internazionale 11.5.18
Attualità
L’Irlanda decide sull’aborto
Di Órla Ryan, Financial Times, Regno Unito
Nel
paese l’interruzione di gravidanza è sempre stata illegale. E per
decenni il tema è stato tabù. Ma oggi un referendum può cambiare tutto
Poche
ore dopo aver abortito a Liverpool, Jennifer Ryan era sulla via del
ritorno verso Dublino, con il cadavere del suo bambino in una bara nel
bagagliaio della macchina e il riscaldamento spento per evitare che si
decomponesse. Con il suo compagno, Dave, aveva deciso che dopo
l’intervento – in cui il feto riceve un’iniezione per fermare il cuore e
viene poi dato alla luce – lo avrebbero seppellito in Irlanda. L’incubo
di Jennifer era cominciato nell’ottobre del 2012, quando, alla
ventiduesima settimana di gravidanza, un’ecografia aveva rivelato che il
feto non sarebbe sopravvissuto. “Era affetto da una forma grave di
spina bifida. Non aveva i reni. I polmoni non potevano svilupparsi. E
non avrebbe potuto respirare”, racconta. I medici le avevano spiegato
che le severissime leggi irlandesi sull’interruzione di gravidanza –
l’ottavo emendamento alla costituzione garantisce al feto lo stesso
diritto alla vita della madre – le lasciavano una sola alternativa.
“Puoi portare avanti la gravidanza e ti controlleremo ogni settimana per
indurre il parto quando il cuore del feto smetterà di battere. Oppure
puoi partire”. Partire – un eufemismo che in Irlanda riecheggia secoli
di emigrazioni – voleva dire andare ad abortire nel Regno Unito.
L’esperienza era stata resa ancora più traumatica dalla necessità di
mantenere il segreto. “Torni a casa e vorresti parlarne, ma hai paura di
raccontare tutto”. Una settimana dopo l’operazione di Jennifer,
nell’ottobre del 2012, Savita Halappanavar, 31 anni, è morta di
setticemia in seguito a un aborto spontaneo prolungato in un ospedale di
Galway. Rendendosi conto che stava avendo un aborto spontaneo aveva
chiesto più volte un’interruzione di gravidanza d’emergenza. Nessuno
l’ha ascoltata. “La morte di Savita è stata un evento cruciale”, spiega
la femminista irlandese Ailbhe Smyth. “La gente era scandalizzata. Era
evidente che bisognava fare qualcosa”. Consapevole di non poter più
ignorare un tema così delicato, nel 2013 il parlamento ha approvato una
legge per chiarire la normativa in vigore, confermando che
l’interruzione di gravidanza è permessa in caso di comprovato e
sostanziale rischio per la vita della madre. Ma in un paese dove secondo
le stime ogni anno tremila donne vanno ad abortire nel Regno Unito o
usano farmaci abortivi illegali, il caso di Savita aveva aperto il
dibattito sulla legalizzazione dell’aborto. E la discussione è arrivata a
un momento di svolta: il 25 maggio in Irlanda si terrà un referendum
per decidere se abrogare l’ottavo emendamento. Senza questo passo
qualsiasi riforma della legge sull’interruzione di gravidanza è
impossibile. A pochi giorni dal voto l’atmosfera in Irlanda è
estremamente polarizzata. Da una parte c’è chi è convinto che la vita
umana cominci con il concepimento; dall’altra chi non crede che l’ottavo
emendamento abbia salvato migliaia di bambini. “Le irlandesi conoscono
bene l’aborto”, spiega la dottoressa Rhona Mahony, prima donna a
dirigere il National maternity hospital di Dublino. “Ma se vogliono
sottoporsi a un’interruzione di gravidanza sono costrette ad andare
all’estero”. Jennifer Ryan e Dave oggi sono sposati e hanno tre figli:
Ava, dodici anni, Hannah, quattro, e Eoghan, due. Davanti a una tazza di
tè nella loro casa in un palazzo nuovo a sud di Dublino, Jennifer, che
oggi ha 31 anni, ricorda i fatti di sei anni fa. A colpirla non fu solo
la diagnosi dei problemi del feto, ma Attualità anche la mancanza di
risposte da parte dei medici. Si limitarono a darle un foglio con nomi e
numeri di telefono di alcuni ospedali britannici. Per raccogliere i
tremila euro necessari Jennifer e Dave usarono tutti i loro risparmi e
chiesero dei soldi in prestito. E partirono “terrorizzati e di
nascosto”. La scuola cattolica In caso di vittoria del sì al referendum
del 25 maggio, il governo ha annunciato che proporrà una legge per
consentire l’interruzione di gravidanza ino alla dodicesima settimana, e
anche oltre se ci sono seri rischi per la salute della madre o se il
feto non può sopravvivere. Una legge simile sarebbe in linea con quelle
della maggior parte dei paesi europei. Ma per l’Irlanda si tratterebbe
di un grande cambiamento. Il referendum con cui nel 2015 è stato
legalizzato il matrimonio tra persone dello stesso sesso è stato
salutato come il segno che il paese stava prendendo le distanze dalle
sue radici cattoliche dopo anni di scandali. A Dublino, nella sede degli
attivisti fa vorevoli alla legalizzazione dell’aborto, Ailbhe Smyth mi
spiega che, anche continuando a considerarsi cattolica, la stragrande
maggioranza degli irlandesi “non accetta l’autorità della chiesa nelle
questioni che riguardano l’etica privata”. L’interruzione di gravidanza,
tuttavia, occupa un posto particolare nella coscienza degli irlandesi. E
il referendum servirà per capire quanto davvero è cambiato il paese.
