lunedì 14 maggio 2018

internazionale 11.5.18
Attualità
L’Irlanda decide sull’aborto
Di Órla Ryan, Financial Times, Regno Unito
Nel paese l’interruzione di gravidanza è sempre stata illegale. E per decenni il tema è stato tabù. Ma oggi un referendum può cambiare tutto


Poche ore dopo aver abortito a Liverpool, Jennifer Ryan era sulla via del ritorno verso Dublino, con il cadavere del suo bambino in una bara nel bagagliaio della macchina e il riscaldamento spento per evitare che si decomponesse. Con il suo compagno, Dave, aveva deciso che dopo l’intervento – in cui il feto riceve un’iniezione per fermare il cuore e viene poi dato alla luce – lo avrebbero seppellito in Irlanda. L’incubo di Jennifer era cominciato nell’ottobre del 2012, quando, alla ventiduesima settimana di gravidanza, un’ecografia aveva rivelato che il feto non sarebbe sopravvissuto. “Era affetto da una forma grave di spina bifida. Non aveva i reni. I polmoni non potevano svilupparsi. E non avrebbe potuto respirare”, racconta. I medici le avevano spiegato che le severissime leggi irlandesi sull’interruzione di gravidanza – l’ottavo emendamento alla costituzione garantisce al feto lo stesso diritto alla vita della madre – le lasciavano una sola alternativa. “Puoi portare avanti la gravidanza e ti controlleremo ogni settimana per indurre il parto quando il cuore del feto smetterà di battere. Oppure puoi partire”. Partire – un eufemismo che in Irlanda riecheggia secoli di emigrazioni – voleva dire andare ad abortire nel Regno Unito. L’esperienza era stata resa ancora più traumatica dalla necessità di mantenere il segreto. “Torni a casa e vorresti parlarne, ma hai paura di raccontare tutto”. Una settimana dopo l’operazione di Jennifer, nell’ottobre del 2012, Savita Halappanavar, 31 anni, è morta di setticemia in seguito a un aborto spontaneo prolungato in un ospedale di Galway. Rendendosi conto che stava avendo un aborto spontaneo aveva chiesto più volte un’interruzione di gravidanza d’emergenza. Nessuno l’ha ascoltata. “La morte di Savita è stata un evento cruciale”, spiega la femminista irlandese Ailbhe Smyth. “La gente era scandalizzata. Era evidente che bisognava fare qualcosa”. Consapevole di non poter più ignorare un tema così delicato, nel 2013 il parlamento ha approvato una legge per chiarire la normativa in vigore, confermando che l’interruzione di gravidanza è permessa in caso di comprovato e sostanziale rischio per la vita della madre. Ma in un paese dove secondo le stime ogni anno tremila donne vanno ad abortire nel Regno Unito o usano farmaci abortivi illegali, il caso di Savita aveva aperto il dibattito sulla legalizzazione dell’aborto. E la discussione è arrivata a un momento di svolta: il 25 maggio in Irlanda si terrà un referendum per decidere se abrogare l’ottavo emendamento. Senza questo passo qualsiasi riforma della legge sull’interruzione di gravidanza è impossibile. A pochi giorni dal voto l’atmosfera in Irlanda è estremamente polarizzata. Da una parte c’è chi è convinto che la vita umana cominci con il concepimento; dall’altra chi non crede che l’ottavo emendamento abbia salvato migliaia di bambini. “Le irlandesi conoscono bene l’aborto”, spiega la dottoressa Rhona Mahony, prima donna a dirigere il National maternity hospital di Dublino. “Ma se vogliono sottoporsi a un’interruzione di gravidanza sono costrette ad andare all’estero”. Jennifer Ryan e Dave oggi sono sposati e hanno tre figli: Ava, dodici anni, Hannah, quattro, e Eoghan, due. Davanti a una tazza di tè nella loro casa in un palazzo nuovo a sud di Dublino, Jennifer, che oggi ha 31 anni, ricorda i fatti di sei anni fa. A colpirla non fu solo la diagnosi dei problemi del feto, ma Attualità anche la mancanza di risposte da parte dei medici. Si limitarono a darle un foglio con nomi e numeri di telefono di alcuni ospedali britannici. Per raccogliere i tremila euro necessari Jennifer e Dave usarono tutti i loro risparmi e