lunedì 14 maggio 2018

internazionale 11.5.18
La settimanale nostre scelte di oggi
Intrappolati
di Giovanni De Mauro


Le riflessioni di Jay Rosen sulla campagna di Donald Trump per screditare la stampa, di cui si parlava qui la settimana scorsa, erano accompagnate da una lista di rischi, alcuni dei quali talmente concreti da essersi già verificati. C’è il rischio che una parte importante dell’elettorato, cioè chi sostiene il presidente statunitense, resti isolato nella sua bolla informativa, in cui Trump è la principale fonte d’informazioni su se stesso. C’è il rischio che i giornalisti facciano bene il loro lavoro ma che questo non serva a niente, perché i sostenitori di Trump lo rifiutano, gli avversari sono già convinti, e quelli incerti non gli prestano troppa attenzione. E c’è anche il rischio che i giornalisti non riescano a raggiungere i loro lettori semplicemente perché le piattaforme create dall’industria tecnologica hanno preso il sopravvento nell’orientare il dibattito pubblico. Ovviamente c’è il rischio che i giornalisti perdano il contatto con il resto del paese. E c’è il rischio che restino intrappolati in quel fenomeno che Rosen chiama view from nowhere: il tentativo di affermare la propria autorevolezza attraverso una falsa neutralità che consiste nel mettere a confronto versioni opposte di una storia come se fossero sullo stesso piano, anche se una delle due è evidentemente falsa. C’è il rischio che una serie di tecniche giornalistiche consolidate diventino armi spuntate: il cosiddetto fact checking, per esempio, non ha mai impedito a Trump di ripetere affermazioni completamente inventate. Martin Baron, il direttore del Washington Post, ripete spesso: “Non siamo in guerra, siamo al lavoro”. È vero, dice Rosen, ma c’è il rischio che i giornalisti non riescano a fare la distinzione tra opporsi a Trump, cioè fargli la guerra, che sarebbe sbagliato, e opporsi a un certo modo di far politica che sta pericolosamente erodendo il loro ruolo nel sistema democratico.

internazionale 11.5.18
Trump non ha un piano migliore
The New York Times, Stati Uniti


Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha detto che abbandonare l’accordo sul nucleare iraniano gli permetterà di ottenere un accordo migliore, che limiterà anche il programma missilistico di Teheran e la sua influenza regionale. Vi suona familiare? Dovrebbe. È lo stesso tipo di promessa che Trump aveva fatto quando aveva annunciato il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima e quando aveva prospettato un piano migliore per la pace in Medio Oriente e per un’assistenza sanitaria più accessibile. Finora ha dimostrato di essere bravo a distruggere accordi, ma di non avere la profondità politica, la visione strategica e la pazienza per concluderne altri. Non c’è alcun motivo di credere che l’Iran o le altre potenze firmatarie dell’accordo aderiranno all’ipotetico nuovo piano di Trump. È più probabile che questa decisione permetta a Teheran di riprendere un consistente programma nucleare, avveleni i rapporti con gli alleati europei, eroda la credibilità degli Stati Uniti, crei le premesse per un vasto conflitto in Medio Oriente e renda più difficile raggiungere un buon accordo con la Corea del Nord sul suo programma nucleare. C’era da aspettarselo. Quest’uomo, che ha la reputazione del negoziatore nonostante una lunga serie di bancarotte e processi, ha violato un bel po’ di accordi senza riuscire a sostituirli con qualcosa di meglio. Per esempio quello di Parigi, approvato dal suo predecessore Barack Obama: Trump l’ha definito “una truffa” ai danni degli Stati Uniti e a giugno del 2017 ha annunciato di volerlo abbandonare e di essere disponibile a rinegoziarlo. Poi non ha fatto niente. Nel frattempo la sua amministrazione continua a smantellare le norme per la protezione dell’ambiente, anche se quasi duecento paesi restano fedeli all’accordo. Un altro esempio è il Deferred action for childhood program (Daca), anch’esso voluto da Obama, che rinviava l’espulsione di 800mila immigrati irregolari arrivati quand’erano minorenni. Trump ha detto di volerlo migliorare, invece ha ordinato un giro di vite che ha separato moltissime famiglie. Anche il muro al conine meridionale, caposaldo della sua campagna elettorale, che avrebbe dovuto essere pagato dal Messico, è ancora un miraggio, e le poche parti in costruzione le stanno pagando gli Stati Uniti. Una delle prime iniziative di Trump è stata uscire dal Trattato di libero scambio nel Pacifico (Tpp), che aveva definito “uno stupro”. Il mese scorso ha accennato alla possibilità di rientrarci, poi ha fatto di nuovo marcia indietro. Inoltre c’è l’Accordo nordamericano per il libero scambio (Nafta), che Stati Uniti, Messico e Canada non sono ancora riusciti a rinegoziare dopo mesi di trattative. Per quanto riguarda la Cina, che Trump voleva costringere a fare delle concessioni sul commercio, gli ultimi negoziati si sono conclusi senza allontanare la prospettiva di una guerra commerciale. L’unico accordo su cui Trump sembra aver ottenuto qualche successo è quello di libero scambio con la Corea del Sud, ma ha rinviato la firma perché vuole avere delle carte da giocare nel negoziato con la Corea del Nord. Cancellare Obama Trump sembra ossessionato dall’idea di cancellare l’eredità del suo predecessore, e poche cose lo irritano come l’accordo con l’Iran, il più grande successo diplomatico di Obama. L’accordo, firmato nel 2015 da Washington, Teheran e altre cinque potenze, prevedeva che l’Iran limitasse significativamente il suo programma nucleare in cambio di un alleggerimento delle sanzioni. Gli ispettori internazionali e i servizi segreti statunitensi e israeliani hanno dichiarato che Teheran lo sta rispettando. Ma a Trump questo non importa. Lui e i suoi alleati, il premier israeliano Benjamin Netanyahu e l’Arabia Saudita, sembrano convinti che il modo migliore di risolvere i loro problemi con l’Iran sia rovesciare il regime con una crisi economica o con la forza militare. Prima di decidere d’imporre “il massimo livello di sanzioni” contro i paesi che faranno affari con l’Iran, Trump aveva assegnato alla Francia, alla Germania e al Regno Unito l’incombenza di risolvere i “difetti” dell’accordo. Per mesi gli europei avevano sostenuto di poterlo fare con un accordo complementare, senza toccare quello sul nucleare, ma il tentativo è fallito perché Trump insisteva per rivederlo. C’è da dubitare che il presidente volesse davvero un compromesso. Gli europei e gli iraniani, che dicono di voler continuare a rispettare il patto, sperano di poter gestire le conseguenze. Ma anche se afferma di essere “pronto, disponibile e capace” di negoziare un nuovo accordo, Trump non ha un piano B, a parte aumentare la pressione sull’Iran. Sembra un messaggio incoerente e controproducente, ora che con la Corea del Nord il presidente è passato dalle minacce alla diplomazia e si prepara a incontrare Kim Jongun per convincerlo ad abbandonare il suo programma nucleare, che ha già prodotto un arsenale comprendente tra le 20 e le 60 testate: perché Kim dovrebbe credere che gli statunitensi rispetteranno un patto? Se con l’Iran la posta in gioco è alta, con la Corea del Nord lo è ancora di più. Anche quello si rivelerà un accordo irraggiungibile per Trump?

