Il Fatto 14.5.18
Tra l’Orso zarista e il Leone inglese è duello tra le rupi del Caucaso
Quanto più la Francia va verso gli Usa, scalzando la Gran Bretagna, tanto più Germania e Russia vanno a ritrovarsi
di Pietrangelo Buttafuoco
Germania + Russia uguale Prussia. E dunque Kant, il sangue parente, in una parola, l’Europa. In direzione dell’Asia. Sono addizioni spericolate, quasi un esercizio caricaturale, magari una somma dada, ma non se ne va via nulla della storia. Meglio: non fa che tornare – inaspettatamente non fa che arrivare – ciò che da sempre si forgia nell’istinto. L’astro nascente di Emmanuel Macron appanna la pur robusta leadership di Angela Merkel.
Il giovane presidente francese irrompe nella narrazione addomesticata della liberal-crazia, ma il gioco delle ombre – quel che si risolve nel Grande Gioco delle potenze – riposiziona i pezzi dello scacchiere internazionale. Quanto più la Francia va verso Donald Trump, scalzando perfino la Gran Bretagna (che degli Usa è incestuosa matrigna), tanto più Germania e Russia vanno a ritrovarsi. L’aggregarsi continentale va incontro ai gasdotti – ben oltre il profilo beccuto di Gerhard Schroeder, ex cancelliere tedesco, oggi a capo del consorzio Nord Stream AG di Gazprom – in direzione di un destino. Ogni 9 maggio, a Mosca, la Giornata della Vittoria – in quella che i russi chiamano “Grande Guerra patriottica” – rinnova il corpo a corpo con la Germania e non, come in tutto il mondo, contro un generico tabù ideologico. Il 9 maggio dei russi, non è – per intendersi – un 25 aprile. E Berlino, di converso, ogni 9 maggio fa catarsi di quell’immane catastrofe che fu l’assedio della Wehrmacht in Russia. Lo fa nel verso di un’inimicizia consanguinea e non di un odio reciprocamente estraneo quale fu invece la guerra di Napoleone Bonaparte contro Il lago dei cigni o – per interposta digressione imperiale – lo scontro dei fedelissimi cosacchi del Don contro l’Inghilterra, ossia il duello tra l’Orso zarista e il Leone londinese tra le rupi del Caucaso, lungo la via della Seta.
Le stesse teorie di Carl Schmitt – il tracciato geopolitico segnato dalla dialettica di Terra e mare – trovano ancora applicazione su questi profili laddove la Gran Bretagna di ieri s’invera negli Stati Uniti di oggi per decretare perpetua ostilità. Con la Russia di prima. Con quella di adesso. E con quella di domani.
Non se ne va via niente di ciò che perdura nei popoli. Una rivoluzione come quella bolscevica e la conseguente instaurazione del sistema sovietico (ateo e materialista) non ha cancellato quel qualcosa che trova definizione tra le categorie metafisiche. E cioè – specificatamente – lo spirito russo.
È l’azzardo del dire dell’indicibile, lo spirito. Ed è, a farla facile, come un istinto. Con la reiterazione dei segni, dei simboli e degli urrà. Come quelli che accompagnano – ogni qualvolta appaiono tra le parate, a Mosca – le insegne dell’Orda Bianca, le armate di Ungern Khan, il barone Roman Nicolaus von Ungern-Sternberg, il “barone pazzo, il dio della guerra” che trova morte il 15 settembre 1921 dopo aver sollevato i mongoli in direzione di un destino.
Tedesco e russo, asiatico ed europeo.
La Stampa 14.5.18
Le mani dei cinesi sulla Groenlandia
Sotto il ghiaccio una miniera di ricchezza
di Noa Agnete Metz
Da 200 anni il continente ghiacciato fa parte del regno danese, ma ormai c’è soltanto un partito inuit che non è a favore dell’indipendenza. Il problema è che, il giorno dopo, mancherebbero metà delle entrate di bilancio che attualmente arrivano sotto forma di sussidi danesi. «Ma il corso è questo, solo che si sta andando al rallentatore», dice l’esperto Rasmus Leander Nielsen e il surriscaldamento del pianeta potrebbe dare una grande mano alle ambizioni inuit.
