venerdì 25 maggio 2018

Conte: “Mi propongo come avvocato difensore del popolo italiano”. Punterà sull’infermità mentale.
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Il Fatto 25.5.18
Referendum per sapere se Podemos può avere la villa
Iglesias e compagna nella bufera per la casa da 600.ooo euro con piscina
“Imborghesiti”. È l’accusa contro il segretario. Che ha chiesto al partito di pronunciarsi – Ansa
di Elena Marisol Brandolini


L’acquisto di un villino con piscina, in una zona bene fuori Madrid, da parte della coppia antisistema della sinistra spagnola, sta diventando un caso mediatico, con conseguenze politiche tutte da definire. Dalla metà della scorsa settimana, infatti, il segretario di Podemos Pablo Iglesias e la portavoce del gruppo parlamentare Irene Montero sono sotto i riflettori accusati di essersi imborghesiti per aver comprato una casa per il valore di 600.000 euro con l’accensione di un mutuo a 30 anni. In particolare, a Iglesias si rinfaccia di essersi pronunciato, anni fa, contro un ministro per l’acquisto di un attico di pari importo, ma loro dicono di aver comprato una casa per abitarci, non per speculare.
Iglesias e Montero, che vivono con due cani e sono in attesa di due figli gemelli, spiegano che da tempo stavano cercando una casa in campagna per costruire un progetto di vita familiare che garantisse loro un minimo d’intimità. Quella di cui ora non dispongono, inseguiti ovunque dai paparazzi fin dentro gli ospedali, con foto delle ecografie vendute per 15.000 euro a mezzi d’informazione senza scrupoli. Riconoscono di potersi permettere di pagare un mutuo di 800 euro ciascuno, grazie agli stipendi di deputati che corrispondono a tre volte il salario minimo, così come dettano le regole del codice etico del partito. Denunciano la persecuzione mediatica sofferta in seguito all’acquisto della casa di cui sono state pubblicate le foto dell’interno, l’aggressione di gruppi d’estrema destra che hanno appeso sulla facciata uno striscione di benvenuto a rifugiati ed occupanti abusivi e ne starebbero organizzando, via Facebook, un’inaugurazione pubblica. E passano all’attacco promuovendo una consultazione interna. Perché se l’accanimento è mediatico, la critica che più brucia è quella che viene dall’interno del partito, dall’area anticapitalista andalusa in particolare e dal sindaco di Cadice José María González, detto Kichi, che rivendica di essere rimasto a vivere in un appartamento di gente normale che lavora.
Convinti che una decisione personale abbia ingenerato un problema sulla loro credibilità politica, Iglesias e Montero hanno chiesto alla base di pronunciarsi sul fatto se debbano rimanere ai loro posti di guida del partito o dare le dimissioni e la consultazione, in atto da un paio di giorni, si concluderà domenica.
Una consultazione sostenuta dall’Esecutivo di Podemos, ma criticata da una sua parte, alcuni hanno dichiarato che non vi parteciperanno. Il cui risultato perciò dipenderà dalla partecipazione, se prevarrà la considerazione che si tratti di una questione privata o dell’esempio di una nuova politica. Perché se questa sarà bassa, ha dichiarato ieri Iglesias, corrisponderà a un fallimento, obbligando lui e la sua compagna alle dimissioni.
In una lettera pubblica a uno dei fondatori di Podemos Juan Carlos Monedero, Kichi afferma che la gente non perdonerà quei dirigenti di Podemos che scelgano la parte sbagliata. La sindaca di Barcelona Colau considera l’acquisto del tutto legittimo e la consultazione una risposta eccessiva. Attonita, la sinistra spagnola si gioca il suo futuro sulla compera di una casa di prima abitazione dal valore di 600.000 euro.

