domenica 13 maggio 2018

Il Sole 13.5.18
Fenomenologia del dittatore
L’arte di fare il tiranno
di Emilio Gentile


Siamo debitori con gli antichi greci per parole essenziali del nostro linguaggio politico: monarchia, tirannia, aristocrazia, oligarchia, democrazia, demagogia. Aristotele, il più raffinato fra gli antichi greci nel metodo della distinzione, definì la tirannia la “forma peggiore” fra le forme di governo: «Una monarchia che esercita il potere dispotico sulla comunità», e «irresponsabile impera su tutti i cittadini uguali o superiori per l’utilità propria e non dei sudditi». In un libro intitolato Tiranni il politologo statunitense Waller R. Newell ripercorre per 2500 anni la “strana carriera della tirannia”. Il politologo della Columbia University non menziona Aristotele, né propone una sua definizione della tirannia. Tuttavia, riferendosi ai monarchi orientali, li chiama «tutti tiranni», perché «detenevano sui sudditi un potere assoluto di vita e di morte». In quasi quattrocento pagine, scorre un lunga galleria di tiranni, dagli eroi omerici ai terroristi dello Stato islamico.
Newell distingue i tiranni in tre categorie. Alla prima categoria, il “tiranno giardiniere”, che egli considera al tempo stesso il più antico e “il più frequente nel nostro mondo”, appartengono Gerone I di Siracusa, Nerone, il generalissimo Franco, Atanasio Somoza, Papa Doc Duvalier, Mubarak: essi «dispongono di tutto il loro Paese e della sua società come fossero loro proprietà personali, sfruttandoli per il proprio piacere e profitto e per favorire i loro familiari e sodali». Alla seconda categoria, il “tiranno riformatore”, appartengono «uomini spinti dall’ambizione a godere di sommi onori e ricchezze e a esercitare un potere assoluto», ma non sono «semplici edonisti o profittatori», come i “giardinieri”, perché desiderano «realmente migliorare la loro società e il popolo attraverso un esercizio costruttivo della propria autorità illimitata»: Alessandro Magno, Giulio Cesare, i Tudor, Luigi XIV, Federico il Grande, Napoleone e Kemal Ataturk; i quali spesso «non sono nemmeno percepiti come tiranni, ma come paladini della gente comune». Infine, c’è la terza categorie dei “tiranni millenaristici”, fra i quali «rientrano figure come Robespierre, Stalin, Hitler, Mao, Pol Pot e i jihadisti di oggi»: essi «non si accontentano di essere banali tiranni giardinieri, ingordi e sfruttatori, e neppure di essere dei tiranni riformatori, che aspirano a realizzare miglioramenti costruttivi», ma sono piuttosto guidati «dall’impulso di imporre un regime utopico a cui l’individuo deve sottostare per il bene collettivo e in cui ogni privilegio e alienazione saranno per sempre sradicati». I “tiranni millenaristici”, secondo il politologo, sono tutti moderni e non hanno precedenti fino al Terrore giacobino del 1793.
Un così vasto panorama storico ha un suo fascino, sia pur terribile. Si rimane colpiti dall’onnipresente potenza della tirannia che si perpetua per 2500 anni: nel racconto del politologo, ricorre martellante il monito: «La tirannide è un’alternativa permanente nella vicende umane e nell’interpretazione dell’azione politica”. Tuttavia, il libro si chiude con un atto di fede nella democrazia, «destinata a sconfiggere la tirannia, per il semplice fatto che è un’idea migliore».
Pur condividendo tale atto di fede, alla fine della lettura si rimane alquanto sconcertati. Prima di tutto, per alcuni rilevanti svarioni, commessi forse per eccesso di analogia: come quando il politologo afferma che molti dei tiranni millenaristi iniziarono la «loro ascesa al potere tiranno insolitamente presto … Verso i trent’anni Hitler era già una grande figura pubblica della Germania; Lenin divenne il leader indiscusso dei bolscevichi a trentatré anni; alla stessa età, Robespierre prese il predominio sui giacobini». In realtà, a trent’anni, nel 1919, Hitler era sconosciuto e impiegò 14 anni per ascendere al potere; nel 1903, la fazione bolscevica era meno numerosa di una scolaresca, e solo 14 anni dopo, a 47 anni, Lenin conquistò il potere. Un appropriato esempio di giovanile ascesa al potere tirannico poteva essere Mussolini, che divenne capo del governo a 39 anni: ma al tiranno italiano, venerato da Hitler come maestro e modello, il politologo dedica appena due pagini sciatte e scialbe, per descriverlo come una macchietta dal «machismo spavaldo», ponendolo in una scombinata associazione accanto a Salazar, Somoza, Mubarak, Assad, Peron.
Ma anche nelle tre categorie, i tiranni appaiono collocati alla rinfusa, come Gerone e Franco fra i “tiranni giardinieri”. Per esempio, non sembra storicamente plausibile attribuire la stessa mentalità millenarista a Robespierre e a Hitler, facendo del primo addirittura l’antenato di tutti i tiranni millenaristici. Neppure si comprende perché sono “millenaristici” solo i tiranni nati dopo Robespierre, mentre non sono menzionati i tiranni religiosi del Medioevo. Studiati nel 1957 da Norman Cohn ne I fanatici dell’Apocalisse (Edizioni di Comunità, 2000):per esempio, Giovanni di Leida, proclamatosi re di Münster nel 1534, fu certamente un tiranno millenarista molto più affine di Robespierre o di Hitler ai tiranni dell'ISIS. A questo proposito, forse sarebbe stato opportuno, per maggior aderenza alla storia, distinguere almeno i tiranni millenaristi e i tiranni del “messianismo politico”, ai quali ha dedicato una storia in tre volumi Jacob Talmon, iniziando con la “democrazia totalitaria” dei giacobini. Ma probabilmente neppure questa distinzione avrebbe reso più convincenti le analogie e le genealogie proposte nella “strana carriera della tirannia” dal politologo della Columbia University.
Strane è piuttosto la sensazione che rimane alla fine della lettura: sembra di aver assistito alla formazione di un “buco nero” storiografico, dove sono stati risucchiati i più eterogenei e inassimilabili personaggi vissuti durante duemilacinquecento anni di storia: un re greco che a capo degli achei nella guerra di Troia; un sovrano inglese per diritto divino della dinastia Tudor, che si fece capo di una Chiesa; un avvocato della provincia russa, che dopo trent’anni di oscura militanza diventò l’artefice di una rivoluzione mondiale; un generale turco che fondò una repubblica laica sulle rovine di un vasto impero islamico; un georgiano, ex seminarista ortodosso, che divenne il costruttore e capo osannato di un possente impero ideologico e militare, esteso dall’Europa centrale al Pacifico; un anonimo austriaco, architetto mancato, assurto a capo assoluto di uno degli Stati più moderni e colti d’Europa, con una partito razzista e antisemita, e così ancora per 2500 anni della “strana carriera della tirannia”, dove, alla fine, si identificano tutti con un personaggio, il tiranno, sempre e ovunque uguale a se stesso. Il protagonista unico di una storia senza storia.

Waller R. Newell, Tiranni. Una storia di potere, ingiustizia e terrore , trad. di Luigi Giacone, Bollati Boringhieri, Torino,
pagg. 396, € 25