internazionale 11.5.18
Rao Pingru
Vita a tratti
Faceva
parte dell’aristocrazia cinese, ha combattuto contro i giapponesi ed è
finito in un campo di concentramento comunista. A 91 anni ha pubblicato
il suo primo libro, un’autobiografia illustrata di Anatxu Zabalbeascoa,
El País, Spagna
A desso che possono avere tutto
hanno paura di perdere la memoria”. Rao Pingru, nato a Nanchang nel
1922, spiega così il successo della sua autobiografia illustrata, Pingru
Meitang: Woliade gushi (Pingru e Meitang: la storia di noi due), che
racconta la sua vita e i suoi sessant’anni di matrimonio. Rao Pingru non
cercava il successo internazionale, anzi, non aveva mai pensato di
pubblicare il libro: “Quando è morta mia moglie ho deciso di raccontare
la nostra vita ai miei figli e ai miei nipoti. Tutto qui”. Rao Pingru e
Meitang, sua moglie, arrivarono a Shanghai alla fine del 1950. Prima
andarono a vivere in una camera in affitto, poi nell’estate del 1952 si
trasferirono nell’appartamento di 36 metri quadrati composto da due
stanze in cui la coppia e i suoi cinque figli avrebbero vissuto per 51
anni. A quei tempi in città c’era solo un grattacielo, il Park Hotel.
Oggi ce ne sono centinaia. Con circa 24 milioni di abitanti, Shanghai è
la città più popolosa della Cina. Per questo è diicile farsi un’idea di
come fosse quando la coppia si trasferì qui. Rao Pingru faceva il
contabile e il correttore di bozze nella casa editrice dello zio. “Fu
l’epoca più felice per me: guadagnavo bene e facevamo una vita agiata”,
ricorda mentre beve un tè nell’appartamento del Rao Pingru Vita a tratti
Faceva parte dell’aristocrazia cinese, ha combattuto contro i
giapponesi ed è finito in un campo di concentramento comunista. A 91
anni ha pubblicato il suo primo libro, un’autobiografia illustrata
Anatxu Zabalbeascoa, El País, Spagna. Foto di Yolanda vom Hagen figlio
minore, Shunzeng. Quella felicità durò poco. Nel 1956, sette anni dopo
la proclamazione della repubblica popolare, la casa editrice fu
nazionalizzata e nel 1958 Rao Pingru fu mandato in un campo di
rieducazione, come venivano chiamati i campi di concentramento creati da
Mao Zedong durante la rivoluzione culturale per le sue epurazioni.
Durante la guerra civile tra il partito nazionalista e quello comunista
Rao Pingru aveva combattuto con gli sconitti, i nazionalisti, e per
questo, senza essere neanche processato, fu spedito nella provincia di
Anhui. Passò i primi dieci anni nella brigata di scavo, poi lavorò in
una fabbrica che produceva componenti delle automobili. Nei 22 anni in
cui vissero separati, Rao Pingru e Meitang si vedevano solo due
settimane all’anno, quando lui tornava a Shanghai per festeggiare l’anno
nuovo con la moglie e i igli. Nel 1979, pochi mesi prima che nascesse
il primo nipote, Rao Pingru tornò a casa. La famiglia festeggiò
l’avvenimento nello studio di un fotografo. Un disegno nel libro ricrea
quel momento. Marito e moglie avevano già i capelli bianchi. A 96 anni,
Rao Pingru mostra un’agilità mentale e isica fuori dal comune. Cucina,
suona il pianoforte, disegna e ha scritto un altro libro. “Ma i miei
igli non mi fanno più andare in bicicletta”, si lamenta. Il iglio minore
spiega che gliel’hanno proibito dopo che aveva pedalato per venti
chilometri in cerca di tortini di riso ripieni di carne. “Ha perso la
chiave del lucchetto ed è tornato con la bicicletta in spalla”.
Shunzeng, il iglio minore, ha 64 anni e fa lo psichiatra. Anche lui è
stato mandato in un campo di rieducazione quando aveva quindici anni. Il
partito comunista voleva che gli studenti lavorassero la terra. Molti
dei suoi pazienti sono giovani. “Sono depressi perché non gli piace
quello che vedono, oppure sono ansiosi perché non ottengono quello che
vogliono”, racconta. Salvato da un libro Rao Pingru non ha mai perso le
speranze, nonostante la dura vita nei campi di lavoro. In quegli anni ha
imparato l’inglese. “Ogni giorno memorizzavo una frase. Quando ne ho
imparate 408 sono riuscito a parlare”. La durezza dei lavori forzati
variava da provincia a provincia: “Ad Anhui non abusavano troppo di noi.