chiesero dei soldi in prestito. E partirono “terrorizzati e di nascosto”. La scuola cattolica In caso di vittoria del sì al referendum del 25 maggio, il governo ha annunciato che proporrà una legge per consentire l’interruzione di gravidanza ino alla dodicesima settimana, e anche oltre se ci sono seri rischi per la salute della madre o se il feto non può sopravvivere. Una legge simile sarebbe in linea con quelle della maggior parte dei paesi europei. Ma per l’Irlanda si tratterebbe di un grande cambiamento. Il referendum con cui nel 2015 è stato legalizzato il matrimonio tra persone dello stesso sesso è stato salutato come il segno che il paese stava prendendo le distanze dalle sue radici cattoliche dopo anni di scandali. A Dublino, nella sede degli attivisti fa vorevoli alla legalizzazione dell’aborto, Ailbhe Smyth mi spiega che, anche continuando a considerarsi cattolica, la stragrande maggioranza degli irlandesi “non accetta l’autorità della chiesa nelle questioni che riguardano l’etica privata”. L’interruzione di gravidanza, tuttavia, occupa un posto particolare nella coscienza degli irlandesi. E il referendum servirà per capire quanto davvero è cambiato il paese. “Per secoli ci è stato detto che l’aborto è un omicidio”, spiega Smyth. “È un tema che fa discutere”. Per comprendere il rapporto tra l’Irlanda e l’aborto bisogna tornare al 1983 e al referendum che ha introdotto nella costituzione l’ottavo emendamento. All’epoca ero una ragazzina di dodici anni che viveva in una piccola città dell’Irlanda sudorientale, ma ricordo bene quei fatti. Le interruzioni di gravidanza erano già illegali, ma temendo un allentamento delle regole, i politici e il clero decisero di blindare la normativa nella costituzione. L’ombra della sentenza Roe vs Wade, che nel 1973 aveva di fatto riconosciuto il diritto all’aborto negli Stati Uniti, era sempre più incombente. E poi l’Irlanda sarebbe potuta diventare la capofila nella lotta contro l’aborto. Nelle scuole cattoliche, che nel paese erano la maggioranza, si insegnava che la vita comincia con il concepimento. Ricordo che una volta la Società per la protezione del bambino nel ventre organizzò nella mia scuola media delle lezioni sull’aborto. Tutti eravamo d’accordo che abortire significava uccidere. Ci dicevano che l’aborto, oltre a essere un omicidio, era un pericolo per la salute delle donne incinte. Le ragazze sfoggiavano un piccolo adesivo che mostrava il piede di un neonato, il simbolo del movimento per la vita. Oltre a quelli sugli adesivi, c’erano anche i bambini in carne e ossa. Qualche mese dopo l’approvazione dell’ottavo emendamento, una ragazza di 15 anni di Langford uscì dalla sua aula per andare a partorire in una grotta che era anche un luogo di preghiera. Morì pochi giorni dopo. Poi fu ritrovato un bambino morto su una spiaggia di Kerry. E un altro sepolto in una fattoria. Le donne non sposate davano i neonati in affidamento e, se li tenevano, rischiavano di essere considerate “merci danneggiate”. All’epoca essere contro l’aborto sembrava inevitabile per chi era cattolico. Ed essere irlandesi voleva dire essere cattolici. Era impossibile immaginare che le cose cambiassero. Il dibattito del 1983 fu talmente radicale che alcuni lo considerano “la seconda spaccatura dell’Irlanda” dopo quella del 1921, che portò alla divisione tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord. Con il senno di poi, tutto questo parlare di divisioni mi sembra strano. Non ho mai conosciuto qualcuno che fosse favorevole all’aborto ino a quando non mi sono trasferita nel Regno Unito, a 17 anni. In Irlanda era impossibile avere un’opinione diversa. Ma com’è cambiata la mentalità degli irlandesi? Essere favorevole all’aborto nel 1983 significava far parte di una frangia estremista. L’ottavo emendamento fu approvato con il 67 per cento dei voti. Smyth è convinta che oggi “molte più persone siano su posizioni moderate: non si considerano