Da sapere
Accordo ancora in piedi
L’8 maggio 2018 il presidente statunitense Donald Trump ha annunciato di voler uscire dall’accordo sul nucleare iraniano. L’accordo era stato firmato nel 2015 dall’Iran, dai cinque paesi con diritto di veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu (Francia, regno Unito, Stati Uniti, Russia e Cina), dalla Germania e dall’Unione europea. In base al documento finale, l’Iran si impegnava a ridurre la sua capacità di arricchimento dell’uranio (un passaggio fondamentale per la produzione di un’arma nucleare), e otteneva in cambio l’eliminazione progressiva delle sanzioni economiche imposte dalla comunità internazionale negli anni precedenti. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, finora Teheran ha sempre rispettato l’accordo. Nei prossimi mesi gli Stati Uniti ricominceranno ad applicare le sanzioni economiche contro l’Iran, ma non è detto che questo porterà alla fine dell’accordo. regno Unito, Francia, Cina, Russia e Germania hanno dichiarato di volerlo rispettare e di non voler riattivare le sanzioni. Se invece l’accordo saltasse, l’Iran potrebbe riprendere il suo programma nucleare nel giro di pochi mesi. Bbc

internazionale 11.5.18
Stati Uniti
Il passo indietro dell’Iowa


Il 5 maggio Kim Reynolds, governatore dell’Iowa, ha ratificato la legge sull’aborto più restrittiva degli Stati Uniti. Il provvedimento, voluto dai repubblicani che controllano il parlamento dello stato, proibisce l’interruzione di gravidanza dal momento in cui è possibile sentire il battito del cuore del feto. Secondo quelli che criticano la legge, questo significa che l’aborto sarà illegale dalla sesta settimana di gravidanza, cioè prima che molte donne si rendano conto di essere incinte. “In parlamento le donne sono state descritte come assassine immorali ed egoiste”, scrive il Des Moines Register. “Il repubblicano Cecil Dolecheck ha dichiarato che solo dio ha il diritto di mettere fine a una gravidanza”. L’opposizione farà ricorso e la legge potrebbe finire davanti alla corte suprema. Chi è contrario all’aborto spera che alla fine il massimo organo della giustizia statunitense revochi la sentenza Roe contro Wade del 1973, che ha reso legale l’aborto.

internazionale 11.5.18
Attualità
L’Irlanda decide sull’aborto
Di Órla Ryan, Financial Times, Regno Unito
Nel paese l’interruzione di gravidanza è sempre stata illegale. E per decenni il tema è stato tabù. Ma oggi un referendum può cambiare tutto