La calotta glaciale si sta sciogliendo e, meno ghiaccio c’è, più facile sarà arrivare al ricco sottosuolo e rendere operativo il cosiddetto passaggio a Nord-Ovest, che durante l’estate è già navigabile. Questa rotta, che sbocca in acque groenlandesi, permette di tagliare significativamente i tempi di trasporto di merci cinesi verso la costa orientale degli Usa, con il passaggio via Artico anziché per il canale di Panama. La rotta ha attualmente bisogno di logistica, a cominciare da porti di rifornimento e rompighiaccio. Un progetto che non si è finora concretizzato a causa del basso prezzo del greggio: risparmio di tempo e petrolio erano irrilevanti, visti i costi notevoli per rendere il passaggio pienamente operativo. Il transito a Nord-Ovest sta diventando però sempre più una priorità della Cina, che non ha un proprio accesso all’Artico e, per questo, sta mettendo piede nella società groenlandese.
La politica artica
In un continente dove l’esercito danese perlustra le coste con slitte trainate da cani per una quasi totale assenza d’infrastrutture, c’è bisogno di grandi investimenti per farne un hub commerciale. Anche per questo motivo, rimangono in stallo diversi progetti minerari, nonostante un sottosuolo che abbonda di risorse. Solo la Norvegia, che negli Anni 30 cercò di reclamare un pezzo della costa Est, grazie al suo ricco fondo sovrano ha potuto mettere in piedi una miniera di rubini.
La Cina ha una politica artica ben definita. Promuove una multinazionale australiana per estrarre le cosiddette terre rare, essenziali per la nostra vita high tech, e su cui attualmente ha un monopolio di fatto. Durante le elezioni groenlandesi, in aprile, si è parlato molto di un appalto vinto dalla Cina per la costruzione di tre aeroporti.
L’investimento ha fatto scattare l’allarme presso il governo sovrano a Copenaghen, che lo vede come un tentativo di sovversione da parte di chi può permettersi di fare investimenti di lungo termine e aspettare che la presenza economica diventi influenza politica.
Le basi militari
La Danimarca custodisce gelosamente il continente sotto zero anche per i vantaggi che ne trae nella relazione con gli Usa, che da decenni fanno uso dello spazio aereo e territoriale della Groenlandia come un avamposto verso la Russia e l’Oriente. Sulla base militare di Thule, a 1200 km a Nord del Circolo polare, si trova un centro dati e comando di satelliti di sorveglianza e un sistema di allarme per i missili balistici, operato dai militari americani, in grado di monitorare la curvatura della pianeta ed eventuali missili in arrivo dall’Est. Frutto di accordi con Copenaghen, fatti sopra le teste della popolazione locale, e che hanno già avuto conseguenze pesanti. Come quando nel 1968, in piena Guerra fredda, si schiantò sul ghiaccio un bombardiere americano. Uno dei piloti morì, l’esplosivo convenzionale detonò, mentre materiale radioattivo si disperse. Furono mandati lavoratori inuit, ignari dei rischi, a ripulire e ripescare bombe d’idrogeno. Si dice che molti in seguito si ammalarono di cancro, sebbene indagini delle autorità danesi abbiano concluso che non c’è correlazione. I groenlandesi non tollerano l’atteggiamento danese da padrone e il leader del governo locale, Kim Kielsen, rivendica il diritto a cercare gli investitori dove è più vantaggioso. Se non tutti in Groenlandia sono d’accordo è perché la costruzione di aeroporti, e successivamente di miniere, ha dei rischi ambientali e richiede un piccolo esercito di operai, probabilmente cinesi e tutti maschi, che cambierebbe radicalmente il tessuto sociale. In una società di poco più di 53 mila abitanti sparsi su un territorio immenso, con emergenze sociali simili a quelle degli indiani in Nord America, un’immigrazione così omogenea, e numerosa, lascerebbe il segno. Ma, senza investimenti dall’estero, il sogno dell’indipendenza non è economicamente sostenibile.
In Danimarca lo scenario di un wild west sotto zero gradi non piace. Un rapporto dei servizi militari danesi, pubblicato nel dicembre 2017, indica la strategia cinese accanto a minacce come il terrorismo islamico e attività russe per influenzare la vita politica. Quando, durante la campagna elettorale in Groenlandia, è emerso che la leader dell’opposizione danese, Mette Frederiksen, si era detta «comprensiva» per una futura indipendenza, si è scatenata una bufera mediatica. Perché, nei fatti, l’atteggiamento danese è tutt’altro: lo sceriffo della Groenlandia è uno, e per contrastare le multinazionali ci si prepara al duello in stile mezzogiorno di fuoco.