Corriere 25.5.18
Lo zio frate: quelle messe con Giuseppe per salutare Padre Pio
di Candida Morvillo


Lo zio frate di Giuseppe Conte ora ogni giorno dice una preghiera supplementare per il nipote, che è stato incaricato premier mentre lui recitava i vespri della sera e lo pensava. Fra Fedele, 75 anni, si occupa di assistere i pellegrini nel convento dei Cappuccini di Padre Pio a San Giovanni Rotondo. «San Pio ha cresciuto me e i miei otto fratelli, incluso Nicola, il papà di Giuseppe», racconta al Corriere. «Abitavamo a Cerignola, papà ci portava ad ascoltare la messa di Padre Pio e a stringergli la mano. A volte, si alzava alle due e mezzo del mattino per assistere alla preghiera delle quattro. Abbiamo tutti assorbito la guida santa di Padre Pio, poi Nicola ha studiato legge, io ho preso la strada stretta di San Francesco. A noi bambini Conte, Padre Pio diceva sempre che il migliore insegnamento è il buon esempio ed è su questo principio che Nicola ha cresciuto Giuseppe. Non sento mio nipote da un po’, ma l’ho frequentato tanto fino ai 18 anni, poi è andato a Roma e a casa tornava poco. È sempre stato studioso e ha fatto tutto da solo». Sui titoli di studio che non sarebbero esattamente quelli vantati, Fra Fedele non ha dubbi: «So che Giuseppe è sempre stato bravo e so che mio padre Achille Conte, cioè suo nonno, ha trasmesso a tutti noi tre cose: onestà, sincerità e lavoro». E su questo, Fra Fedele è severo perché la sua decisione di farsi frate ha a che fare proprio con le bugie. L’ha raccontato lui nel 2012 a Padre Pio Tv: «A 18 anni, alla mia prima confessione con Padre Pio, ammisi piccoli peccati. Mi chiese se c’era altro, risposi di no e lui mi rimproverò. Scoprii che senza accorgermene, avevo peccato di “bugie di copertura”, coprendo, per esempio, mio fratello che prendeva l’auto e mi chiedeva di non dirlo a papà. Padre Pio mi disse: le bugie sono punture di spillo nel cuore. Ed è in quel momento che inizia la mia vocazione».

il manifesto 25.10.18
Storico referendum sull’aborto, Irlanda oggi al voto
Ottavo emendamento. Il primo ministro Leo Varadkar, del partito conservatore Fine Gael, ha ribadito il suo supporto per il Sì facendo leva sulla «compassione», lo slogan per convincere i moderati
Campagna per il Sì al referendum del primo ministro Leo Varadkar
di Vincenzo Maccarrone


DUBLINO Si decide tutto in 15 ore. Oggi alle 7 del mattino si sono aperte in Irlanda le votazioni per il referendum sul diritto all’aborto, che chiuderanno alle 22 (23 in Italia). Lo spoglio inizierà sabato matina. Uniche eccezioni alcune piccole isole, dove le votazioni sono iniziate già ieri. Agli elettori verrà chiesto se intendono abrogare o meno l’ottavo emendamento della costituzione che, equiparando i diritti del feto a quelli della madre, impedisce l’aborto in ogni situazione, se non in caso di pericolo di vita della madre. In caso di vittoria del Sì il governo si è impegnato a proporre una legge entro l’estate, di modo che il parlamento possa votare entro la fine dell’anno. La bozza di legislazione presentata prima del referendum prevede l’introduzione del diritto all’aborto senza condizioni fino a 12 settimane dal concepimento. In caso di vittoria del No potrebbero passare anni prima che venga convocato un altro referendum.
Parlando di fronte al parlamento, il primo ministro irlandese Leo Varadkar, del partito conservatore Fine Gael, ha ribadito il suo supporto per il Sì, commentando che nel caso vincesse l’abrogazione dell’ottavo emendamento l’Irlanda rimarrebbe lo stesso paese di prima, solo «più compassionevole». E proprio la compassione è stato uno dei temi portanti della campagna ufficiale, in modo da fare appello anche all’elettorato più moderato. A Varadkar hanno fatto eco i leader due principali partiti di opposizione, Micheál Martin del Fianna Fáil e Mary Lou McDonald del Sinn Féin. Stando agli ultimi sondaggi, il Sì è in vantaggio ma con un margine ridotto rispetto al mese precedente. Gli indecisi giocheranno quindi un ruolo decisivo. Non a caso Varadkar ha ricordato che il referendum che introdusse il divorzio nel 1995 fu vinto di soli diecimila voti: uno per ciascuna urna elettorale.