Poche ore dopo aver abortito a Liverpool, Jennifer Ryan era sulla via del ritorno verso Dublino, con il cadavere del suo bambino in una bara nel bagagliaio della macchina e il riscaldamento spento per evitare che si decomponesse. Con il suo compagno, Dave, aveva deciso che dopo l’intervento – in cui il feto riceve un’iniezione per fermare il cuore e viene poi dato alla luce – lo avrebbero seppellito in Irlanda. L’incubo di Jennifer era cominciato nell’ottobre del 2012, quando, alla ventiduesima settimana di gravidanza, un’ecografia aveva rivelato che il feto non sarebbe sopravvissuto. “Era affetto da una forma grave di spina bifida. Non aveva i reni. I polmoni non potevano svilupparsi. E non avrebbe potuto respirare”, racconta. I medici le avevano spiegato che le severissime leggi irlandesi sull’interruzione di gravidanza – l’ottavo emendamento alla costituzione garantisce al feto lo stesso diritto alla vita della madre – le lasciavano una sola alternativa. “Puoi portare avanti la gravidanza e ti controlleremo ogni settimana per indurre il parto quando il cuore del feto smetterà di battere. Oppure puoi partire”. Partire – un eufemismo che in Irlanda riecheggia secoli di emigrazioni – voleva dire andare ad abortire nel Regno Unito. L’esperienza era stata resa ancora più traumatica dalla necessità di mantenere il segreto. “Torni a casa e vorresti parlarne, ma hai paura di raccontare tutto”. Una settimana dopo l’operazione di Jennifer, nell’ottobre del 2012, Savita Halappanavar, 31 anni, è morta di setticemia in seguito a un aborto spontaneo prolungato in un ospedale di Galway. Rendendosi conto che stava avendo un aborto spontaneo aveva chiesto più volte un’interruzione di gravidanza d’emergenza. Nessuno l’ha ascoltata. “La morte di Savita è stata un evento cruciale”, spiega la femminista irlandese Ailbhe Smyth. “La gente era scandalizzata. Era evidente che bisognava fare qualcosa”. Consapevole di non poter più ignorare un tema così delicato, nel 2013 il parlamento ha approvato una legge per chiarire la normativa in vigore, confermando che l’interruzione di gravidanza è permessa in caso di comprovato e sostanziale rischio per la vita della madre. Ma in un paese dove secondo le stime ogni anno tremila donne vanno ad abortire nel Regno Unito o usano farmaci abortivi illegali, il caso di Savita aveva aperto il dibattito sulla legalizzazione dell’aborto. E la discussione è arrivata a un momento di svolta: il 25 maggio in Irlanda si terrà un referendum per decidere se abrogare l’ottavo emendamento. Senza questo passo qualsiasi riforma della legge sull’interruzione di gravidanza è impossibile. A pochi giorni dal voto l’atmosfera in Irlanda è estremamente polarizzata. Da una parte c’è chi è convinto che la vita umana cominci con il concepimento; dall’altra chi non crede che l’ottavo emendamento abbia salvato migliaia di bambini. “Le irlandesi conoscono bene l’aborto”, spiega la dottoressa Rhona Mahony, prima donna a dirigere il National maternity hospital di Dublino. “Ma se vogliono sottoporsi a un’interruzione di gravidanza sono costrette ad andare all’estero”. Jennifer Ryan e Dave oggi sono sposati e hanno tre figli: Ava, dodici anni, Hannah, quattro, e Eoghan, due. Davanti a una tazza di tè nella loro casa in un palazzo nuovo a sud di Dublino, Jennifer, che oggi ha 31 anni, ricorda i fatti di sei anni fa. A colpirla non fu solo la diagnosi dei problemi del feto, ma Attualità anche la mancanza di risposte da parte dei medici. Si limitarono a darle un foglio con nomi e numeri di telefono di alcuni ospedali britannici. Per raccogliere i tremila euro necessari Jennifer e Dave usarono tutti i loro risparmi e chiesero dei soldi in prestito. E partirono “terrorizzati e di nascosto”. La scuola cattolica In caso di vittoria del sì al referendum del 25 maggio, il governo ha annunciato che proporrà una legge per consentire l’interruzione di gravidanza ino alla dodicesima settimana, e anche oltre se ci sono seri rischi per la salute della madre o se il feto non può sopravvivere. Una legge simile sarebbe in linea con quelle della maggior parte dei paesi europei. Ma per l’Irlanda si tratterebbe di un grande cambiamento. Il referendum con cui nel 2015 è stato legalizzato il matrimonio tra persone dello stesso sesso è stato salutato come il segno che il paese stava prendendo le distanze dalle sue radici cattoliche dopo anni di scandali. A Dublino, nella sede degli attivisti fa vorevoli alla legalizzazione dell’aborto, Ailbhe Smyth mi spiega che, anche continuando a considerarsi cattolica, la stragrande maggioranza degli irlandesi “non accetta l’autorità della chiesa nelle questioni che riguardano l’etica privata”. L’interruzione di gravidanza, tuttavia, occupa un posto particolare nella coscienza degli irlandesi. E il referendum servirà per capire quanto davvero è cambiato il paese. “Per secoli ci è stato detto che l’aborto è un omicidio”, spiega Smyth. “È un tema che fa discutere”. Per comprendere il rapporto tra l’Irlanda e l’aborto bisogna tornare al 1983 e al referendum che ha introdotto nella costituzione l’ottavo emendamento. All’epoca ero una ragazzina di dodici anni che viveva in una piccola città dell’Irlanda sudorientale, ma ricordo bene quei fatti. Le interruzioni di gravidanza erano già illegali, ma temendo un allentamento delle regole, i politici e il clero decisero di blindare la normativa nella costituzione. L’ombra della sentenza Roe vs Wade, che nel 1973 aveva di fatto riconosciuto il diritto all’aborto negli Stati Uniti, era sempre più incombente. E poi l’Irlanda sarebbe potuta diventare la capofila nella lotta contro l’aborto. Nelle scuole cattoliche, che nel paese erano la maggioranza, si insegnava che la vita comincia con il concepimento. Ricordo che una volta la Società per la protezione del bambino nel ventre organizzò nella mia scuola media delle lezioni sull’aborto. Tutti eravamo d’accordo che abortire significava uccidere. Ci dicevano che l’aborto, oltre a essere un omicidio, era un pericolo per la salute delle donne incinte. Le ragazze sfoggiavano un piccolo adesivo che mostrava il piede di un neonato, il simbolo del movimento per la vita. Oltre a quelli sugli adesivi, c’erano anche i bambini in carne e ossa. Qualche mese dopo l’approvazione dell’ottavo emendamento, una ragazza di 15 anni di Langford uscì dalla sua aula per andare a partorire in una grotta che era anche un luogo di preghiera. Morì pochi giorni dopo. Poi fu ritrovato un bambino morto su una spiaggia di Kerry. E un altro sepolto in una fattoria. Le donne non sposate davano i neonati in affidamento e, se li tenevano, rischiavano di essere considerate “merci danneggiate”. All’epoca essere contro l’aborto sembrava inevitabile per chi era cattolico. Ed essere irlandesi voleva dire essere cattolici. Era impossibile immaginare che le cose cambiassero. Il dibattito del 1983 fu talmente radicale che alcuni lo considerano “la seconda spaccatura dell’Irlanda” dopo quella del 1921, che portò alla divisione tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord. Con il senno di poi, tutto questo parlare di divisioni mi sembra strano. Non ho mai conosciuto qualcuno che fosse favorevole all’aborto ino a quando non mi sono trasferita nel Regno Unito, a 17 anni. In Irlanda era impossibile avere un’opinione diversa. Ma com’è cambiata la mentalità degli irlandesi? Essere favorevole all’aborto nel 1983 significava far parte di una frangia estremista. L’ottavo emendamento fu approvato con il 67 per cento dei voti. Smyth è convinta che oggi “molte più persone siano su posizioni moderate: non si considerano favorevoli all’interruzione di gravidanza, ma pensano che sia necessario fare qualcosa per risolvere il problema”. Un altro fattore importante è la minore influenza della chiesa. “Non credo che per chi ha meno di 45 anni il primo impulso sia quello di definirsi irlandesi e cattolici”, dice Smyth. Anche l’apertura dell’Irlanda ha avuto un ruolo rilevante. Oggi il paese è molto meno insulare di quanto non fosse trent’anni fa. Le donne hanno il coraggio di raccontare le loro esperienze. E l’aborto è sempre meno una questione morale e sempre più una questione sanitaria. Mille sfumature A Dublino il Maternity hospital di Holles street, gestito da Rhona Mahony, è famoso perché James Joyce ne ha scritto nell’Ulisse. “Leggete il capitolo su Holles street, con il suo linguaggio pornografico, e capirete perché Joyce è stato bandito dall’Irlanda per tanto tempo”, scherza Rhona, che ha 47 anni. Ma la sua risata si spegne quando comincia a parlare delle leggi irlandesi sull’interruzione di gravidanza e del loro impatto su pazienti e medici. I medici possono eseguire l’interruzione di gravidanza se la vita della madre è in pericolo, ma vanno incontro a quattordici anni di carcere se prendono la decisione sbagliata. “Qual è un rischio di morte concreto? Dieci per cento? E come può la donna far sentire la sua voce?”