La Stampa 14.5.18
Wenders si fa dirigere da Papa Francesco il grande comunicatore
di Alberto Mattioli
Il discorso più divertente è quello a un congresso della famiglia a Filadelfia dove, da quel consumato entertainer che è, spara battute a raffica sulle suocere e sui piatti che talvolta in casa volano. Che Papa Francesco fosse un grande comunicatore, lo si sapeva da quel «Buonasera» con cui attaccò il suo primo discorso urbi et orbi.
L’ennesima conferma arriva ora dal documentario di Wim Wenders, Pope Francis - A Man of his Word, cioè «Papa Francesco, un uomo di parola», presentato ieri in seduta speciale alla presenza dell’autore (precisiamo: Wenders, non Bergoglio) e preceduto da molte buone parole del direttore del Festival Thierry Frémaux: dato il soggetto, si direbbe una benedizione.
Destinato a un pubblico internazionale - uscirà nelle sale americane il 18 -, il documentario di Wenders alterna alle immagini dei viaggi papali quelle di quattro conversazioni nel suo studio o nei Giardini Vaticani. Qui vediamo il Papa in primo piano, che parla in spagnolo dritto in camera, sempre più sciolto man mano che il film procede. Ci sono anche, piuttosto strani, alcuni inserti dove il Francesco d’Assisi di Giotto prende vita in bianco e nero, interpretato da Ignazio Oliva. Dato che non parla e che le pose sono alquanto retoriche, l’effetto è quello di un muto d’inizio Novecento.
Per il resto, Wenders aveva dichiarato di voler fare «non un film “sul” Papa, ma un film “con” il Papa». Obiettivo raggiunto, anzi superato. Il suo sembra semmai un film “del” Papa, perché il vero autore, per parole e gesti, è proprio Bergoglio. È chiaro che il rischio del santino è dietro l’angolo, e del resto non si può chiedere a un documentario sul Papa realizzato in collaborazione con il Vaticano di dare conto anche degli aspetti controversi del Pontificato, come le resistenze della gerarchia, per esempio. In altri termini: il regista è chiaramente innamorato del suo «attore», e più che dirigerlo sembra farsene dirigere.
Cambiati beninteso i tempi, senza flabelli e sedie gestatorie, quanto ad agiografia non siamo troppo lontani dal Pastor Angelicus, starring Pio XII (1942, con Ennio Flaiano aiuto regista). Dunque, campo libero a Francesco, ripreso nei suoi innumerevoli viaggi (vale sempre la vecchia battuta coniata per Wojtyla: Dio è in ogni luogo, il Papa c’è già stato), nei suoi bagni di folla, nelle visite agli ospedali e alle carceri, in Brasile, a Scampia, in Bolivia, a Roma, all’Onu, allo Yad Vashem di Gerusalemme, in America, in Africa, a casa di Dio (appunto). Bergoglio parla, poco di Dio, moltissimo dei problemi del mondo, sui temi che gli sono cari: la povertà, soprattutto (frase simbolo di tutto il film: «La povertà oggi è un grido»), i migranti, l’ecologia, le diseguaglianze, la necessità di una «rivoluzione» cristiana.
Anche, e gli va riconosciuto, di argomenti urticanti come la pedofilia. C’è la sequenza in cui, sull’aereo che lo portava da qualche parte, Francesco dice la famosa frase sui gay, «Chi sono io per giudicare?». E c’è il momento in cui cerca di dare una risposta alla domanda delle domande, per chi crede e chi no, «perché ci sono dei bambini che soffrono?».
Insomma, un ritratto a tutto tondo di un personaggio che non lascia indifferenti. Piacerà moltissimo ai cattolici, specie a quelli cui Francesco già piace. A chi non crede, «Pope Francis» fa l’effetto di uno che ci crede davvero, ed è già qualcosa. E, al di là di ogni differenza di idee e di fedi, si resta sempre colpiti e un po’ commossi da quanto quell’uomo vestito di bianco incarni una speranza per infinite moltitudini di suoi simili.