“Per secoli ci è stato detto che l’aborto è un omicidio”, spiega Smyth.
“È un tema che fa discutere”. Per comprendere il rapporto tra l’Irlanda e
l’aborto bisogna tornare al 1983 e al referendum che ha introdotto
nella costituzione l’ottavo emendamento. All’epoca ero una ragazzina di
dodici anni che viveva in una piccola città dell’Irlanda sudorientale,
ma ricordo bene quei fatti. Le interruzioni di gravidanza erano già
illegali, ma temendo un allentamento delle regole, i politici e il clero
decisero di blindare la normativa nella costituzione. L’ombra della
sentenza Roe vs Wade, che nel 1973 aveva di fatto riconosciuto il
diritto all’aborto negli Stati Uniti, era sempre più incombente. E poi
l’Irlanda sarebbe potuta diventare la capofila nella lotta contro
l’aborto. Nelle scuole cattoliche, che nel paese erano la maggioranza,
si insegnava che la vita comincia con il concepimento. Ricordo che una
volta la Società per la protezione del bambino nel ventre organizzò
nella mia scuola media delle lezioni sull’aborto. Tutti eravamo
d’accordo che abortire significava uccidere. Ci dicevano che l’aborto,
oltre a essere un omicidio, era un pericolo per la salute delle donne
incinte. Le ragazze sfoggiavano un piccolo adesivo che mostrava il piede
di un neonato, il simbolo del movimento per la vita. Oltre a quelli
sugli adesivi, c’erano anche i bambini in carne e ossa. Qualche mese
dopo l’approvazione dell’ottavo emendamento, una ragazza di 15 anni di
Langford uscì dalla sua aula per andare a partorire in una grotta che
era anche un luogo di preghiera. Morì pochi giorni dopo. Poi fu
ritrovato un bambino morto su una spiaggia di Kerry. E un altro sepolto
in una fattoria. Le donne non sposate davano i neonati in affidamento e,
se li tenevano, rischiavano di essere considerate “merci danneggiate”.
All’epoca essere contro l’aborto sembrava inevitabile per chi era
cattolico. Ed essere irlandesi voleva dire essere cattolici. Era
impossibile immaginare che le cose cambiassero. Il dibattito del 1983 fu
talmente radicale che alcuni lo considerano “la seconda spaccatura
dell’Irlanda” dopo quella del 1921, che portò alla divisione tra
Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord. Con il senno di poi, tutto
questo parlare di divisioni mi sembra strano. Non ho mai conosciuto
qualcuno che fosse favorevole all’aborto ino a quando non mi sono
trasferita nel Regno Unito, a 17 anni. In Irlanda era impossibile avere
un’opinione diversa. Ma com’è cambiata la mentalità degli irlandesi?