. Alcune infezioni, come la corioamniosi, mettono a rischio la vita della madre, spiega Rhona. “Una donna può sembrare perfettamente sana alle nove del mattino ed essere moribonda all’ora di pranzo. Come si fa a stabilire il limite da non superare? Ed è il colmo dell’ipocrisia che in base al tredicesimo emendamento, introdotto nel 1992, una donna può abortire legalmente all’estero, mentre se interrompe la gravidanza in Irlanda rischia quattordici anni di carcere”. Per Rhona è il principio alla base dell’ottavo emendamento a essere sbagliato: “Se una madre muore, muore anche il bambino. Non ha senso parlare di pari diritto alla vita se prima non si valutano le possibilità di sopravvivenza del feto”. Quest’idea è generalmente accettata a Dublino e nelle città irlandesi. “C’è stato un grande silenzio sull’aborto per molto tempo”, spiega Cara Sanquest, 27 anni, studente di giurisprudenza al Trinity college di Dublino. “Siamo un popolo premuroso e buono: costringere le donne a uscire dal paese per ottenere una prestazione sanitaria non è coerente con la nostra natura”. In altre aree del paese, tuttavia, sopravvive un profondo conservatorismo. Clonmel, nella contea di Tipperary, è nel cuore rurale dell’Irlanda. Un poster appeso nel convento francescano proclama che l’aborto uccide 120mila bambini al giorno e invita a recitare il rosario per impedire l’abrogazione dell’ottavo emendamento. Accanto c’è una pila di volantini con preghiere speciali per salvare l’Irlanda dalla “piaga dell’aborto”. Bridget ha 74 anni ed è appena stata a messa. “Conosco persone che hanno subito un aborto. Non mi chieda come. Si sono rovinate la vita”, dice. Una donna si è suicidata. “È stato il senso di colpa. Voterò per salvare l’ottavo emendamento, altrimenti sottoporsi a un aborto diventerà facile come farsi togliere un dente”. Una mattinata di conversazioni mi permette di conoscere l’opinione di dieci persone, soprattutto donne, di diverse età. Più della metà è antiabortista. Alcuni sono indecisi. Un uomo di 48 anni mi confessa di essere favorevole alla libertà di scelta, ma sottolinea che il dibattito è stato offuscato dalle preoccupazioni sulla legge che potrebbe essere approvata dopo il voto. “Gli elettori vogliono poter scegliere liberamente”, mi confessa, “ma non vogliono essere responsabili della morte di un feto alla tredicesima o quattordicesima settimana”. Mattie McGrath, deputato di Clonmel, è famoso in Irlanda per le sue idee antiabortiste e ha partecipato alle manifestazioni in difesa dell’ottavo emendamento. Il suo ufficio è tappezzato di foto che lo ritraggono a fiere e inaugurazioni. Su un tavolino ci sono volantini antiabortisti. Si presenta come uomo di famiglia e mi mostra una foto dei suoi otto figli. “Penso che la vita sia vita, dal concepimento alla morte. Se uccidi un bambino di una settimana è omicidio. L’aborto è stato sdoganato dai giornali di Rupert Murdoch. Puoi dire quello che vuoi, ma nei comandamenti è scritto ‘non uccidere’”. Il giudizio degli altri Quando gli racconto la storia di Jennifer Ryan, McGrath mi risponde che “dev’essere stata un’esperienza devastante”, ma aggiunge che “nessun medico può dire quanto a lungo vivrà un bambino”. Secondo McGrath ci dovrebbe essere un sistema di aiuti per le famiglie che vivono situazioni simili e si dovrebbe puntare sulle adozioni. La sua opposizione all’interruzione di gravidanza è accompagnata dalla profonda convinzione che “l’Irlanda rurale è stata abbandonata. A Dublino ci considerano un fastidio, pensano che siamo dei bifolchi”. I leader dei principali partiti irlandesi sono per l’abrogazione, ma molti deputati sono combattuti. McGrath cerca di ragionare sul lungo periodo: “Se il referendum passerà non credo che il governo riuscirà a far approvare subito una nuova legge sull’aborto. La strada è ancora lunga”. Le idee di McGrath incombono su Clonmel. “Siamo svantaggiati: McGrath è il nostro deputato, ma non rappresenta tutti”, spiega Anita Byrne, madre, casalinga e attivista per legalizzazione dell’aborto mentre distribuisce volantini su O’Connell street. Anche se i vescovi irlandesi hanno invitato la popolazione a salvare l’ottavo emendamento, McGrath e altri leader antiabortisti stanno cercando di prendere le distanze dalla chiesa cattolica, che ha perso gran parte della sua credibilità. “I militanti per l’abrogazione dell’emendamento vogliono far pensare che si tratti di una questione religiosa, legata alla chiesa cattolica. Ho incontrato molti ragazzi e ho scoperto che la questione per loro non riguarda la fede, ma i diritti umani”, spiega Cora Sherlock, 42 anni, vicepresidente della campagna per la vita. Scrittrice e avvocata, Cora si batte contro l’aborto dagli anni novanta. Mi racconta di essere stata insultata sul web per le sue idee, ma anche di avere ricevuto l’appoggio di molti irlandesi. Le chiedo perché le donne non debbano essere considerate capaci di scegliere da sole. “Mi ido delle donne, sono una donna. In Irlanda è il movimento per la libertà di scelta a non aver iducia in loro. Cerca di tenerle all’oscuro di informazioni vitali. Nessun comitato pubblico o parlamentare si è occupato del reale sviluppo del bambino nel grembo”. Cora non ritiene che le vecchie vicende di abusi legate alla chiesa cattolica, come la storia delle lavanderie Magdalene, dov’erano coninate le giovani madri non sposate, abbiano a che fare con il voto. “Per fortuna è una storia di molti anni fa. Non credo sia giusto parlarne nel contesto dell’aborto”, dice. Continuando il mio giro per l’Irlanda, mi pare sempre più evidente che per molti il passato è ancora presente. A Greystones, una località costiera a sud di Dublino, incontro Gaye Brennan e suo marito Gerry Edwards. Nel 2001 andarono ad abortire all’estero alla ventiduesima settimana di gravidanza dopo aver scoperto che il feto presentava un’anomalia nel tubo neurale e non aveva possibilità di sopravvivere. “Ci siamo sentiti abbandonati”, racconta Edwards. “Ti senti giudicato dal tuo paese, da tutti. Completamente solo”. Fortunatamente Gaye e Gerry avevano l’appoggio delle loro famiglie. Mentre parliamo, la madre di Gaye, Stephanie, ci porta il caffè e una torta. E ci racconta una storia: negli anni settanta un giorno ricevette una telefonata di un’amica, impiegata in un centro per le donne, che le chiedeva di raggiungerla in una vicina cabina telefonica. Dentro c’era una ragazza di 17 o 18 anni che aveva partorito un bambino e lo aveva avvolto in una tenda. Stephanie portò la giovane in ospedale, dove un’infermiera la accolse così: “Dovrebbe vergognarsi, che le sia da lezione. Così la smetterà di fare l’oca”. Il bambino fu dato in adozione. Negli ultimi anni molte donne hanno deciso di farsi avanti e raccontare la loro storia. Gli attivisti per l’abolizione dell’ottavo emendamento sperano che questo possa aiutare la causa. Tuttavia, confessare pubblicamente un aborto può essere ancora traumatico. Quando l’attrice Tara Flynn ha raccontato della sua interruzione di gravidanza, un dirigente del partito Fine gael (al governo) ha scritto su Twitter che l’attrice “non voleva occuparsi del bambino e per questo l’ha fatto ammazzare”. In seguito l’uomo si è dimesso. Incontro Flynn a Dublino. È reduce dallo spettacolo Not a funny word, in cui, da sola sul palco, racconta la storia del suo viaggio nei Paesi Bassi, per abortire. “Avevo 37 anni, ero un’attrice single. Non avevo molti soldi e non volevo diventare madre, racconta. Lo stigma e la vergogna hanno pesato molto sulla sua coscienza. “Dovevo mantenere il segreto: temevo che se avessi parlato le persone mi avrebbero abbandonata”, spiega. “Mi hanno fatto sentire una criminale. È una sensazione opprimente. Ti senti isolata”. Nel suo spettacolo non ci sono facili battute ma solo umorismo nero, che secondo Flynn può avere un efetto lenitivo. Il destino delle donne che hanno avuto esperienze simili la tormenta. “Sono triste per le donne che vivono con questo peso. Le abbiamo abbandonate”. Indecisi alle urne Poco più di un anno dopo il viaggio a Liverpool, Jennifer Ryan ha dato alla luce Hannah. Prima del parto ha raccontato la sua storia a un’ostetrica, che le ha confessato di aver vissuto un’esperienza simile dieci anni prima. Jennifer era la prima persona, oltre al marito, a cui l’avesse conidato. È stato allora che Jennifer ha deciso di parlare, nella speranza che la sua storia possa convincere qualcuno a cambiare idea sull’aborto. Per diverso tempo i sondaggi hanno registrato un forte sostegno per l’abrogazione dell’ottavo emendamento, ma con l’avvicinarsi del 25 maggio le percentuali stanno cambiando. Secondo un recente sondaggio, il 47 per cento degli elettori è favorevole all’abrogazione, il 28 per cento è contrario e il 20 per cento è ancora indeciso. “A volte sono molto ottimista, altre volte… Si vota sì o no, e per molti è una decisione diicile. In mezzo ci sono posizioni diverse”, spiega Jennifer. Gli antiabortisti considerano il voto una battaglia per salvare vite umane. “Quando un bambino entra nel continuum della vita merita la stessa protezione di qualsiasi essere umano”, sottolinea Cora Sherlock. Gli attivisti per la libertà di scelta, invece, hanno una visione diversa. E fanno notare che nel giorno del voto, come succede ogni giorno, nove donne irlandesi andranno ad abortire all’estero. Qualsiasi cosa succeda, spiega Rhona Mahony, “gli aborti continueranno. Perché le donne abortiscono in dalla notte dei tempi”.
Órla Ryan è una giornalista irlandese. Ha scritto Chocolate nations. Living and dying for cocoa in West Africa (Zed Books 2012).