Corriere 14.5.18
Giustizia e libertà viste da Croce
di Antonio Carioti
L’uso della parola «ircocervo» da parte di Silvio Berlusconi, in una recente intervista al «Corriere», ha indotto a rievocare Benedetto Croce. Fu infatti il filosofo napoletano a usare quel termine antico, che designava un inesistente animale mitologico, per esprimere il suo dissenso dal tentativo di coniugare liberalismo e socialismo. La questione però merita di essere approfondita, come fa Paolo Bonetti in uno dei saggi raccolti nel volume Presenza di Croce (Aras edizioni, pagine 238, € 20). Senza dubbio l’idea di mettere sullo stesso piano la giustizia, concetto storicamente variabile, e la libertà, espressione permanente dello spirito umano, era per Croce inaccettabile. Di qui la sua bocciatura filosofica del liberalsocialismo. Ma va aggiunto, nota Bonetti, che la visione crociana della libertà, proprio perché svincolata dalle contingenze empiriche, non si identificava per forza con certe istituzioni o con le politiche economiche di mercato. Per questo, rispetto ad altri liberali, Croce era più aperto verso le riforme del welfare. Avverso al liberalsocialismo come costruzione teorica, non ne disdegnava, sostiene Bonetti, le realizzazioni concrete.
Repubblica 14.5.18
Il ruolo della sinistra
Come capire il populismo per batterlo
di Nadia Urbinati
Nell’intervista rilasciata a Repubblica, Maurizio Martina afferma: «Di fronte alla nascita del governo più a destra della storia recente, è giusto dirsi che non basteranno gli anatemi: dobbiamo costruire un’alternativa popolare alla saldatura tra Lega e M5S superando le divisioni del passato, allargando ad energie nuove, ribadendo il nostro ruolo da protagonisti nel campo progressista». Sono ottime e opportune parole. Martina propone di rompere questa dannosa e inutile litania di contumelie contro il populismo, una parola così ambigua da essere piegata alle convenienze di chi la usa, giusificando la faciloneria e l’indolenza mentale.
La Spd, che versa in una crisi non celabile anche se meno dirompente di quella degli altri partiti fratelli, ha avviato un programma di studi sui nuovi movimenti che vanno sotto il nome di populismo. I socialdemocratici tedeschi sono un partito, e questa loro identità la si vede e apprezza proprio nei casi di crisi, ovvero quando si tratta di trovare risorse, umane e culturali, per riaprire le finestre sul mondo.
Nella sua storia, che è parte della storia della democrazia, il populismo ha dimostrato che in alcuni casi, ovvero dove ci sono istituzioni democratiche (come negli Stati Uniti di fine Ottocento), la sua protesta può riuscire a scuotere l’ordine socio-politico, a rimescolare le carte e riportare in alto quelli che sono stati spinti in basso. Vi è nell’anti-establishment populista una coniugazione radicale di un principio che è democratico. Infatti la dialettica opposizione/maggioranza sulla quale vivono le democrazie presume il discorso contro l’establishment, usato dai partiti di opposizione quando aspirano a conquistare la maggioranza.
Quel che la democrazia rappresentativa non presume, è ritenere, come molti populisti radicali fanno, che l’establishment corrisponda a una classe definita ancora prima della competizione, che sia cioé una “casta” ex ante e immobile.
Ecco perché ogni ricerca che voglia capire questo tempo di movimenti populisti deve ritornare alle categorie fondamentali della democrazia: all’eguaglianza, che è di opportunità e di dignità; alla libertà, che non è goduta dagli identici ma da tutti coloro che vivono sotto un ordinamento giuridico, siano essi connazionali o non. Tra i fondamenti, vi sono anche quelle istituzioni di limitazione del potere, l’autonomia della magistratura, per esempio, o degli apparati dello Stato e della banca centrale.
Dal 1945 in Italia tutto questo prende il nome di democrazia costituzionale.
Tornare ai fondamenti quindi, ma avendo cura di portare lo sguardo oltre le procedure e le istituzioni, poiché la democrazia fa promesse di auto-governo, di dignità sociale, di eguaglianza e di miglioramento economico. Queste promesse, anche se mai completamente realizzate, devono farci comprendere appieno che un partito democratico o di sinistra non può concentrare la sua azione ai diritti civili; esso non è un partito liberale. A Martina come a tutti coloro che dentro e fuori il Pd sentono la responsabilità della loro sconfitta per reagire ad essa, dovremmo suggerire di abbracciare in toto l’Articolo 3 della nostra Costituzione, ricchissimo di implicazioni e complesso.