Essere favorevole all’aborto nel 1983 significava far parte di una
frangia estremista. L’ottavo emendamento fu approvato con il 67 per
cento dei voti. Smyth è convinta che oggi “molte più persone siano su
posizioni moderate: non si considerano favorevoli all’interruzione di
gravidanza, ma pensano che sia necessario fare qualcosa per risolvere il
problema”. Un altro fattore importante è la minore influenza della
chiesa. “Non credo che per chi ha meno di 45 anni il primo impulso sia
quello di definirsi irlandesi e cattolici”, dice Smyth. Anche l’apertura
dell’Irlanda ha avuto un ruolo rilevante. Oggi il paese è molto meno
insulare di quanto non fosse trent’anni fa. Le donne hanno il coraggio
di raccontare le loro esperienze. E l’aborto è sempre meno una questione
morale e sempre più una questione sanitaria. Mille sfumature A Dublino
il Maternity hospital di Holles street, gestito da Rhona Mahony, è
famoso perché James Joyce ne ha scritto nell’Ulisse. “Leggete il
capitolo su Holles street, con il suo linguaggio pornografico, e
capirete perché Joyce è stato bandito dall’Irlanda per tanto tempo”,
scherza Rhona, che ha 47 anni. Ma la sua risata si spegne quando
comincia a parlare delle leggi irlandesi sull’interruzione di gravidanza
e del loro impatto su pazienti e medici. I medici possono eseguire
l’interruzione di gravidanza se la vita della madre è in pericolo, ma
vanno incontro a quattordici anni di carcere se prendono la decisione
sbagliata. “Qual è un rischio di morte concreto? Dieci per cento? E come
può la donna far sentire la sua voce?”. Alcune infezioni, come la
corioamniosi, mettono a rischio la vita della madre, spiega Rhona. “Una
donna può sembrare perfettamente sana alle nove del mattino ed essere
moribonda all’ora di pranzo. Come si fa a stabilire il limite da non
superare? Ed è il colmo dell’ipocrisia che in base al tredicesimo
emendamento, introdotto nel 1992, una donna può abortire legalmente
all’estero, mentre se interrompe la gravidanza in Irlanda rischia
quattordici anni di carcere”. Per Rhona è il principio alla base
dell’ottavo emendamento a essere sbagliato: “Se una madre muore, muore
anche il bambino. Non ha senso parlare di pari diritto alla vita se
prima non si valutano le possibilità di sopravvivenza del feto”.
Quest’idea è generalmente accettata a Dublino e nelle città irlandesi.
“C’è stato un grande silenzio sull’aborto per molto tempo”, spiega Cara
Sanquest, 27 anni, studente di giurisprudenza al Trinity college di
Dublino. “Siamo un popolo premuroso e buono: costringere le donne a
uscire dal paese per ottenere una prestazione sanitaria non è coerente
con la nostra natura”. In altre aree del paese, tuttavia, sopravvive un
profondo conservatorismo. Clonmel, nella contea di Tipperary, è nel
cuore rurale dell’Irlanda. Un poster appeso nel convento francescano
proclama che l’aborto uccide 120mila bambini al giorno e invita a
recitare il rosario per impedire l’abrogazione dell’ottavo emendamento.
Accanto c’è una pila di volantini con preghiere speciali per salvare
l’Irlanda dalla “piaga dell’aborto”. Bridget ha 74 anni ed è appena
stata a messa. “Conosco persone che hanno subito un aborto. Non mi
chieda come. Si sono rovinate la vita”, dice. Una donna si è suicidata.