Da sapere
Il voto e le leggi
Il 25 maggio 2018 in Irlanda si terrà un referendum sull’abrogazione dell’ottavo emendamento alla costituzione, che mette sullo stesso piano il diritto alla vita del feto e quello della madre, e che rende illegale l’aborto praticamente in ogni circostanza, compreso lo stupro della donna, l’incesto o l’anomalia del feto. L’interruzione di gravidanza è permessa solo in caso di rischio “reale e sostanziale” per la vita della donna. Secondo un sondaggio dell’Irish Times e dell’agenzia Ipsos Mrbi, il 47 per cento degli elettori è favorevole all’abrogazione dell’emendamento, il 28 per cento è contrario e il 20 per cento è indeciso.
In Europa gli altri paesi con leggi molto restrittive in materia sono la Polonia, dove l’interruzione di gravidanza è consentita solo in caso di stupro, danni al feto e rischio grave per la salute della donna, e Malta, dove è vietata in ogni circostanza.

internazionale 11.5.18
Le opinioni
Lotta di classe nelle scuole americane
Di Sarah Jaffe


Alla ine l’eredità politica più importante della crisi del 2008 e della grande recessione potrebbe essere il cambiamento del modo in cui gli statunitensi considerano la loro appartenenza di classe. Lo scoppio della bolla immobiliare e l’aumento della disoccupazione hanno fatto capire a milioni di americani che bastavano un paio di stipendi mancati per mandare in fumo la loro vita da “classe media”. La fase acuta della crisi è stata superata, ma molti posti di lavoro sono stati persi e sono stati sostituiti da impieghi più precari e con stipendi più bassi. Ora, mentre si moltiplicano le proteste degli insegnanti della scuola pubblica, il New York Times attira la nostra attenzione su un altro aspetto dell’eredità del 2008: il declino nella qualità dei posti di lavoro nel settore pubblico statunitense. “La globalizzazione e l’automazione non sono le uniche forze responsabili della perdita del posto fisso. Anche la contrazione del settore pubblico lo è”, si legge sul New York Times. Il giornale sottolinea che oggi gli impiegati pubblici rappresentano la quota più piccola della forza lavoro del paese dal 1967. Ma quando si discute di queste cose spesso ci si dimentica del fatto che parliamo di persone in carne e ossa. La distruzione della classe media statunitense non è avvenuta per caso. È stata pianificata. Peggiorare la qualità del lavoro nel settore pubblico è una strategia precisa, che risale ai tempi di George W. Bush. I politici che seguono questa strategia ripetono che la diminuzione dei posti di lavoro nel settore pubblico porterà a un miglioramento dell’economia, ma in realtà finora ha avuto l’effetto opposto. L’attuale governatore del Wisconsin, Scott Walker, non ha semplicemente licenziato i dipendenti pubblici, ma ha peggiorato la qualità del loro lavoro. Walker ha dato il via all’ondata antisindacale del 2011, abbassando il potere contrattuale dei dipendenti pubblici. Il governatore e i suoi alleati li hanno descritti come lavoratori con salari troppo alti, che pesano sui contribuenti, quando in realtà hanno stipendi più bassi rispetto ai lavoratori del settore privato. Gli sforzi di Walker si sono tradotti subito in salari più bassi e condizioni di lavoro peggiori. Secondo gli insegnanti sono state introdotte nuove leggi che regolano le loro attività extralavorative e perfino il modo di vestirsi. Alcuni raccontano che gli è stato impedito di andare in bagno durante l’orario di lavoro. L’attuale rivolta degli insegnanti nasce da un decennio di politiche di questo tipo. Durante le primarie del Partito repubblicano Donald Trump aveva promesso di creare nuovi posti di lavoro. Ma a Trumplandia alcuni lavori sono più importanti di altri: i discorsi del presidente si concentrano sul settore privato e sulla forza lavoro maschile. La devastazione provocata dalla chiusura delle fabbriche è reale, ma la mancanza di attenzione per i dipendenti pubblici ha distorto la nostra percezione del declino economico. Quella che chiamavamo classe media si reggeva sulle spalle dei lavoratori sindacalizzati nel settore pubblico e privato. Molti di loro in realtà appartenevano alla classe operaia. Quando negli anni settanta è cominciato il declino dei sindacati, la classe operaia è riuscita a sopravvivere grazie all’ingresso di un numero crescente di donne nella forza lavoro e grazie ai debiti. Mentre le persone erano costrette a lavorare sempre di più per mantenere il loro stile di vita, quella che la scrittrice Barbara Ehrenreich ha definito la “paura di cadere” (lo “stato di ansia” evidente tra gli elettori di Trump) ha stretto la sua morsa. La conseguenza è l’attuale ritorno alle forme di protesta del passato, oltre al rinnovato interesse nei sindacati anche nel giornalismo. Inoltre a destra il nazionalismo bianco ha acquisito una nuova rispettabilità borghese, perché i bianchi cercano un capro espiatorio per il peggioramento delle loro condizioni. Il fatto che i suprematisti sfruttino la “paura di cadere” per reclutare nuovi sostenitori ci ricorda quanto è importante capire bene la situazione. Il cambiamento più signiicativo però è il fatto che un numero sempre maggiore di persone ormai s’identiica con la classe operaia. Molti cominciano a capire quella che un tempo si chiamava coscienza di classe. Oggi, mentre scrivo, i laureati della Columbia university stanno manifestando al ianco dei lavoratori del settore edile. Questo forse è l’aspetto più sorprendente della rivolta degli insegnanti statunitensi: non si basa sulla rispettabilità della classe media, ma sulla solidarietà e la militanza tipica della classe operaia. I professori chiedono un aumento di stipendio per gli autisti e i camerieri. E preparano i pasti ai loro studenti che hanno bisogno di qualcosa da mangiare per il ine settimana. In cambio gli studenti e i genitori hanno manifestato al loro ianco. Gli insegnanti hanno scioperato in West Virginia indossando una bandana rossa in onore delle battaglie dei minatori del secolo scorso. Dopotutto, fu quella lotta a far nascere la cosiddetta classe media. È il segnale più incoraggiante che ci è arrivato da quando Trump è stato eletto.