Già questo sarebbe un buon indizio di determinazione alla rinascita.
Corriere 14.5.18
Il ritorno di Isabelle Adjani: ho sconfitto la depressione
«Ma invidio Day-Lewis che ha avuto il coraggio di ritirarsi»
di Valerio Cappelli
CANNES Da vicino, Isabelle Adjani è bianca come una maschera del teatro Nō giapponese. Bianca e indifesa, sensibile, riservata. Ha fatto film in costume raccontando le sofferenze d’amore, entrando nella mitologia delle donne segnate da un destino tragico: «Ma non sono una maratoneta dell’impegno». Qui fa un ruolo «pazzo», tutto diverso dalle sue principesse e regine. Musa di Truffaut e Polanski, ha vinto a Berlino e a Cannes, oltre a 5 César e due nomination all’Oscar. Torna in una di quelle commedie brillanti che fanno impazzire i francesi (non a caso la produzione si chiama Iconoclast): in Le monde est à toi, Isabelle è a capo di una gang di borseggiatrici. «Faccio una ladra abilissima e una madre senza scrupoli, possessiva e invadente col figlio».
Stato d’animo a Cannes?
«Cerco di onorare la mia presenza, ma è un inferno. Un’orgia di alto livello, nella scalinata rossa si sale verso il sacrificio o la consacrazione. Sono alla Quinzaine, non prendo il rischio di rituffarmi nell’arena della gara, tra attrici che si ritrovano a recitare il ruolo in La città della paura. Che non ha più limiti. Siamo intrappolati nelle immagini, nei commenti e nei commenti sui commenti. Non uso i social, non voglio follower. Non importa chi sei veramente: lo decidono gli altri. Avrei bisogno di un coach su come comportarmi».
Quale rapporto le piace al cinema?
«Padre-figlia. Mio padre era autoritario, vivevamo in un piccolo appartamento e non accettava l’idea che con i miei guadagni dessi una mano a casa. Era algerino, musulmano. In casa solo uno specchio in bagno, se vi restavo troppo diceva che l’avrei sporcato. Per una ragazzina sono cose difficili da sentire. Non accettava che recitassi nuda, disobbedii in L’estate assassina: per fortuna morì subito prima che uscisse».
È cambiato l’approccio al suo mestiere?
«Oggi si comincia un business, mi sono tirata fuori da tutto questo. Hanno fatto tanti grandi film nella mia assenza, non mi manca quello che non ho. Però mi è tornata voglia di lavorare, andrei da mio figlio in Usa e lavorare lì dove è nata una nuova sensibilità, c’è apertura per le attrici europee. Mi piacciono i registi canadesi. Xavier Dolan? Talento enorme, ma si sente Re Sole».
Il padre di suo figlio maschio è Daniel Day-Lewis.
«Si è ritirato, lo invidio: dopo aver vinto tre Oscar di cos’altro hai bisogno? Siamo rimasti in buoni rapporti. Eravamo felici insieme perché dimenticavamo di essere attori, cosa che sta facendo ora con la sua scelta. Quando ti dai completamente, questo lavoro è duro».
Ha uno sguardo sereno, ma ha sofferto di depressione.
«Non ho mai conosciuto una donna che non lo sia stata. Non durò molto. È difficile parlare se perdi fiducia nella tua vita e sei sola, ti vergogni»
Il caso Weinstein?
«Oggi c’è più solidarietà, Weinstein è servito anche a questo. Ho trovato patetica la petizione di Catherine Deneuve sulla libertà di importunare: siamo il Paese della seduzione e bla bla bla. A 15 anni subii la prima molestia e rimasi traumatizzata. In quanto alla serenità... appartiene alla maturità, non alla giovinezza. Non ho tanto tempo davanti per consacrarmi a ipotesi d’amore, ma posso incontrare la persona giusta che bussa alla mia porta. Non vuol dire che ho bisogno di un uomo: cerco gentilezza e complicità».
Il tempo che passa?