“È stato il senso di colpa. Voterò per salvare l’ottavo emendamento,
altrimenti sottoporsi a un aborto diventerà facile come farsi togliere
un dente”. Una mattinata di conversazioni mi permette di conoscere
l’opinione di dieci persone, soprattutto donne, di diverse età. Più
della metà è antiabortista. Alcuni sono indecisi. Un uomo di 48 anni mi
confessa di essere favorevole alla libertà di scelta, ma sottolinea che
il dibattito è stato offuscato dalle preoccupazioni sulla legge che
potrebbe essere approvata dopo il voto. “Gli elettori vogliono poter
scegliere liberamente”, mi confessa, “ma non vogliono essere
responsabili della morte di un feto alla tredicesima o quattordicesima
settimana”. Mattie McGrath, deputato di Clonmel, è famoso in Irlanda per
le sue idee antiabortiste e ha partecipato alle manifestazioni in
difesa dell’ottavo emendamento. Il suo ufficio è tappezzato di foto che
lo ritraggono a fiere e inaugurazioni. Su un tavolino ci sono volantini
antiabortisti. Si presenta come uomo di famiglia e mi mostra una foto
dei suoi otto figli. “Penso che la vita sia vita, dal concepimento alla
morte. Se uccidi un bambino di una settimana è omicidio. L’aborto è
stato sdoganato dai giornali di Rupert Murdoch. Puoi dire quello che
vuoi, ma nei comandamenti è scritto ‘non uccidere’”. Il giudizio degli
altri Quando gli racconto la storia di Jennifer Ryan, McGrath mi
risponde che “dev’essere stata un’esperienza devastante”, ma aggiunge
che “nessun medico può dire quanto a lungo vivrà un bambino”. Secondo
McGrath ci dovrebbe essere un sistema di aiuti per le famiglie che
vivono situazioni simili e si dovrebbe puntare sulle adozioni. La sua
opposizione all’interruzione di gravidanza è accompagnata dalla profonda
convinzione che “l’Irlanda rurale è stata abbandonata. A Dublino ci
considerano un fastidio, pensano che siamo dei bifolchi”. I leader dei
principali partiti irlandesi sono per l’abrogazione, ma molti deputati
sono combattuti. McGrath cerca di ragionare sul lungo periodo: “Se il
referendum passerà non credo che il governo riuscirà a far approvare
subito una nuova legge sull’aborto. La strada è ancora lunga”. Le idee
di McGrath incombono su Clonmel. “Siamo svantaggiati: McGrath è il
nostro deputato, ma non rappresenta tutti”, spiega Anita Byrne, madre,
casalinga e attivista per legalizzazione dell’aborto mentre distribuisce
volantini su O’Connell street. Anche se i vescovi irlandesi hanno
invitato la popolazione a salvare l’ottavo emendamento, McGrath e altri
leader antiabortisti stanno cercando di prendere le distanze dalla
chiesa cattolica, che ha perso gran parte della sua credibilità. “I
militanti per l’abrogazione dell’emendamento vogliono far pensare che si
tratti di una questione religiosa, legata alla chiesa cattolica. Ho
incontrato molti ragazzi e ho scoperto che la questione per loro non
riguarda la fede, ma i diritti umani”, spiega Cora Sherlock, 42 anni,
vicepresidente della campagna per la vita. Scrittrice e avvocata, Cora
si batte contro l’aborto dagli anni novanta. Mi racconta di essere stata
insultata sul web per le sue idee, ma anche di avere ricevuto
l’appoggio di molti irlandesi. Le chiedo perché le donne non debbano
essere considerate capaci di scegliere da sole. “Mi ido delle donne,
sono una donna. In Irlanda è il movimento per la libertà di scelta a non
aver iducia in loro. Cerca di tenerle all’oscuro di informazioni
vitali. Nessun comitato pubblico o parlamentare si è occupato del reale
sviluppo del bambino nel grembo”. Cora non ritiene che le vecchie
vicende di abusi legate alla chiesa cattolica, come la storia delle
lavanderie Magdalene, dov’erano coninate le giovani madri non sposate,
abbiano a che fare con il voto. “Per fortuna è una storia di molti anni
fa. Non credo sia giusto parlarne nel contesto dell’aborto”, dice.
Continuando il mio giro per l’Irlanda, mi pare sempre più evidente che
per molti il passato è ancora presente. A Greystones, una località
costiera a sud di Dublino, incontro Gaye Brennan e suo marito Gerry
Edwards. Nel 2001 andarono ad abortire all’estero alla ventiduesima
settimana di gravidanza dopo aver scoperto che il feto presentava
un’anomalia nel tubo neurale e non aveva possibilità di sopravvivere.