Ci lasciavano decidere se potevamo portare trenta, quaranta o cinquanta
chili. Quando hanno scoperto che sapevo scrivere mi hanno messo a fare
degli articoli”. “Cosa scriveva?”, gli chiedo. “Storie di gente che
lavorava molto”, risponde lui. “Propaganda?”, gli dico, e lui ammette:
“Sì, propaganda”. Il carattere di Rao Pingru è stato la sua salvezza.
“Nel campo molti si sono suicidati. Era vietato studiare, ma io avevo un
libro in inglese. Sono sempre stato ottimista”. Come riusciva a
esserlo? “Quando mi sono arruolato nell’esercito a diciotto anni pensavo
che stavo salvando il mio paese dagli invasori giapponesi; poi dai
comunisti insorti di Mao Zedong”, racconta, “Non sapevo distinguere tra i
nazionalisti del Kuomintang e i comunisti. Non abbiamo capito di far
parte di una delle due fazioni fino a quando non siamo arrivati allo
scontro. Volevo lottare per la Cina, non contro i cinesi. Non mi sono
sacrificato per mantenere i
miei privilegi, pensavo di combattere
per il mio paese. Mi sono fatto forza sapendo di non aver fatto male a
nessuno. Non ho una grande casa né delle macchine, ma ho avuto una
moglie che mi capiva. So scrivere e disegnare, non sono un buono a
niente. Sapevo che se fossi riuscito a sopravvivere avrei visto la luce.
L’unica libertà di cui ho bisogno è quella mentale”. Il primo viaggio
Nel 2017 Rao Pingru ha viaggiato per la prima volta fuori dalla Cina. È
andato in Francia per presentare il suo libro al festival di Angoulême,
il salone del fumetto più importante del mondo. Era l’ospite d’onore.
“Le cose da mangiare e le abitudini sono diverse, ma il buon senso è lo
stesso: ci piace la pace e l’amicizia”, commenta Rao Pingru.
All’improvviso gli s’illuminano gli occhi e mi chiede: “Francisco Franco
era buono o cattivo?”. “Era un dittatore. Fece un colpo di stato. Non
fu un presidente eletto”, gli rispondo. “La democrazia è un’illusione”,
commenta. A quel punto gli dico: “Ha avuto dei problemi a pubblicare il
libro?”. Lui ribatte: “No. Il vecchio governo comunista ha fatto cose
terribili, ma anche altre buone. Quando aveva cinque anni, mio figlio si
perse e la polizia lo ritrovò”. “Quindi oggi va tutto bene?”, lo
incalzo. “Non tutto. Ci sono ladri, anche assassini. Ma non qui in
campagna. E neanche a Shanghai, perché è una città internazionale.
Facciamo progressi”, ribatte. “Il governo comunista però voleva
convincere sua moglie a divorziare”, aggiungo. “Ma lei ha detto che non
ero un assassino, un traditore o un cattivo marito. Quando l’ho
conosciuta era ricca, poi ha lavorato ino a quando ha retto. Credevamo
l’uno nell’altro. Questo ci ha salvato. Mia madre era buddista e ci ha
insegnato ad aiutare i poveri. Anche questo ci ha salvato. Abbiamo
sempre saputo convivere”. Oggi Rao Pingru vive insieme al figlio e alla
nuora in un appartamento di cento metri quadrati. Stanno lì anche la
nipote e il marito, che si sono conosciuti grazie al nonno. “Fa il
cameraman, è venuto a filmarmi. La mia nipote di 32 anni, che non era
mai stata fidanzata, si è innamorata”. I tempi sono cambiati, la moglie
era stata scelta da suo padre. “Meitang era la figlia di un suo
carissimo amico”. Da bambino, Rao Pingru viveva a Nanchang, capoluogo
della provincia dello Jiang xi, in una casa con sei cortili e una stanza
per le cerimonie buddiste. Aveva dei domestici, un salone per i
ricevimenti, uno studio per il padre, che faceva l’avvocato, e un
giardino dove la nonna coglieva i fiori da friggere. Nel libro parla del
suo ricordo più antico: la cerimonia che celebrava al risveglio. I
servi la facevano alle tre di notte. I genitori e il precettore
aspettavano davanti a un ritratto di Confucio. Sul tavolo c’erano un
pennello, della carta, l’inchiostro e una pietra da inchiostro. Il
precettore guidava la sua mano per tracciare i caratteri. Racconta anche