«In Francia si tende a separare la ragione e l’amore. La ragione impone la dittatura dei corpi, tu devi dimagrire, tu vuoi dimagrire. È difficile sottrarsi alla pressione dello sguardo degli altri. Ma è la bellezza a determinare la libertà per affermarsi in quanto femmina. Ti fa sentire più forte, ti fa rispettare».
Repubblica 14.5.18
A Porto Ercole
Il museo di Caravaggio senza le sue opere (e a spese nostre)
Per realizzarlo il Comune di Monte
Argentario spenderà più di un milione, pari al 5% del suo intero budget
Ma vi saranno esposte solo riproduzioni E tra gli abitanti monta la protesta
di Sergio Rizzo
Ecco il primo museo al mondo dedicato a un genio dell’arte figurativa senza che dentro ci sia una sola opera del medesimo. Non un quadro, non un bozzetto, non una pennellata.
Se volete vedere i capolavori di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, potete andare alla chiesa di San Luigi dei Francesi, a Roma. Oppure agli Uffizi di Firenze. O ancora a Palermo, Cremona, Genova, Siracusa, Messina, Milano, Napoli. Magari a Parigi, New York, Dublino, Madrid e Berlino. E perfino a Malta. Di sicuro, non al nascente museo Caravaggio di Porto Ercole, dove saranno esposte soltanto riproduzioni su pvc o su tela. Ma in altissima definizione, assicurano gli ideatori: anche se, per quanto alta sia, facciamo davvero fatica a immaginare masse di visitatori che sgomitano per ammirare una collezione di stampe.
La cosa avrebbe tutta l’aria di una simpatica burla se non fosse per due particolari. Il primo è che quel museo lo stanno costruendo sul serio al posto di un vecchio asilo cadente e in cima a una collina: non per la stravaganza di qualche privato appassionato di Caravaggio, bensì per iniziativa dell’amministrazione comunale e dunque con soldi pubblici. Per l’intera operazione, come ha già raccontato Il Tirreno, si stima un investimento di un milione e 250 mila euro dei contribuenti.
Somma equivalente a oltre il 5% dell’intero budget di spesa per il 2018 del Comune di Monte Argentario che totalizza, secondo il bilancio di previsione, 23 milioni e mezzo. Con il dettaglio aggiuntivo che tutto questo avviene a ridosso di elezioni comunali alle quali, non potendosi ricandidare Cerulli per il terzo mandato consecutivo, corre la sua vice Priscilla Schiano.
Il secondo particolare è che la supervisione del progetto è stata affidata a un mostro sacro della storia dell’arte: Claudio Strinati, uno dei massimi esperti del Caravaggio. E francamente non riusciamo a comprendere le ragioni scientifiche che abbiano convinto uno studioso del suo calibro a farsi coinvolgere nell’allestimento di un museo di stampe. Di sicuro Strinati non può ignorare lo stravagante precedente nel quale la stessa amministrazione comunale guidata dal sindaco Arturo Cerulli, ingegnere nucleare passato dalle schiere comuniste a Forza Italia, si era già cimentata con impegno. Episodio che vale la pena ripercorrere per ben inquadrare lo scenario nel quale si inserisce questa nuova costosa stravaganza.
Corre l’anno 2009: il quarto centenario della morte di Merisi è ormai alle porte e Silvano Vinceti decide che il momento è propizio per portare alla luce quel che rimane del grande pittore lombardo. Il personaggio ha già fatto parlare di sé. È stato fra i fondatori dei Verdi, impegnandosi nel referendum antinucleare del 1987. In seguito, informano le cronache, si è distinto nella ricerca delle spoglie mortali di Matteo Maria Boiardo, Petrarca, Poliziano… L’idea di trovare le ossa di Caravaggio viene accolta con encomiabile entusiasmo dal sindaco di Monte Argentario, che ovviamente non si oppone alla riesumazione di alcuni resti umani dal contenuto indistinto di un ossario a Porto Ercole. Quelli presumibilmente più antichi li mandano a un centro specializzato di Ravenna per un confronto con il dna prelevato a certi Merisi residenti a Caravaggio. L’esame dà una corrispondenza dell’85 per cento con alcuni frammenti ossei e tanto basta perché questi vengano ritenuti con certezza assoluta appartenenti al corpo del genio. Dopo un braccio di ferro con la Lega, che pretendeva la tumulazione (!) a Milano (!!) dei frammenti organici avventurosamente attribuiti al Merisi autentico, quel pugno di povere ossa viene traslato con tutti gli onori a Cala Galera, per essere imbarcato in una teca di vetro sul brigantino Barbarossa di Cesare Previti. Ad accogliere sulla banchina di Porto Ercole il singolare feretro, caravaggesco all’85 per cento, oltre ai sindaci di Monte Argentario e Caravaggio c’è anche Mauro Cutrufo, vice sindaco della giunta di Roma allora guidata da Gianni Alemanno. Ma il trionfale sbarco non è che l’inizio di questa storia.