“Ci siamo sentiti abbandonati”, racconta Edwards. “Ti senti giudicato
dal tuo paese, da tutti. Completamente solo”. Fortunatamente Gaye e
Gerry avevano l’appoggio delle loro famiglie. Mentre parliamo, la madre
di Gaye, Stephanie, ci porta il caffè e una torta. E ci racconta una
storia: negli anni settanta un giorno ricevette una telefonata di
un’amica, impiegata in un centro per le donne, che le chiedeva di
raggiungerla in una vicina cabina telefonica. Dentro c’era una ragazza
di 17 o 18 anni che aveva partorito un bambino e lo aveva avvolto in una
tenda. Stephanie portò la giovane in ospedale, dove un’infermiera la
accolse così: “Dovrebbe vergognarsi, che le sia da lezione. Così la
smetterà di fare l’oca”. Il bambino fu dato in adozione. Negli ultimi
anni molte donne hanno deciso di farsi avanti e raccontare la loro
storia. Gli attivisti per l’abolizione dell’ottavo emendamento sperano
che questo possa aiutare la causa. Tuttavia, confessare pubblicamente un
aborto può essere ancora traumatico. Quando l’attrice Tara Flynn ha
raccontato della sua interruzione di gravidanza, un dirigente del
partito Fine gael (al governo) ha scritto su Twitter che l’attrice “non
voleva occuparsi del bambino e per questo l’ha fatto ammazzare”. In
seguito l’uomo si è dimesso. Incontro Flynn a Dublino. È reduce dallo
spettacolo Not a funny word, in cui, da sola sul palco, racconta la
storia del suo viaggio nei Paesi Bassi, per abortire. “Avevo 37 anni,
ero un’attrice single. Non avevo molti soldi e non volevo diventare
madre, racconta. Lo stigma e la vergogna hanno pesato molto sulla sua
coscienza. “Dovevo mantenere il segreto: temevo che se avessi parlato le
persone mi avrebbero abbandonata”, spiega. “Mi hanno fatto sentire una
criminale. È una sensazione opprimente. Ti senti isolata”. Nel suo
spettacolo non ci sono facili battute ma solo umorismo nero, che secondo
Flynn può avere un efetto lenitivo. Il destino delle donne che hanno
avuto esperienze simili la tormenta. “Sono triste per le donne che
vivono con questo peso. Le abbiamo abbandonate”. Indecisi alle urne Poco
più di un anno dopo il viaggio a Liverpool, Jennifer Ryan ha dato alla
luce Hannah. Prima del parto ha raccontato la sua storia a un’ostetrica,
che le ha confessato di aver vissuto un’esperienza simile dieci anni
prima. Jennifer era la prima persona, oltre al marito, a cui l’avesse
conidato. È stato allora che Jennifer ha deciso di parlare, nella
speranza che la sua storia possa convincere qualcuno a cambiare idea
sull’aborto. Per diverso tempo i sondaggi hanno registrato un forte
sostegno per l’abrogazione dell’ottavo emendamento, ma con l’avvicinarsi
del 25 maggio le percentuali stanno cambiando. Secondo un recente
sondaggio, il 47 per cento degli elettori è favorevole all’abrogazione,
il 28 per cento è contrario e il 20 per cento è ancora indeciso. “A
volte sono molto ottimista, altre volte… Si vota sì o no, e per molti è
una decisione diicile. In mezzo ci sono posizioni diverse”, spiega
Jennifer. Gli antiabortisti considerano il voto una battaglia per
salvare vite umane. “Quando un bambino entra nel continuum della vita
merita la stessa protezione di qualsiasi essere umano”, sottolinea Cora
Sherlock. Gli attivisti per la libertà di scelta, invece, hanno una
visione diversa. E fanno notare che nel giorno del voto, come succede
ogni giorno, nove donne irlandesi andranno ad abortire all’estero.
Qualsiasi cosa succeda, spiega Rhona Mahony, “gli aborti continueranno.
Perché le donne abortiscono in dalla notte dei tempi”.
Órla Ryan è una giornalista irlandese. Ha scritto Chocolate nations. Living and dying for cocoa in West Africa (Zed Books 2012).
Da sapere
Il voto e le leggi
Il 25 maggio 2018 in
Irlanda si terrà un referendum sull’abrogazione dell’ottavo emendamento
alla costituzione, che mette sullo stesso piano il diritto alla vita del
feto e quello della madre, e che rende illegale l’aborto praticamente
in ogni circostanza, compreso lo stupro della donna, l’incesto o
l’anomalia del feto. L’interruzione di gravidanza è permessa solo in
caso di rischio “reale e sostanziale” per la vita della donna. Secondo
un sondaggio dell’Irish Times e dell’agenzia Ipsos Mrbi, il 47 per cento
degli elettori è favorevole all’abrogazione dell’emendamento, il 28 per
cento è contrario e il 20 per cento è indeciso.
In Europa gli
altri paesi con leggi molto restrittive in materia sono la Polonia, dove
l’interruzione di gravidanza è consentita solo in caso di stupro, danni
al feto e rischio grave per la salute della donna, e Malta, dove è
vietata in ogni circostanza.