che, pur avendo domestici, da quando aveva otto anni era lui a servire
il riso ai genitori. “Queste tradizioni si sono perse. Eravamo ricchi,
ma la ricchezza non deve farti diventare stupido. Oggi i genitori
servono i figli continuamente”, spiega. Succede perché hanno un solo
figlio? “Ora se ne possono avere due, ma sono viziati. Da piccoli
imparavamo da Confucio e da Mencio che la tolleranza è la virtù
principale. E anche che la felicità è dentro di noi. Il comunismo
trattava allo stesso modo uomini e donne. L’idea alla sua base era
l’uguaglianza. Ma c’era anche tanta povertà”, risponde. “Quando sono
cambiate le cose?”, gli chiedo. “Quando la Cina si è aperta al mondo,
nel 1978. Deng Xiaoping ha portato la libertà”, mi risponde. “Cos’è
successo in piazza Tiananmen dieci anni dopo?”, gli dico allora. “Non
ricordo questo incidente. Non so di cosa stai parlando. La nostra vita è
migliorata. Non solo la mia. I vecchi ufficiali del partito comunista
sono stati sostituiti”, ribatte lui. Rao Pingru è così. Quando gli si
chiede se è libero, risponde: “Sono felice. Secondo la tradizione
cinese, quando una persona muore si scrive un epitaffio su due colonne.
Il mio è già pronto”. Lo recita cantando e poi lo traduce: “Quando il
nostro paese è stato in pericolo ho abbandonato l’accademia. Sono stato
alla scuola militare di Huangpu e sono diventato soldato. Ho combattuto
contro i giapponesi e non ho avuto paura di dare la vita per il mio
paese”. Poi fa una pausa e canta la seconda colonna: “Sono vecchio e
felice. La Cina vive un’epoca di prosperità con un governo vicino alla
gente. Per questo sorriderò quando abbandonerò questo mondo”. Dopo aver
cantato, aggiunge: “Sono abbastanza libero. Possiamo parlare con
stranieri come voi. Fino agli anni ottanta non potevamo farlo”. Rao
Pingru è critico nei confronti della nuova società cinese: “I giovani
hanno troppo. Non sanno cos’è la guerra. Vogliono solo divertirsi. Prima
non sapevamo niente su quello che ci circondava. Se sai cos’hanno gli
altri, vuoi averlo anche tu. Questo crea frustrazione e ansia. Quando
eravamo giovani, ci sentivamo tutti uguali. Per questo credevamo nel
comunismo. Adesso abbiamo perso gli ideali. La nostra salute è
migliorata, ma la vita spirituale è più povera. Confucio dice che tutti
vogliono essere ricchi ma che, se l’obiettivo viene raggiunto in modo
disonesto, rovina le persone”. Un uomo curioso Secondo Rao Pingru, ogni
generazione perde qualcosa e guadagna qualcosa. “Noi ci muovevamo in
bicicletta o in autobus. Oggi i miei figli e i miei nipoti vanno in
macchina”. Quando gli racconto che in Europa stiamo lasciando la
macchina per tornare alla bici, annuisce: “Siamo vent’anni indietro.
Questa è una fase di transizione e la gente vuole ottenere dei
cambiamenti immediati. Ma per i cambiamenti veri ci vuole tempo, anche
se arrivano delle novità come lo smartphone”. Lui non ce l’ha. “Ho paura
di diventare dipendente. Chi ce l’ha non lo molla mai”, spiega. Quando
lo saluto e mi rimetto le scarpe sulla soglia, chiedo se è comune che,
entrando in una casa cinese, ci si tolga le scarpe come in Giappone. “Sa
perché il Giappone è un paese così forte? Perché prima hanno imparato
da noi, e poi anche dal mondo occidentale. E hanno raggiunto la
prosperità”, dice. “Prima che disegnasse la sua vita, i suoi nipoti
sapevano com’era stata?”, gli chiedo. “Per niente. Per questo ho fatto
il libro. Ho cominciato la mia vita da ricco. Poi è arrivato un periodo
duro. Ora sono una persona normale, con una vita piena”, risponde lui,
“il mio segreto è la curiosità. Non ho mai smesso d’imparare. Una
persona educa con l’esempio, non con le parole. Oggi tutti hanno fretta e
tutto sembra avere la stessa importanza. Ma la cosa più importante è la
memoria. Se perdi i soldi, li puoi riguadagnare. La memoria è un’altra
cosa. Se la perdi, scompari”.