Perché ora si tratta di dare degna sepoltura a resti tanto illustri: e cosa, meglio di un parco funerario all’aperto, che potrebbe magari attirare anche un po’ di turisti? Di fronte a tale allettante prospettiva non sarebbe giusto badare a spese, ed ecco uno stanziamento di 40 mila euro per la sistemazione dell’area e altri 65 mila per la tomba. E che tomba: uno scatolone di cemento su cui c’è scritto “Caravaggio” (che com’è noto non è il nome di Michelangelo Merisi che nacque a Milano da genitori originari di Caravaggio, paese del Bergamasco), con una feritoia che consente, appoggiandovi l’occhio, di godere del tristo spettacolo delle ossa del Maestro. Come ciliegina sulla macabra torta, una riproduzione metallica della famosa “cesta di frutta” piazzata sopra lo scatolone. Archiviata l’operazione ossa di Caravaggio, Vinceti ha promesso di dare la caccia ai resti di Monna Lisa e Antonello Da Messina. Mentre all’operazione del museo si sono già opposti alcuni cittadini, i quali minacciano una guerra a colpi di carte bollate contro la realizzazione di quello che considerano un inutile piccolo ecomostro. Ma al netto delle rimostranze locali e dell’esito che potranno avere gli eventuali ricorsi, che in un Paese dove i beni culturali cadono a pezzi perché non c’è un euro in cassa i soldi pubblici vengono spesi così lascia davvero senza parole.
Repubblica 14.5.18
Fausta Cialente
La voce di donna che sfidava i fascisti
di Francesco Erbani
Ora il nome di Fausta Cialente non appare illuminato come meriterebbe se si guarda alla scena letteraria del Novecento.
Eppure ci sono state fasi in cui la scrittrice, nata per caso a Cagliari nel 1898, figlia di un militare di stanza in Sardegna, e morta nel Berkshire, in Inghilterra, a novantasei anni, ha assunto rilevanza. Nel 1976 il suo Le quattro ragazze Wieselberger vinse lo Strega: con un’andatura narrativa, Cialente raccontava la storia della famiglia di sua madre, nella Trieste asburgica fra la fine dell’Ottocento e i primi del nuovo secolo. Il romanzo-memoir ebbe molto successo, alcune centinaia di migliaia le copie vendute, numerose le traduzioni. Il clamore non scalfì però la sua ritrosia. Ma ci fu un altro periodo in cui Cialente svolse un ruolo di spicco, sebbene non sul versante letterario, anzi escludendo volutamente il suo essere scrittrice: «Avevo perfino dimenticato d’esserlo stata», confesserà alcuni decenni dopo. Dal 1940 al 1947 Cialente fu protagonista di un’esperienza tutta politica: fu prima responsabile di una trasmissione che andava in onda su Radio Cairo, un’emittente controllata dagli inglesi che aveva il compito di contrastare la propaganda fascista, poi direttrice di un giornale a guerra finita. Della sua permanenza a Radio Cairo si sapeva, ma poco si conoscevano i dettagli, la qualità dei suoi commenti, la fatica con la quale reperisce le informazioni, i contrasti con gli ufficiali britannici (che diffidano della sua autonomia), e poi l’impegno assoluto — quello di una donna, forte della propria indipendenza, che lascia il marito e la figlia ad Alessandria d’Egitto, dove seguendo lui si era trasferita nel 1921, e sceglie di navigare da sola, nelle acque agitate di una città, Il Cairo, formalmente neutrale, ma popolata di spie, di doppiogiochisti, una zona franca piena di ombre e di insidie. Fare la giornalista non è il suo mestiere, la sua fede antifascista è incrollabile, ma finora ha scritto quattro romanzi ( Natalia, Marianna, Pamela e la bella estate, Cortile a Cleopatra), alcuni dei quali premiati, che non lasciano presagire un’attiva partecipazione a una missione di guerra, una guerra non convenzionale combattuta nelle retrovie, con le parole.
