internazionale 11.5.18
Intrappolati
di Giovanni De Mauro 
Le
 riflessioni di Jay Rosen sulla campagna di Donald Trump per screditare 
la stampa, di cui si parlava qui la settimana scorsa, erano accompagnate
 da una lista di rischi, alcuni dei quali talmente concreti da essersi 
già verificati. C’è il rischio che una parte importante dell’elettorato,
 cioè chi sostiene il presidente statunitense, resti isolato nella sua 
bolla informativa, in cui Trump è la principale fonte d’informazioni su 
se stesso. C’è il rischio che i giornalisti facciano bene il loro lavoro
 ma che questo non serva a niente, perché i sostenitori di Trump lo 
rifiutano, gli avversari sono già convinti, e quelli incerti non gli 
prestano troppa attenzione. E c’è anche il rischio che i giornalisti non
 riescano a raggiungere i loro lettori semplicemente perché le 
piattaforme create dall’industria tecnologica hanno preso il sopravvento
 nell’orientare il dibattito pubblico. Ovviamente c’è il rischio che i 
giornalisti perdano il contatto con il resto del paese. E c’è il rischio
 che restino intrappolati in quel fenomeno che Rosen chiama view from 
nowhere: il tentativo di affermare la propria autorevolezza attraverso 
una falsa neutralità che consiste nel mettere a confronto versioni 
opposte di una storia come se fossero sullo stesso piano, anche se una 
delle due è evidentemente falsa. C’è il rischio che una serie di 
tecniche giornalistiche consolidate diventino armi spuntate: il 
cosiddetto fact checking, per esempio, non ha mai impedito a Trump di 
ripetere affermazioni completamente inventate. Martin Baron, il 
direttore del Washington Post, ripete spesso: “Non siamo in guerra, 
siamo al lavoro”. È vero, dice Rosen, ma c’è il rischio che i 
giornalisti non riescano a fare la distinzione tra opporsi a Trump, cioè
 fargli la guerra, che sarebbe sbagliato, e opporsi a un certo modo di 
far politica che sta pericolosamente erodendo il loro ruolo nel sistema 
democratico. 
 