Sarah Jaffe è una giornalista e attivista statunitense. Il suo ultimo libro è Necessary Trouble. Americans in revolt (Avalon Publishing Group 2017). Questa column è uscita sul New Republic.
internazionale 11.5.18
Regno Unito
La rivoluzione di Momentum
Di Peter Nonnenmacher, Republik, Svizzera
Da quando Jeremy Corbyn è diventato leader del Partito laburista gli iscritti sono triplicati. Il merito è anche di un’organizzazione che ha saputo coinvolgere i militanti di sinistra con nuove forme di partecipazione


Nessuno sa ancora quando si terranno le prossime elezioni legislative nel Regno Unito. Con il caos della Brexit tutto è possibile, anche che alla fine si vada alle elezioni anticipate, come nel 2017. Comunque sia, migliaia di attivisti del partito laburista britannico si danno da fare per essere pronti a dare battaglia da un momento all’altro. Non solo: in d’ora vogliono mettere alle strette i singoli parlamentari conservatori, con iniziative pubbliche al grido di unseat (mandateli a casa). Nei collegi elettorali in mano ai conservatori, come quello dell’ex ministra dell’interno Amber Rudd a Hastings, nel Sussex, è già in corso una vivace campagna in vista del voto. Alle elezioni per la camera dei comuni non ci sono liste plurinominali, perciò ogni seggio va difeso singolarmente. E chi ha una maggioranza risicata come Rudd rischia seriamente di perderla appena cambia il vento a livello locale. Anche altri esponenti dei tory, come il ministro degli esteri Boris Johnson, temono di finire vittime di un’offensiva della sinistra alle prossime elezioni. Quel che sorprende di più, però, è il nervosismo manifestato da molti parlamentari laburisti. Infatti gli attivisti del loro partito non hanno dichiarato guerra solo ai conservatori al governo: vogliono anche mettere in riga i propri rappresentanti. E vogliono un partito che segua “la volontà della base”, che sostenga il segretario Jeremy Corbyn, fautore della sinistra socialista, che punti a una “trasformazione radicale della società”. Rattoppare il sistema con qualche riforma, come in passato, non basta più. Tra i laburisti chi la pensa diversamente parla terrorizzato di una “guardia pretoriana” che vorrebbe eliminare ogni dissenso. Secondo il vice di Corbyn, Tom Watson, questi pretoriani “somigliano un po’ a una folla inferocita”. È nato “un partito nel partito” che vuol conquistare i posti di comando, si lamenta il deputato Owen Smith. La stampa di destra del paese taglia corto parlando di “fanatici”, di “setta” e addirittura di un “mostro” nato a sinistra. E il “mostro” si chiama Momentum. La parola inglese momentum si potrebbe tradurre con “impulso” o “slancio”. La democrazia di base aveva bisogno di un’organizzazione come Momentum, che esprimesse “un nuovo modo di fare politica”, dicono quelli che ne fanno parte. Chi si sente scavalcato dalla “nuova politica”, invece, parla di un apparato che con metodi meschini cerca di fare piazza pulita dei laburisti moderati. Come se la sinistra radicale si vendicasse in ritardo dell’epoca di Tony Blair. L’ex vicesegretario dei laburisti, Roy Hattersley, ha lanciato l’allarme: a causa di Momentum, il partito sarebbe sull’orlo della “peggiore crisi della sua storia”. Tutta questa attenzione non stupisce: in poco tempo Momentum ha fatto molta strada. Dal gennaio del 2018 ha una netta maggioranza nel National executive committee (Nec), la direzione del Partito laburista. Quindi può cambiare le regole del gioco, prendere le decisioni più importanti sul personale politico, inluenzare la scelta dei candidati. Il gruppo parlamentare laburista alla camera dei comuni, che una volta era determinante, si sente completamente esautorato. I suoi esponenti temono che, se non dimostreranno di essere fedeli al segretario, prima delle prossime elezioni legislative saranno tolti di mezzo da un voto interno. Secondo il guardian alcuni parlamentari e candidati avrebbero già irmato le dichiarazioni di fedeltà stilate da Momentum. In ila per il comizio Ma cos’è questo gruppo capace di provocare tanto scompiglio? Non ha neanche tre anni, ma nel corso della sua breve esistenza ha costruito un “nocciolo duro” di più di quarantamila sostenitori, 170 sezioni e un’ampia rete di simpatizzanti pronti a mobilitarsi. Momentum è stata fondata nell’ottobre del 2015, poche settimane dopo la prima elezione di Jeremy Corbyn alla segreteria del partito. Inizialmente neanche Corbyn, un “manifestante permanente” praticamente ignorato per decenni, un outsider dell’ala sinistra del partito, sperava in una vittoria del genere. Ma l’estate del 2015, segnata dalla rabbia contro l’establishment di cui tutti gli altri candidati erano accusati di far parte, ha giocato a suo favore. Per entrare nelle sale che ospitavano gli eventi della sua campagna elettorale la gente faceva la ila. Arrivavano in tanti per sentire dibattiti pubblici all’antica invece delle solite brevi dichiarazioni televisive. E le simpatie dei più giovani andavano a Corbyn, esponente della vecchia sinistra, appartenente a un’altra epoca, un ultrasessantenne per niente telegenico in giacca e sandali. grazie a un nuovo regolamento interno, che permette agli iscritti che versano un piccolo contributo di diventare “sostenitori ufficiali” e di partecipare alla scelta del segretario, alle elezioni per la leadership laburista dell’agosto 2015 c’è stata un’aluenza di massa. E la massa ha votato per Corbyn. Un’ondata di protesta nata spontaneamente ha portato al vertice del partito il candidato più improbabile. Eppure i fan di Corbyn sapevano bene che il loro beniamino non era molto amato dal gruppo parlamentare, dall’opinione pubblica e dai giornalisti. Sapevano anche che avrebbe dovuto faticare per restare in carica. E temevano che l’entusiasmo estivo si esaurisse rapidamente. Tuttavia la campagna di Corbyn era riuscita a spingere verso l’azione politica e la partecipazione diretta molte persone che, fino ad allora, non avevano mai fatto parte di nessuna organizzazione. È stato così che Jon Lansman, veterano della sinistra laburista e responsabile del sito Left futures che sostiene Corbyn, ha fondato Momentum, un’organizzazione di militanti nata per mantenere in vita lo slancio di quell’insolita estate. L’intenzione era quella di rafforzare Corbyn e la sinistra laburista. La sinistra socialista diceva di voler “accrescere il proprio peso nel partito”, che secondo loro sarebbe dovuto diventare molto più democratico. Allo stesso tempo Momentum voleva che quelle decine di migliaia di nuovi iscritti tenessero duro, senza farsi spaventare dalla burocrazia delle sezioni e dalla monotonia del quotidiano. Perciò bisognava coinvolgerli in azioni, manifestazioni e iniziative.
Momentum voleva una condizione di attivismo permanente. In effetti, durante quella strana estate del 2015, tra la sconfitta del Partito laburista alle elezioni legislative di maggio e la nascita di Momentum a ottobre, il numero degli iscritti al partito è raddoppiato, passando da 185mila a 370mila. Corbyn ha accolto con gratitudine l’appoggio di Momentum: “Dobbiamo mantenere lo slancio di questi ultimi quattro mesi”. Lansman e Momentum volevano “stabilire collegamenti sia all’esterno sia all’interno del Partito laburista”, mantenendo un forte legame con quest’ultimo, ma senza essere sotto il suo controllo. Affermazioni di questo tipo hanno suscitato forti preoccupazioni nel gruppo parlamentare alla camera dei comuni e nella base tradizionale. Ci si chiedeva che bisogno c’era di fondare un “movimento sociale” se c’era già un partito. L’ex ministra agli affari europei Caroline flint, per esempio, già poco dopo la fondazione di Momentum temeva un tentativo di infiltrazione nel partito da parte di “organizzazioni dell’estrema sinistra”: “Negli anni ottanta formazioni della sinistra radicale come Militant facevano esattamente questo. Operavano come cellule separate all’interno del Partito laburista, senza essergli davvero fedeli”. Militant, o la Militant tendency, è stata una formazione trotzkista dell’era di Margaret Thatcher, che puntava a inserirsi in un Partito laburista indebolito. In città come Liverpool riuscì a conquistare un certo peso. Ma quella piccola organizzazione, guidata da una rigida ideologia, non riuscì mai