni che
comincia la “destrutturazione” del sistema italiano.
Il libro
consente quindi di discutere su temi di grande attualità ed è per questo
utile. Esso si presenta, e l’autore non lo nasconde, come una forte
rivendicazione della figura di Moro e della sua concezione della
politica, mostrando la complessità di una personalità a lungo
schiacciata sui terribili giorni del sequestro e dell’assassinio,
dimenticando, o ignorando, il ruolo straordinario che ha svolto con
equilibrio e lungimiranza nella storia del nostro Paese. E da questo
punto di vista credo anche che Damilano abbia ragione quando sottolinea
che con la morte di Moro finisce la politica - meglio: una concezione
della politica, quella che è stata anche di leader come De Gasperi,
Nenni e Togliatti – cioè della generazione dell’antifascismo; assai
lontana da quella che si è imposta oggi, anche nei rapporti fra potere e
giornali.
Assumendo come pernio della narrazione la tragedia di
Moro il libro è volutamente di parte e non entra perciò nel merito delle
posizioni di coloro che si opposero a qualunque trattativa fra Stato e
Brigate rosse. Su di loro, nel libro, c’è un vero e proprio giudizio
morale che impedisce di farlo. E si può capire. Sono persuaso anche io
che sia stata fatta allora una scelta tragica e che il sangue di Moro
sia caduto non solo sulla Dc ma su tutta la vita politica italiana. Uno
però che se ne intendeva di storia, Francesco Guicciardini, diceva che:
«Avere tutte le cose innanzi agli occhi come coloro che sono stati
presenti… è proprio il fine della istoria». Credo che, oggi, sarebbe
opportuno scavare, da una diversa distanza, nelle posizioni di coloro
che si opposero alla trattativa e capire quale idea dell’Italia essi
avessero quando assunsero queste posizioni. Esse furono dettate anche da
preoccupazioni autentiche sulla tenuta democratica di un Paese «dalla
passionalità intensa e dalle strutture fragili», allora nel pieno di una
vera e propria guerra civile. E penso che andrebbero analizzate anche
le posizioni dei dirigenti del Pci, fra i quali ci furono sensibilità e
atteggiamenti differenti, coperti dal ponte alzato contro ogni
possibilità di trattare.
In una seduta della direzione del Pci –
mi raccontò molti anni fa Alessandro Natta – a un dirigente, il quale
aveva sostenuto che l’atteggiamento di Moro era incomprensibile e che un
militante comunista si sarebbe comportato in maniera differente,
Giorgio Amendola replicò che si trattava di una affermazione azzardata
perché durante la Resistenza militanti comunisti che apparivano forti si
piegarono subito per paura delle torture mentre altri che sembravano
debolissimi non si arresero e pagarono con la vita.
È un flash che
aiuta a capire, credo, come le cose nella storia e nella vita siano
sempre più complicate di quanto si pensi. Individuum est ineffabile, si
potrebbe dire con le parole del poeta, e credo che il Presidente della
DC le avrebbe condivise.
Marco Damilano, Un atomo di verità.
Aldo Moro e la fine della politica in Italia , Feltrinelli, Milano, pagg. 270, € 18