Il Sole 24.5.18
La conquista dell’identità. Un argomento continuo nella sua opera
Giacobbe postmoderno in lotta con la casa ebraica
di Giulio Busi
Non
si diventa uno dei più grandi autori del secondo dopoguerra con un solo
talento. Philip Roth ha battuto molte strade. Una delle sue vie porta
dritto alle ossessioni sessuali. È un cammino di parole azzardate, di
metafore crude, di ribellioni verbali ancor prima che morali. Un’altra
via lambisce la morte, la decadenza, la sconfitta. Mai pietoso, mai
eufemistico, Roth ha costruito il proprio stile con fenditure, graffi,
discese verticali verso il fondo della pagina.
C’è qualcosa, nella
sua prosa, che ricorda i tagli di Lucio Fontana. Slabbrature che
inaugurano una nuova spazialità, oltre le convenzioni pittoriche, nel
caso di Fontana. E crepacci del dire che impongono una diversa verità
espressiva, nella scrittura di Roth. Le sue parole, negli anni Sessanta
della ribellione generalizzata, suonano volutamente acide, corrosive,
scandalose. A parecchi ebrei, Roth appare come un nemico.
Alla
pubblicazione del Lamento di Portnoy, nel 1969, che consacra il suo
successo, Gershom Scholem, il grande studioso di misticismo ebraico,
scrive una recensione al vetriolo, in cui afferma, tra le altre cose:
«questo è il libro che gli antisemiti pregavano di avere». Troppo cruda
la rappresentazione del mondo ebraico, e troppo distante dai modelli
rassicuranti del successo e dell’integrazione nel sogno americano.
Eppure,
quasi tutta l’opera di Roth è anche una vasta, imponente casa ebraica.
Un edificio in cui il lettore fatica a entrare, almeno quanto lo
scrittore si sforzi faticosamente di uscirne. A esergo del suo primo
romanzo, Goodbye Columbus, Roth scrive una sola, enigmatica frase: «Il
cuore è un mezzo profeta», accompagnata dalla dicitura “Proverbio
yiddish”. È come se venisse a prenderci sulla soglia di casa, con una
promessa invitante ma subito smorzata. Perché “solo mezzo”? Chi deve
metterci l’altra metà, in questo cuore, affinché le sue profezie si
possano avverare?
La forza di Roth è stata quella di
circumnavigare, libro dopo libro, i vuoti, le manchevolezze, le ombre
del giudaismo proprio e altrui, senza abbellimenti. Parlavamo di tagli
sulla tele e nella pagina. Se pensate che rovinino la superficie,
quell’arte non fa per voi. In una difesa pubblicata negli anni Settanta,
Roth scrive che «la disapprovazione che alcuni ebrei vedono nelle mie
descrizioni ha più a che fare con la loro morale che con quella che essi
stessi mi ascrivono. Talvolta vedono malvagità dove io ho invece visto
energia, coraggio o spontaneità».
Energia, è questo che il giudaismo significa nell’opera di Roth.
Un’energia
debordante, contradditoria, difficile da controllare. In uno dei suoi
lavori più complessi, l’Operazione Shylock, del 1993, Philip Roth si
trova a contrastare un suo sosia che - spacciandosi per lui - tenta di
promuovere l’abbandono di Israele in favore della diaspora. Moishe
Pipik, questo il nomignolo affibbiato al falso Roth, sostiene che
Israele sia la fonte di tutti i mali, mentre la sola salvezza
risiederebbe nel ritorno in Europa. Un gioco di specchi, in cui negatori
e negati, amici e nemici, odio antisemita e autodenigrazione
s’intrecciano continuamente. Lo scontro tra il “vero” Roth e il suo
doppio diviene un vero e proprio agone fisico.
La casa ebraica, di
cui cercavamo l’entrata, si trasforma qui in uno spazio notturno,
carico di tensione, che non può che ricordare la lotta biblica di
Giacobbe con l’angelo. Ma Roth è un Giacobbe postmoderno che si trova a
combattere contro se stesso e, contemporaneamente, si divincola tra i
sogni, o gli incubi, altrui. Il sosia Pipik non è certo solo un angelo,
foss’anche quello della morte. È un fantasma nato dalle paure che si
portano nell’anima, dalle pulsioni, dai desideri, allo stesso tempo
fallaci e irresistibili.
La lotta di Philip Roth, durata ben più
di una notte, è anche quella con l’ebraismo, tra dubbi sfinenti e
riconquistate certezze. Il lettore che si lascia trasportare dal grande
epos ebraico-americano di Roth non deve aspettarsi ricompense immediate.
Bisogna conquistarsela, quella metà della profezia che il cuore non sa
immaginarsi. Non è questione di opporsi alle tradizioni, o di lasciarsi
traviare dai difetti ebraici, veri o presunti. La profezia che manca
viene dalla lotta, dai lati sfrangiati del racconto, dall’incompletezza.
La
parte che non c’è è la più necessaria. Per questo esistono i proverbi
yiddish, perché si possa esser certi che manca ancora molto, prima di
giungere alla meta. E di quel molto, che ci piace chiamare letteratura,
Roth è stato un maestro ineguagliato.