ad assicurarsi nella base un sostegno ampio come quello di cui gode oggi Momentum. I tempi cambiano Il nuovo movimento non è guidato dalla disciplina di piccoli gruppi di militanti rivoluzionari, ma da un entusiasmo diffuso, da un desiderio talvolta vago e confuso di cambiamento. Eppure i professionisti della politica come Lansman, il leader di Momentum, che ormai siede anche nel Nec, sanno bene come tradurre questo desiderio in un’influenza concreta. Quello che serve, secondo Lansman, è “una guida socialista del Partito laburista, che operi in coordinamento con gli attivisti della base”. Per troppo tempo la politica è stata “autoreferenziale ed eccessivamente sbilanciata verso Westminster”. In realtà il successo di Momentum è anche frutto dei tempi. Un ruolo importante l’ha avuto la disillusione nei confronti di Tony Blair, gordon Brown e del resto della dirigenza del partito, screditata dalla guerra in Iraq. Corbyn, invece, ha guidato per anni la coalizione Stop the war contro la cosiddetta guerra al terrorismo. Anche la campagna per il disarmo nucleare, che Corbyn ha sempre sostenuto, unisce spontaneamente la vecchia sinistra e i giovani militanti. Molti a sinistra hanno attribuito la crisi finanziaria del 2008 alla politica neoliberista del New Labour. E dal 2010 hanno accusato l’opposizione laburista guidata da Ed Miliband di non essersi opposta con sufficiente impegno alle politiche di austerità dei conservatori. Contemporaneamente, una nuova generazione di dirigenti sindacali orientati a sinistra, più aperta a idee radicali, ha fatto il suo ingresso sulla scena. Mentre i dirigenti del Labour continuavano a sostenere la privatizzazione del settore pubblico insieme ai tory, sempre più elettori laburisti rivolevano la “loro” posta e le “loro” ferrovie, e soprattutto volevano fermare la “privatizzazione strisciante” del sistema sanitario nazionale. Molti sono stati ispirati da movimenti sorti altrove, come Syriza in grecia e Podemos in Spagna. Il successo di Momentum quindi non è nato nel vuoto. Anche grazie all’ottimismo e alla spinta verso il cambiamento di questi movimenti, quando David Cameron ha indetto il referendum sull’uscita dall’Unione europea, poco dopo la fondazione di Momentum, l’organizzazione, forte soprattutto a Londra e tra i igli frustrati della borghesia, si è schierata a favore della permanenza nell’Unione. Nel maggio del 2016 due terzi dei suoi iscritti hanno votato a favore di una più convinta campagna referendaria contro la Brexit, che Momentum doveva condurre senza badare all’atteggiamento tiepido di Jeremy Corbyn sul tema. Tutti sapevano che Corbyn era ancora attaccato al sogno di un Regno Unito socialista e “libero” dall’influenza europea: un sogno che il Labour aveva già coltivato all’inizio degli anni ottanta, quando Tony Benn era ancora il modello e il maestro comune di Corbyn e Jon Lansman. Nuovi strumenti Nel frattempo i giovani militanti del Labour cercavano di mettere in pratica il “nuovo modo di fare di politica” anche per quanto riguarda le forme. E così, durante il congresso del partito laburista nell’autunno 2016 e 2017, hanno organizzato dei festival intitolati The world transformed (il mondo trasformato), con stand per dibattiti, gruppi di bricolage socialista, serate di quiz al pub e sfilate di moda colorate e politiche. L’obiettivo era distinguersi dalla solita “sfilata delle cravatte” in sala conferenze. Venivano offerti anche “workshop digitali”, per imparare a usare i social network e a produrre video politici. È stata sviluppata una M.app per comunicare appuntamenti e informazioni in modo più eiciente. Dal punto di vista della tecnologia, Momentum aveva sbaragliato i suoi concorrenti politici già alle elezioni della camera dei comuni del giugno 2017, indette a sorpresa da Theresa May, che si sono rivelate un vero colpo di fortuna per l’organizzazione di base del Partito laburista. grazie a un sito creato in fretta e furia, My nearest marginal, che segnalava i collegi elettorali in bilico e tutte le attività locali della campagna elettorale, la sinistra britannica si è ritrovata con uno strumento che non aveva mai avuto. Naturalmente le nuove forme di comunicazione hanno avuto un efetto così dirompente solo grazie alla presenza di un largo bacino di sostenitori pronti a usarle. Secondo Emma Rees, l’orgogliosa responsabile della campagna elettorale di Momentum, nel 2017 più di centomila persone si sono coordinate attraverso il sito. Inoltre la pagina facebook dell’organizzazione ha raggiunto milioni di cittadini. Rispecchiando in pieno lo stile della campagna elettorale di Bernie Sanders alle primarie del Partito democratico statunitense del 2016, gli attivisti di Momentum hanno ricevuto gli strumenti necessari e sono stati “strategicamente” indirizzati dove c’era più bisogno di loro. Secondo Rees “quasi diecimila attivisti si sono impegnati a prendersi una giornata libera dal lavoro nel giorno delle elezioni (che nel Regno Unito si svolgono di giovedì). Hanno bussato a più di 1,2 milioni di porte per assicurarsi che gli elettori del Partito laburista andassero davvero ai seggi”. La campagna porta a porta non è certo una novità nel Regno Unito. Qui tutti i partiti bussano alle case, cercando il contatto diretto con gli elettori. Ma stavolta grazie a Momentum il Partito laburista ha goduto di un considerevole vantaggio. Come osserva soddisfatto Adam Klug, cofondatore di Momentum, il Labour si è distinto nettamente dal Partito conservatore, esanime, privo di energie intellettuali e con un’emorragia di iscritti: “È quello che succede ai partiti in cui i militanti non contano nulla” (alle elezioni dell’8 giugno 2017 il Labour ha preso il 40 per cento dei voti, quasi il 10 per cento in più rispetto al voto del 2015, ma è stato sconitto dai conservatori, che hanno raccolto il 42,4 per cento dei consensi). Il ministro dell’ambiente Michael gove, un falco conservatore, si è complimentato a denti stretti con i suoi avversari di sinistra: “Il Partito conservatore può imparare molto da Momentum”. Nel frattempo il numero degli iscritti dei Tory sembra essere sceso a 70mila. Momentum spera di superarli entro il 2020. Il Partito laburista invece è cresciuto ino a 570mila iscritti. E grazie al risultato del giugno 2017 è diventato uno dei maggiori partiti europei, in controtendenza rispetto al crollo generale delle formazioni socialdemocratiche in tutta Europa. Tutto questo ovviamente ha contribuito a raforzare la posizione di Corbyn all’interno del Labour. I membri di Momentum da qualche tempo sono tenuti a essere iscritti anche al Partito laburista, per smentire l’accusa di essere degli iniltrati. Ma nel partito c’è ancora molta diidenza. gli avversari di Momentum sostengono che l’organizzazione sta ancora cercando di prendere il controllo di tutti gli organi del partito e delle liste elettorali. Lansman, osservano, ha chiesto che in futuro per impedire la ricandidatura automatica di un deputato della camera dei comuni non serva più una maggioranza assoluta ma sia suiciente il voto di un terzo degli iscritti di una sezione. Le prime crepe Ma negli ultimi tempi sono emerse contraddizioni sempre più evidenti. Anche i sindacati che all’inizio sostenevano Momentum sono stati irritati dalla “volontà di conquista” dell’organizzazione. In alcuni casi Momentum ha addirittura ignorato le indicazioni di Corbyn. Recentemente una feroce polemica sull’antisemitismo nel partito ha creato altri problemi. Negli ultimi anni Corbyn e alcuni esponenti di Momentum sono stati molto cauti nell’imporre misure contro l’antisemitismo, mentre il direttivo dell’organizzazione e lo stesso Lansman (che è ebreo) ora pretendono un giro di vite. A Pasqua la direzione di Momentum ha dichiarato in maniera molto franca che evidentemente inora l’intensità delle pulsioni antisemite nel Partito laburista era stata gravemente sottovalutata. Accuse simili “non possono essere ridotte a semplici calunnie provenienti da destra”, recitava il comunicato. Piuttosto, “bisognerebbe allontanare le persone da queste teorie del complotto per condurle a una comprensione sistematica del funzionamento della società e del capitalismo”. In fondo, è questo il compito che Momentum si era data in dall’inizio.

