Il Sole Domenica 20.5.18
Tradurre i classici: «la mite» di Dostoevskij
Maestro di eloquenti silenzi
di Serena Vitale
Il
racconto «La mite» di Dostoevskij narra di un uomo la cui moglie,
suicidatasi poco prima, è stesa davanti a lui. Il suo soliloquio,
delirante e sconnesso, con esitazioni, ripetizioni, balbettii è stato
tradotto per Adelphi (in libreria il 22 maggio) da Serena Vitale. Qui,
scelti dalla stessa Vitale, anticipiamo stralci del testo di Dostoevskij
e della curatrice
La scrittura sovversiva,
disarmonica, «goffa» di Dostoevskij, la sua costante violazione delle
norme (stilistiche, grammaticali, lessicali – d’ogni genere) suscitò fin
dagli inizi giudizi severi. Persino parodie. (…) Da molti, anche in
seguito, lo «stile» dostoevskiano fu accusato di prolissità, monotonia,
enfasi, sentimentalismo, eccesso - di ripetizioni, epiteti altisonanti,
prestiti dal parlato e dal linguaggio delle cancellerie, diminutivi, e
così via. Tolstoj diceva: «Nonostante l’orrenda scrittura, in
Dostoevskij si trovano pagine straordinarie», mentre Nabokov spiegava ai
suoi studenti americani: «La fastidiosa ripetizione di parole e frasi,
l’intonazione di chi è posseduto da un’idea ossessiva, l’assoluta
banalità di ogni parola e la magniloquenza a buon mercato caratterizzano
lo stile di Dostoevskij... ». Quanto al periodo sovietico, di ben più
gravi colpe fu imputato lo scrittore «reazionario » che «predicava il
cristianesimo e lottava contro l’ateismo, che rifiutava i metodi
violenti della lotta rivoluzionaria », ecc.
Dopo la parziale
riabilitazione, a sua discolpa si levò, fra altre, la voce dell’insigne
accademico Dmitrij Licha?ëv; spiegò che la «sciatteria», le varie forme
di consapevole e intenzionale «imprecisione» linguistica sono
giustificate «dal desiderio di un’incompiutezza che stimoli il pensiero
del lettore, che provochi le sue conclusioni, riflessioni...». Ma anche
quella di Licha?ëv sembra soltanto una tiepida difesa d’ufficio che non
risparmia al «grande sperimentatore » nuove, seppure benevole, rampogne:
« “Liputin era un uomo inquieto e per di più di basso grado” ... Qual è
il legame tra grado basso e inquietudine? ... “La stessa Marija
Ivanovna era imbottita di romanzi sin dall'infanzia e li leggeva giorno e
notte, nonostante il suo splendido carattere”... Per quale motivo, ci
si chiede, uno splendido carattere dovrebbe impedire di leggere i
romanzi giorno e notte?».
Per quale motivo, ci si chiede,
pretendere «motivi», «legami » - logici, sensati, ragionevoli - dal più
misconosciuto estro comico della letteratura russa, dal più abile genio
guastatore della letteratura mondiale, capace di far saltare i ponti dei
più solidi, apparentemente incrollabili, nessi causali?
Ho
tradotto senza limare, ammorbidire, ingentilire («terzo grado di
turpitudine nella trasmigrazione da lingua a lingua» secondo Nabokov) il
soliloquio - tutto esitazioni, ripetizioni, contraddizioni, balbettii,
ripensamenti - dell’uomo rimasto solo davanti al cadavere della moglie.
Il concitato e torrenziale monologo del «maestro di silenzi eloquenti»
(maestro, anche, di consapevole ignoranza: soltanto alla fine la «verità
» continuamente nominata e sempre elusa gli si rivela, tremenda, e lo
ammutolisce) non tollera grazia, eleganza.
Non ho attenuato la
coloritura iperbolica degli avverbi; sfruttando una possibilità del
russo colloquiale, per esempio, a «molto » Dostoevskij preferisce užasno
(da užas, « terrore, orrore ») o strašno (da strach, « paura, terrore
»): « tremendamente, terribilmente»... Mi sono permessa soltanto alcune
variazioni («di colpo», «di punto in bianco», « d’un tratto », « a un
tratto », ecc.) nel tradurre vdrug, « improvvisamente », che compare
settantasei volte nell’originale. La sua alta, «sproporzionata»
frequenza nell’opera di Dostoevskij (il record appartiene a Delitto e
Castigo, con millecinquecentosessanta occorrenze) è stata spiegata con
le numerose e brusche «transizioni» dei personaggi a un diverso stato
psicologico (M. Slonimskij, V. Toporov), come prova
dell’insubordinazione di parole o atti a quanto li precede e potrebbe
esserne interpretato come causa (M. Bachtin), addirittura come una eco
dell’occasionalismo filosofico di Malebranche, «dove nessun evento ha
per sé altro motivo che l’“improvvisamente” sancito da Dio» (K. Baršt).
Per
certo l’ossessivo ripetersi dell’apparentemente innocuo monosillabo
contribuisce ad accelerare il tempo già spasmodico - misurabile in
attimi, istanti, baleni - della narrazione, a tenere il lettore in un
quasi doloroso stato di allarme. Per certo vdrug è la forma più
elementare in cui si esprime la vocazione dostoevskiana a trasformare i
più lievi e impercettibili moti dell’animo, i minimi casi della vita
quotidiana, in imprevisti accadimenti romanzeschi, in subitanee
catastrofi - in apocalissi. Non a caso «improvvisamente » scompare
all’improvviso nell’ultimo capitolo della Mite, dove il tempo è ormai
quello della Rivelazione: il sole è morto, dappertutto solo cadaveri ...
Ma non ci sono angeli né libri né sigilli, e invece delle trombe si
sente unicamente il battito di un insensibile pendolo... Non c’è più
nulla, soltanto un paio di scarpine vuote.