Ora Maria Serena Palieri, che ha lavorato a lungo alle pagine culturali dell’Unità (sulle quali aveva scritto la stessa Cialente) e ha pubblicato saggi sulle donne nel Risorgimento, nella Grande Guerra e nel Sessantotto, ha potuto leggere il diario che Cialente compilò in quegli anni, un diario inedito, oltre millesettecento pagine conservate al Centro Manoscritti di Pavia. Il diario è l’ossatura intorno alla quale Palieri costruisce Radio Cairo.
L’avventurosa vita di Fausta
Cialente in Egitto (Donzelli), incrociando quelle pagine con i romanzi, alcuni dei quali ambientati proprio in Egitto, e con un abbozzo, rimasto però tale, Middlist.
Cialente viene ingaggiata dagli inglesi per un’operazione delicata: rivolgersi ai prigionieri italiani nel Nord Africa e alla comunità italiana in Egitto per demistificare l’immagine e le parole del fascismo. Viene scelta perché fa parte di un gruppo di antifascisti emigrati nel paese nordafricano. Sono i giellisti Umberto Calosso, Giulio Tavernari (alias Stefano Terra, anche lui romanziere), Paolo Vittorelli, i comunisti Renato Mieli, Isa Blattner e Laura Levi.
C’è anche Enzo Sereni, diviso fra il legame con gli inglesi e la sua tensione sionista.
Dall’ottobre del 1940 al febbraio del 1943 Cialente conduce “Siamo italiani, parliamo agli italiani”, una trasmissione quotidiana che inizia alle 19 e finisce alle 23. In quello stesso periodo riceve l’incarico di allestire altre due radio, una delle quali a Gerusalemme. Non è un compito agevole. I sentimenti degli italiani, prigionieri o meno, non sono facilmente interpretabili. Cosa raccontare loro? E come?
Inoltre gli inglesi svolgono un occhiuto controllo. In un suo discorso, Winston Churchill attacca Mussolini, ma non risparmia l’esercito italiano, compresi i più umili soldati.
Cialente, commentandolo alla radio, stigmatizza le parole del premier inglese (lo si deduce dal diario, l’unica fonte per ricostruire i suoi interventi). Lo scandalo è inevitabile, e si ricuce a fatica. A suo carico Cialente, oltre alla propria indipendenza, espone la simpatia per i comunisti (incontrerà anche Togliatti). E da un certo momento in poi, agli inglesi questa adesione verrà mal sopportata. Cialente si scaglia contro il fascismo, a volte lo irride, ma sebbene bandisca la scrittura letteraria, nel suo diario fioriscono anche le descrizioni di paesaggi misteriosamente dotati di fascino, i ritratti dei suoi interlocutori e di un mondo fitto di intrighi.
Il diario, riprodotto in molte parti da Palieri, documenta quanto Cialente conservi la schiena dritta, pur muovendosi abilmente in un ambiente scivoloso. Sente crescere l’ansia perché la madre e il fratello sono in Italia e l’Ovra potrebbe far pagare loro la sua attività. I suoi timori verranno confermati: Renato Cialente, più grande di lei di qualche anno, attore di teatro e divo del cinema, viene investito e ucciso a Roma, occupata dai nazisti, nel novembre del ’43. E poi c’è il risvolto più privato. Dal marito Enrico Terni la dividono vent’anni e la freddezza del loro rapporto emerge a tratti nelle parole del diario (si separeranno dopo la guerra). Al Cairo Cialente s’innamora di un capitano inglese, Albert Nacamuli, ma il loro rapporto non può durare.
Le trasmissioni di Cialente s’interrompono qualche mese prima del 25 luglio. Gli inglesi non hanno più bisogno della sua voce e il fronte antifascista si divide. Nei quattro anni successivi Cialente dirige il giornale Fronte Unito, che diventerà Il Mattino della domenica a guerra finita. La lunga parentesi egiziana di Cialente si chiude. Non l’attività politica, né quella giornalistica.
Va a vivere a Roma, prende a scrivere per l’Unità e per Noi donne. Ma torna anche scrittrice. Radio Cairo resta una pietra miliare, ma nascosta, della sua memoria.