internazionale 11.5.18
Rao Pingru
Vita a tratti
Faceva parte dell’aristocrazia cinese, ha combattuto contro i giapponesi ed è finito in un campo di concentramento comunista. A 91 anni ha pubblicato il suo primo libro, un’autobiografia illustrata di Anatxu Zabalbeascoa, El País, Spagna


A desso che possono avere tutto hanno paura di perdere la memoria”. Rao Pingru, nato a Nanchang nel 1922, spiega così il successo della sua autobiografia illustrata, Pingru Meitang: Woliade gushi (Pingru e Meitang: la storia di noi due), che racconta la sua vita e i suoi sessant’anni di matrimonio. Rao Pingru non cercava il successo internazionale, anzi, non aveva mai pensato di pubblicare il libro: “Quando è morta mia moglie ho deciso di raccontare la nostra vita ai miei figli e ai miei nipoti. Tutto qui”. Rao Pingru e Meitang, sua moglie, arrivarono a Shanghai alla fine del 1950. Prima andarono a vivere in una camera in affitto, poi nell’estate del 1952 si trasferirono nell’appartamento di 36 metri quadrati composto da due stanze in cui la coppia e i suoi cinque figli avrebbero vissuto per 51 anni. A quei tempi in città c’era solo un grattacielo, il Park Hotel. Oggi ce ne sono centinaia. Con circa 24 milioni di abitanti, Shanghai è la città più popolosa della Cina. Per questo è diicile farsi un’idea di come fosse quando la coppia si trasferì qui. Rao Pingru faceva il contabile e il correttore di bozze nella casa editrice dello zio. “Fu l’epoca più felice per me: guadagnavo bene e facevamo una vita agiata”, ricorda mentre beve un tè nell’appartamento del Rao Pingru Vita a tratti Faceva parte dell’aristocrazia cinese, ha combattuto contro i giapponesi ed è finito in un campo di concentramento comunista. A 91 anni ha pubblicato il suo primo libro, un’autobiografia illustrata Anatxu Zabalbeascoa, El País, Spagna. Foto di Yolanda vom Hagen figlio minore, Shunzeng. Quella felicità durò poco. Nel 1956, sette anni dopo la proclamazione della repubblica popolare, la casa editrice fu nazionalizzata e nel 1958 Rao Pingru fu mandato in un campo di rieducazione, come venivano chiamati i campi di concentramento creati da Mao Zedong durante la rivoluzione culturale per le sue epurazioni. Durante la guerra civile tra il partito nazionalista e quello comunista Rao Pingru aveva combattuto con gli sconitti, i nazionalisti, e per questo, senza essere neanche processato, fu spedito nella provincia di Anhui. Passò i primi dieci anni nella brigata di scavo, poi lavorò in una fabbrica che produceva componenti delle automobili. Nei 22 anni in cui vissero separati, Rao Pingru e Meitang si vedevano solo due settimane all’anno, quando lui tornava a Shanghai per festeggiare l’anno nuovo con la moglie e i igli. Nel 1979, pochi mesi prima che nascesse il primo nipote, Rao Pingru tornò a casa. La famiglia festeggiò l’avvenimento nello studio di un fotografo. Un disegno nel libro ricrea quel momento. Marito e moglie avevano già i capelli bianchi. A 96 anni, Rao Pingru mostra un’agilità mentale e isica fuori dal comune. Cucina, suona il pianoforte, disegna e ha scritto un altro libro. “Ma i miei igli non mi fanno più andare in bicicletta”, si lamenta. Il iglio minore spiega che gliel’hanno proibito dopo che aveva pedalato per venti chilometri in cerca di tortini di riso ripieni di carne. “Ha perso la chiave del lucchetto ed è tornato con la bicicletta in spalla”. Shunzeng, il iglio minore, ha 64 anni e fa lo psichiatra. Anche lui è stato mandato in un campo di rieducazione quando aveva quindici anni. Il partito comunista voleva che gli studenti lavorassero la terra. Molti dei suoi pazienti sono giovani. “Sono depressi perché non gli piace quello che vedono, oppure sono ansiosi perché non ottengono quello che vogliono”, racconta. Salvato da un libro Rao Pingru non ha mai perso le speranze, nonostante la dura vita nei campi di lavoro. In quegli anni ha imparato l’inglese. “Ogni giorno memorizzavo una frase. Quando ne ho imparate 408 sono riuscito a parlare”. La durezza dei lavori forzati variava da provincia a provincia: “Ad Anhui non abusavano troppo di noi. Ci lasciavano decidere se potevamo portare trenta, quaranta o cinquanta chili. Quando hanno scoperto che sapevo scrivere mi hanno messo a fare degli articoli”. “Cosa scriveva?”, gli chiedo. “Storie di gente che lavorava molto”, risponde lui. “Propaganda?”, gli dico, e lui ammette: “Sì, propaganda”. Il carattere di Rao Pingru è stato la sua salvezza. “Nel campo molti si sono suicidati. Era vietato studiare, ma io avevo un libro in inglese. Sono sempre stato ottimista”. Come riusciva a esserlo? “Quando mi sono arruolato nell’esercito a diciotto anni pensavo che stavo salvando il mio paese dagli invasori giapponesi; poi dai comunisti insorti di Mao Zedong”, racconta, “Non sapevo distinguere tra i nazionalisti del Kuomintang e i comunisti. Non abbiamo capito di far parte di una delle due fazioni fino a quando non siamo arrivati allo scontro. Volevo lottare per la Cina, non contro i cinesi. Non mi sono sacrificato per mantenere i
miei privilegi, pensavo di combattere per il mio paese. Mi sono fatto forza sapendo di non aver fatto male a nessuno. Non ho una grande casa né delle macchine, ma ho avuto una moglie che mi capiva. So scrivere e disegnare, non sono un buono a niente. Sapevo che se fossi riuscito a sopravvivere avrei visto la luce. L’unica libertà di cui ho bisogno è quella mentale”. Il primo viaggio Nel 2017 Rao Pingru ha viaggiato per la prima volta fuori dalla Cina. È andato in Francia per presentare il suo libro al festival di Angoulême, il salone del fumetto più importante del mondo. Era l’ospite d’onore. “Le cose da mangiare e le abitudini sono diverse, ma il buon senso è lo stesso: ci piace la pace e l’amicizia”, commenta Rao Pingru. All’improvviso gli s’illuminano gli occhi e mi chiede: “Francisco Franco era buono o cattivo?”. “Era un dittatore. Fece un colpo di stato. Non fu un presidente eletto”, gli rispondo. “La democrazia è un’illusione”, commenta. A quel punto gli dico: “Ha avuto dei problemi a pubblicare il libro?”. Lui ribatte: “No. Il vecchio governo comunista ha fatto cose terribili, ma anche altre buone. Quando aveva cinque anni, mio figlio si perse e la polizia lo ritrovò”. “Quindi oggi va tutto bene?”, lo incalzo. “Non tutto. Ci sono ladri, anche assassini. Ma non qui in campagna. E neanche a Shanghai, perché è una città internazionale. Facciamo progressi”, ribatte. “Il governo comunista però voleva convincere sua moglie a divorziare”, aggiungo. “Ma lei ha detto che non ero un assassino, un traditore o un cattivo marito. Quando l’ho conosciuta era ricca, poi ha lavorato ino a quando ha retto. Credevamo l’uno nell’altro. Questo ci ha salvato. Mia madre era buddista e ci ha insegnato ad aiutare i poveri. Anche questo ci ha salvato. Abbiamo sempre saputo convivere”. Oggi Rao Pingru vive insieme al figlio e alla nuora in un appartamento di cento metri quadrati. Stanno lì anche la nipote e il marito, che si sono conosciuti grazie al nonno. “Fa il cameraman, è venuto a filmarmi. La mia nipote di 32 anni, che non era mai stata fidanzata, si è innamorata”. I tempi sono cambiati, la moglie era stata scelta da suo padre. “Meitang era la figlia di un suo carissimo amico”. Da bambino, Rao Pingru viveva a Nanchang, capoluogo della provincia dello Jiang xi, in una casa con sei cortili e una stanza per le cerimonie buddiste. Aveva dei domestici, un salone per i ricevimenti, uno studio per il padre, che faceva l’avvocato, e un giardino dove la nonna coglieva i fiori da friggere. Nel libro parla del suo ricordo più antico: la cerimonia che celebrava al risveglio. I servi la facevano alle tre di notte. I genitori e il precettore aspettavano davanti a un ritratto di Confucio. Sul tavolo c’erano un pennello, della carta, l’inchiostro e una pietra da inchiostro. Il precettore guidava la sua mano per tracciare i caratteri. Racconta anche che, pur avendo domestici, da quando aveva otto anni era lui a servire il riso ai genitori. “Queste tradizioni si sono perse. Eravamo ricchi, ma la ricchezza non deve farti diventare stupido. Oggi i genitori servono i figli continuamente”, spiega. Succede perché hanno un solo figlio? “Ora se ne possono avere due, ma sono viziati. Da piccoli imparavamo da Confucio e da Mencio che la tolleranza è la virtù principale. E anche che la felicità è dentro di noi. Il comunismo trattava allo stesso modo uomini e donne. L’idea alla sua base era l’uguaglianza. Ma c’era anche tanta povertà”, risponde. “Quando sono cambiate le cose?”, gli chiedo. “Quando la Cina si è aperta al mondo, nel 1978. Deng Xiaoping ha portato la libertà”, mi risponde. “Cos’è successo in piazza Tiananmen dieci anni dopo?”, gli dico allora. “Non ricordo questo incidente. Non so di cosa stai parlando. La nostra vita è migliorata. Non solo la mia. I vecchi ufficiali del partito comunista sono stati sostituiti”, ribatte lui. Rao Pingru è così. Quando gli si chiede se è libero, risponde: “Sono felice. Secondo la tradizione cinese, quando una persona muore si scrive un epitaffio su due colonne. Il mio è già pronto”. Lo recita cantando e poi lo traduce: “Quando il nostro paese è stato in pericolo ho abbandonato l’accademia. Sono stato alla scuola militare di Huangpu e sono diventato soldato. Ho combattuto contro i giapponesi e non ho avuto paura di dare la vita per il mio paese”. Poi fa una pausa e canta la seconda colonna: “Sono vecchio e felice. La Cina vive un’epoca di prosperità con un governo vicino alla gente. Per questo sorriderò quando abbandonerò questo mondo”. Dopo aver cantato, aggiunge: “Sono abbastanza libero. Possiamo parlare con stranieri come voi. Fino agli anni ottanta non potevamo farlo”. Rao Pingru è critico nei confronti della nuova società cinese: “I giovani hanno troppo. Non sanno cos’è la guerra. Vogliono solo divertirsi. Prima non sapevamo niente su quello che ci circondava. Se sai cos’hanno gli altri, vuoi averlo anche tu. Questo crea frustrazione e ansia. Quando eravamo giovani, ci sentivamo tutti uguali. Per questo credevamo nel comunismo. Adesso abbiamo perso gli ideali. La nostra salute è migliorata, ma la vita spirituale è più povera. Confucio dice che tutti vogliono essere ricchi ma che, se l’obiettivo viene raggiunto in modo disonesto, rovina le persone”. Un uomo curioso Secondo Rao Pingru, ogni generazione perde qualcosa e guadagna qualcosa. “Noi ci muovevamo in bicicletta o in autobus. Oggi i miei figli e i miei nipoti vanno in macchina”. Quando gli racconto che in Europa stiamo lasciando la macchina per tornare alla bici, annuisce: “Siamo vent’anni indietro. Questa è una fase di transizione e la gente vuole ottenere dei cambiamenti immediati. Ma per i cambiamenti veri ci vuole tempo, anche se arrivano delle novità come lo smartphone”. Lui non ce l’ha. “Ho paura di diventare dipendente. Chi ce l’ha non lo molla mai”, spiega. Quando lo saluto e mi rimetto le scarpe sulla soglia, chiedo se è comune che, entrando in una casa cinese, ci si tolga le scarpe come in Giappone. “Sa perché il Giappone è un paese così forte? Perché prima hanno imparato da noi, e poi anche dal mondo occidentale. E hanno raggiunto la prosperità”, dice. “Prima che disegnasse la sua vita, i suoi nipoti sapevano com’era stata?”, gli chiedo. “Per niente. Per questo ho fatto il libro. Ho cominciato la mia vita da ricco. Poi è arrivato un periodo duro. Ora sono una persona normale, con una vita piena”, risponde lui, “il mio segreto è la curiosità. Non ho mai smesso d’imparare. Una persona educa con l’esempio, non con le parole. Oggi tutti hanno fretta e tutto sembra avere la stessa importanza. Ma la cosa più importante è la memoria. Se perdi i soldi, li puoi riguadagnare. La memoria è un’altra cosa. Se la perdi, scompari”.

Bah…
internazionale 11.5.18
L’amore per una macchina

“Tra il 1999 e il 2006 la Sony fabbricò 150mila cani robot capaci di muoversi e dotati di un microfono e di altoparlanti per rispondere a semplici comandi. Non avevano bisogno di fare movimento né di mangiare, ma i padroni li amavano, ed era questo a renderli simili a dei cani veri”, scrive Andrew Brown sul Guardian. “Potremmo chiederci perché siamo così sicuri che quei cani non siano mai stati vivi. Non può essere solo perché sono dei robot guidati da leggi chimiche e meccaniche. In un certo senso lo siamo anche noi. Se in futuro i computer saranno intelligenti e simili agli esseri umani, perché non potrebbe succedere anche a un cane robot? Il funerale nel tempio buddista è stato un atto religioso (In un tempio buddista in Giappone si è svolto il funerale di un centinaio di cani robot rotti e fuori produzione. Dopo il saluto dei padroni, saranno usati come donatori di organi), perché ha dato forma e spazio a un dolore. Raramente siamo più umani di quando piangiamo qualcosa che non potrebbe mai rimpiangere noi”.