favorevoli all’interruzione di gravidanza, ma pensano che sia necessario fare qualcosa per risolvere il problema”. Un altro fattore importante è la minore influenza della chiesa. “Non credo che per chi ha meno di 45 anni il primo impulso sia quello di definirsi irlandesi e cattolici”, dice Smyth. Anche l’apertura dell’Irlanda ha avuto un ruolo rilevante. Oggi il paese è molto meno insulare di quanto non fosse trent’anni fa. Le donne hanno il coraggio di raccontare le loro esperienze. E l’aborto è sempre meno una questione morale e sempre più una questione sanitaria. Mille sfumature A Dublino il Maternity hospital di Holles street, gestito da Rhona Mahony, è famoso perché James Joyce ne ha scritto nell’Ulisse. “Leggete il capitolo su Holles street, con il suo linguaggio pornografico, e capirete perché Joyce è stato bandito dall’Irlanda per tanto tempo”, scherza Rhona, che ha 47 anni. Ma la sua risata si spegne quando comincia a parlare delle leggi irlandesi sull’interruzione di gravidanza e del loro impatto su pazienti e medici. I medici possono eseguire l’interruzione di gravidanza se la vita della madre è in pericolo, ma vanno incontro a quattordici anni di carcere se prendono la decisione sbagliata. “Qual è un rischio di morte concreto? Dieci per cento? E come può la donna far sentire la sua voce?”. Alcune infezioni, come la corioamniosi, mettono a rischio la vita della madre, spiega Rhona. “Una donna può sembrare perfettamente sana alle nove del mattino ed essere moribonda all’ora di pranzo. Come si fa a stabilire il limite da non superare? Ed è il colmo dell’ipocrisia che in base al tredicesimo emendamento, introdotto nel 1992, una donna può abortire legalmente all’estero, mentre se interrompe la gravidanza in Irlanda rischia quattordici anni di carcere”. Per Rhona è il principio alla base dell’ottavo emendamento a essere sbagliato: “Se una madre muore, muore anche il bambino. Non ha senso parlare di pari diritto alla vita se prima non si valutano le possibilità di sopravvivenza del feto”. Quest’idea è generalmente accettata a Dublino e nelle città irlandesi. “C’è stato un grande silenzio sull’aborto per molto tempo”, spiega Cara Sanquest, 27 anni, studente di giurisprudenza al Trinity college di Dublino. “Siamo un popolo premuroso e buono: costringere le donne a uscire dal paese per ottenere una prestazione sanitaria non è coerente con la nostra natura”. In altre aree del paese, tuttavia, sopravvive un profondo conservatorismo. Clonmel, nella contea di Tipperary, è nel cuore rurale dell’Irlanda. Un poster appeso nel convento francescano proclama che l’aborto uccide 120mila bambini al giorno e invita a recitare il rosario per impedire l’abrogazione dell’ottavo emendamento. Accanto c’è una pila di volantini con preghiere speciali per salvare l’Irlanda dalla “piaga dell’aborto”. Bridget ha 74 anni ed è appena stata a messa. “Conosco persone che hanno subito un aborto. Non mi chieda come. Si sono rovinate la vita”, dice. Una donna si è suicidata. “È stato il senso di colpa. Voterò per salvare l’ottavo emendamento, altrimenti sottoporsi a un aborto diventerà facile come farsi togliere un dente”. Una mattinata di conversazioni mi permette di conoscere l’opinione di dieci persone, soprattutto donne, di diverse età. Più della metà è antiabortista. Alcuni sono indecisi. Un uomo di 48 anni mi confessa di essere favorevole alla libertà di scelta, ma sottolinea che il dibattito è stato offuscato dalle preoccupazioni sulla legge che potrebbe essere approvata dopo il voto. “Gli elettori vogliono poter scegliere liberamente”, mi confessa, “ma non vogliono essere responsabili della morte di un feto alla tredicesima o quattordicesima settimana”. Mattie McGrath, deputato di Clonmel, è famoso in Irlanda per le sue idee antiabortiste e ha partecipato alle manifestazioni in difesa dell’ottavo emendamento. Il suo ufficio è tappezzato di foto che lo ritraggono a fiere e inaugurazioni. Su