Corriere La Lettura 20.5.18
Bisogni
Ciascuno vive il suo romanzo
Freud insegna: disertare fa bene
Ogni letteratura è di evasione
di Emanuele Trevi
Non
c’è niente da fare: anche in culture e periodi storici disposti a
riconoscere i diritti al principio del piacere e alle sue svariate
esigenze, al concetto di «evasione» si accompagna, come un arcano e
incontrollabile riflesso condizionato, una certa dose di riprovazione
morale, tanto più insidiosa quanto più facilmente occultata dietro una
maschera di benevola tolleranza. Nel campo della letteratura e in
particolare del romanzo, la questione è bruciante ancora oggi, anche se è
quasi scomparsa l’autorevolezza dei critici di una volta, con il loro
minaccioso dito puntato a distinguere l’alto dal basso, il commerciale
dall’autentico. Va bene, ma quale scrittore sarebbe soddisfatto nel
sentirsi confinare nella sfera della «letteratura d’evasione»? Non si fa
in tempo a pronunciare le parole, che già si spande nell’aria un odore
inconfondibile di insulto e degnazione. Evasore sarà lei!
Non è
una questione di generi narrativi, evidentemente. Che scriva saghe
familiari o fantascienza, storie d’amore o gialli, in ogni scrittore
agisce l’ambizione di creare un’immagine credibile del mondo. Qualunque
cosa si intenda con questo termine così opinabile, è pur sempre la
«realtà», o meglio una certa idea o fantasma della «realtà», la posta in
gioco suprema dell’atto di immaginazione richiesto al lettore. E poco
importa, in fin dei conti, che i cosiddetti piedi sulla terra posino su
un terreno mutevole e inaffidabile, che si può considerare solido solo
per la forza dell’abitudine e delle convenzioni. Tutto nella nostra
educazione di occidentali concorre a metterci in sospetto contro ogni
tentativo di fuga, considerato come una diserzione bella e buona: il
primato della storia sul mito e dell’utile sul superfluo, la certezza di
un progresso indefinito, l’idea stessa dell’uomo come animale politico.
Sono idee potenti, tutt’altro che facili non dico da scalzare, ma da
mettere in discussione. Potremmo chiuderci in biblioteca a studiare per
anni i maestri indiani, affascinati dai concetti, così misteriosamente
consolatori, dell’impermanenza e dell’illusorietà delle apparenze. Non
avremmo certo perso tempo, ma le idee che leggiamo nei libri
difficilmente hanno presa sulle nostre convinzioni profonde. Quanto più
ci angoscia, tanto più la «realtà» esercita su di noi un potere
ipnotico, come lo sguardo di una Medusa che possiamo sopportare solo
perché i nostri simili sono lì a subirlo assieme a noi.
Eppure, il
gregge umano ha una caratteristica che lo rende diverso da tutti gli
altri, e incomparabilmente più complesso, imprevedibile, affascinante.
Potremmo definirlo come un gregge composto di miliardi di pecorelle
smarrite. La maggior parte degli individui si adegua, più o meno
faticosamente, al piano collettivo della «realtà». Ma mai in maniera
così completa da non nutrire, nel segreto inviolabile della sua
coscienza e delle sue pulsioni profonde, un irrimediabile desiderio di
assentarsi, disertare, tagliare la corda. E la lima che taglia le sbarre
della prigione è proprio un’attività narrativa che ci trasforma tutti
in romanzieri di noi stessi.
Con la sua straordinaria abilità a
descrivere i processi mentali, Sigmund Freud fotografò alla perfezione
il fenomeno in un breve saggio del 1909 intitolato Il romanzo familiare
del nevrotico. È su queste pagine, pervase di un’umanissima ironia, che
andrebbe fondato un possibile elogio dell’evasione. Freud ci introduce a
un artigianato mentale che manipola senza sosta i dati dell’esperienza,
trasformando, come per magia, le frustrazioni in vantaggi, i desideri
più inconfessabili e impossibili in piaceri goduti. Un romanzo
interminabile ci accompagna così lungo il sentiero impervio e sassoso
della vita «reale»: è lì che finiamo sempre per vincere, sormontando le
avversità; è lì che teniamo in mano il mondo come un’eredità e un
oggetto magico. Probabilmente, colui che Freud definisce il «nevrotico»
non è altro che l’essere umano, questo animale diviso a metà, lacerato
tra la forza di gravità del qui e la leggerezza incorporea dell’altrove.
Tutta la letteratura, da questo punto di vista, è letteratura
d’evasione. Si trattasse anche solo di immaginare la prigione in cui è
rinchiuso, per il prigioniero anche questa è una specie di libertà, una
via di fuga.