un tavolino ci sono volantini antiabortisti. Si presenta come uomo di famiglia e mi mostra una foto dei suoi otto figli. “Penso che la vita sia vita, dal concepimento alla morte. Se uccidi un bambino di una settimana è omicidio. L’aborto è stato sdoganato dai giornali di Rupert Murdoch. Puoi dire quello che vuoi, ma nei comandamenti è scritto ‘non uccidere’”. Il giudizio degli altri Quando gli racconto la storia di Jennifer Ryan, McGrath mi risponde che “dev’essere stata un’esperienza devastante”, ma aggiunge che “nessun medico può dire quanto a lungo vivrà un bambino”. Secondo McGrath ci dovrebbe essere un sistema di aiuti per le famiglie che vivono situazioni simili e si dovrebbe puntare sulle adozioni. La sua opposizione all’interruzione di gravidanza è accompagnata dalla profonda convinzione che “l’Irlanda rurale è stata abbandonata. A Dublino ci considerano un fastidio, pensano che siamo dei bifolchi”. I leader dei principali partiti irlandesi sono per l’abrogazione, ma molti deputati sono combattuti. McGrath cerca di ragionare sul lungo periodo: “Se il referendum passerà non credo che il governo riuscirà a far approvare subito una nuova legge sull’aborto. La strada è ancora lunga”. Le idee di McGrath incombono su Clonmel. “Siamo svantaggiati: McGrath è il nostro deputato, ma non rappresenta tutti”, spiega Anita Byrne, madre, casalinga e attivista per legalizzazione dell’aborto mentre distribuisce volantini su O’Connell street. Anche se i vescovi irlandesi hanno invitato la popolazione a salvare l’ottavo emendamento, McGrath e altri leader antiabortisti stanno cercando di prendere le distanze dalla chiesa cattolica, che ha perso gran parte della sua credibilità. “I militanti per l’abrogazione dell’emendamento vogliono far pensare che si tratti di una questione religiosa, legata alla chiesa cattolica. Ho incontrato molti ragazzi e ho scoperto che la questione per loro non riguarda la fede, ma i diritti umani”, spiega Cora Sherlock, 42 anni, vicepresidente della campagna per la vita. Scrittrice e avvocata, Cora si batte contro l’aborto dagli anni novanta. Mi racconta di essere stata insultata sul web per le sue idee, ma anche di avere ricevuto l’appoggio di molti irlandesi. Le chiedo perché le donne non debbano essere considerate capaci di scegliere da sole. “Mi ido delle donne, sono una donna. In Irlanda è il movimento per la libertà di scelta a non aver iducia in loro. Cerca di tenerle all’oscuro di informazioni vitali. Nessun comitato pubblico o parlamentare si è occupato del reale sviluppo del bambino nel grembo”. Cora non ritiene che le vecchie vicende di abusi legate alla chiesa cattolica, come la storia delle lavanderie Magdalene, dov’erano coninate le giovani madri non sposate, abbiano a che fare con il voto. “Per fortuna è una storia di molti anni fa. Non credo sia giusto parlarne nel contesto dell’aborto”, dice. Continuando il mio giro per l’Irlanda, mi pare sempre più evidente che per molti il passato è ancora presente. A Greystones, una località costiera a sud di Dublino, incontro Gaye Brennan e suo marito Gerry Edwards. Nel 2001 andarono ad abortire all’estero alla ventiduesima settimana di gravidanza dopo aver scoperto che il feto presentava un’anomalia nel tubo neurale e non aveva possibilità di sopravvivere. “Ci siamo sentiti abbandonati”, racconta Edwards. “Ti senti giudicato dal tuo paese, da tutti. Completamente solo”. Fortunatamente Gaye e Gerry avevano l’appoggio delle loro famiglie. Mentre parliamo, la madre di Gaye, Stephanie, ci porta il caffè e una torta. E ci racconta una storia: negli anni settanta un giorno ricevette una telefonata di un’amica, impiegata in un centro per le donne, che le chiedeva di raggiungerla in una vicina cabina telefonica. Dentro c’era una ragazza di 17 o 18 anni che aveva partorito un bambino e lo aveva avvolto in una tenda. Stephanie portò la giovane in ospedale, dove un’infermiera la accolse così: “Dovrebbe vergognarsi, che le sia da lezione. Così la smetterà di fare l’oca”. Il bambino fu dato in adozione. Negli ultimi anni molte donne hanno deciso di farsi avanti e raccontare la loro storia. Gli attivisti per l’abolizione dell’ottavo emendamento sperano che questo possa aiutare la causa. Tuttavia, confessare pubblicamente un aborto può essere ancora traumatico. Quando l’attrice Tara Flynn ha raccontato della sua interruzione di gravidanza, un dirigente del partito Fine gael (al governo) ha scritto su Twitter che l’attrice “non voleva occuparsi del bambino e per questo l’ha fatto ammazzare”. In seguito l’uomo si è dimesso. Incontro Flynn a Dublino. È reduce dallo spettacolo Not a funny word, in cui, da sola sul palco, racconta la storia del suo viaggio nei Paesi Bassi, per abortire. “Avevo 37 anni, ero un’attrice single. Non avevo molti soldi e non volevo diventare madre, racconta. Lo stigma e la vergogna hanno pesato molto sulla sua coscienza. “Dovevo mantenere il segreto: temevo che se avessi parlato le persone mi avrebbero abbandonata”, spiega. “Mi hanno fatto sentire una criminale. È una sensazione opprimente. Ti senti isolata”. Nel suo spettacolo non ci sono facili battute ma solo umorismo nero, che secondo Flynn può avere un efetto lenitivo. Il destino delle donne che hanno avuto esperienze simili la tormenta. “Sono triste per le donne che vivono con questo peso. Le abbiamo abbandonate”. Indecisi alle urne Poco più di un anno dopo il viaggio a Liverpool, Jennifer Ryan ha dato alla luce Hannah. Prima del parto ha raccontato la sua storia a un’ostetrica, che le ha confessato di aver vissuto un’esperienza simile dieci anni prima. Jennifer era la prima persona, oltre al marito, a cui l’avesse conidato. È stato allora che Jennifer ha deciso di parlare, nella speranza che la sua storia possa convincere qualcuno a cambiare idea sull’aborto. Per diverso tempo i sondaggi hanno registrato un forte sostegno per l’abrogazione dell’ottavo emendamento, ma con l’avvicinarsi del 25 maggio le percentuali stanno cambiando. Secondo un recente sondaggio, il 47 per cento degli elettori è favorevole all’abrogazione, il 28 per cento è contrario e il 20 per cento è ancora indeciso. “A volte sono molto ottimista, altre volte… Si vota sì o no, e per molti è una decisione diicile. In mezzo ci sono posizioni diverse”, spiega Jennifer. Gli antiabortisti considerano il voto una battaglia per salvare vite umane. “Quando un bambino entra nel continuum della vita merita la stessa protezione di qualsiasi essere umano”, sottolinea Cora Sherlock. Gli attivisti per la libertà di scelta, invece, hanno una visione diversa. E fanno notare che nel giorno del voto, come succede ogni giorno, nove donne irlandesi andranno ad abortire all’estero. Qualsiasi cosa succeda, spiega Rhona Mahony, “gli aborti continueranno. Perché le donne abortiscono in dalla notte dei tempi”.
Órla Ryan è una giornalista irlandese. Ha scritto Chocolate nations. Living and dying for cocoa in West Africa (Zed Books 2012).


Da sapere
Il voto e le leggi
Il 25 maggio 2018 in Irlanda si terrà un referendum sull’abrogazione dell’ottavo emendamento alla costituzione, che mette sullo stesso piano il diritto alla vita del feto e quello della madre, e che rende illegale l’aborto praticamente in ogni circostanza, compreso lo stupro della donna, l’incesto o l’anomalia del feto. L’interruzione di gravidanza è permessa solo in caso di rischio “reale e sostanziale” per la vita della donna. Secondo un sondaggio dell’Irish Times e dell’agenzia Ipsos Mrbi, il 47 per cento degli elettori è favorevole all’abrogazione dell’emendamento, il 28 per cento è contrario e il 20 per cento è indeciso.
In Europa gli altri paesi con leggi molto restrittive in materia sono la Polonia, dove l’interruzione di gravidanza è consentita solo in caso di stupro, danni al feto e rischio grave per la salute della donna, e Malta, dove è vietata in ogni circostanza.