il manifesto 25.10.18
Irlanda, la ferocia dell’ottavo emendamento sulle donne migranti


Quando si pensa al referendum sull’aborto del 25 maggio, si pensa e si sente parlare di come le donne irlandesi debbano recarsi in altri paesi per avere accesso all’interruzione di gravidanza. Quello a cui spesso non si pensa però sono le centinaia di donne che non possono viaggiare per restrizioni economiche e/o di visto e che sono quindi costrette a portare a termine la gravidanza. Le richiedenti asilo e le cittadine non europee o non possono lasciare l’Irlanda, o possono farlo ma a rischio di non potervi far ritorno.
Nella coalizione pro-choice, chiamata Together for Yes, c’è un gruppo che dà loro visibilità, enfatizzando l’impatto ‘speciale’ che l’Ottavo emendamento ha su di loro. Si tratta di Merj (Migrants and Ethnic Minorities for Reproductive Justice). L’approccio di Merj è più ampio rispetto alla battaglia per il diritto all’aborto. «L’Ottavo emendamento non è esclusivamente connesso all’interruzione di gravidanza, ma all’accesso alle cure durante la gravidanza e alla maternità più in generale», dice Cristina. «La salute delle donne è spesso pensata in termini di gravidanza e parto, e questo porta il personale medico a ignorare le altre dimensioni della salute delle pazienti».
Merj combatte su più fronti, uno dei quali è il razzismo presente tra il personale medico verso donne migranti, nere o provenienti da minoranze etniche, come ad esempio le persone travellers. Eileen Flynn, donna traveller, ha raccontato durante un workshop organizzato da Merj e intitolato «Imparare dalle migranti e dalle minoranze etniche» tenutosi il 12 maggio a Dublino, che, a causa della discriminazione subita, molte donne della sua comunità non hanno fiducia nel servizio sanitario. Non stupisce se si pensa al trattamento riservato alle persone traveller in Irlanda, stesso trattamento che ricevono le donne migranti e/o nere, come ad esempio Bimbo Onanuga, cittadina nigeriana. A causa di una gravidanza extra-uterina, a Bimbo fu praticato un aborto (rarissimo caso in cui l’aborto è legale) nel 2010. Un violento sanguinamento interno seguì l’operazione e Bimbo chiese aiuto più volte al personale medico finché non morì. Secondo l’Aims, l’Associazione per il miglioramento dei servizi alla maternità, si trattò di un episodio di discriminazione operato contro una donna a cui non si sono prestate cure perché non creduta. Un’indagine non è stata aperta, ma sono diverse le attiviste di MERJ che raccontano come sia difficile farsi credere dai medici, convinti che le donne di colore abbiano una resistenza superiore al dolore.
Non è una coincidenza che i casi più famosi legati all’Ottavo emendamento siano di donne migranti o minoranze etniche: Ms. X, Ms. Y e Savita Halappanavar. Ms. X era una minorenne di origine traveller a cui, in seguito a uno stupro, fu negato il diritto di viaggiare per abortire in Gran Bretagna nel 1992. Ms. Y era una richiedente asilo che, arrivata nel 2014 incinta dopo uno stupro, tentò di raggiungere la Gran Bretagna, meta più accessibile dall’Irlanda, per abortire. Fu arrestata perché in violazione delle leggi sulla migrazione e rimandata in Irlanda dove, intrapreso uno sciopero della fame, fu nutrita a forza e costretta a portare avanti la gravidanza. Savita, indiana, morì nel 2012, dopo tre giorni in setticemia all’ospedale di Galway. «Questo è un paese cattolico», fu risposto al marito che chiedeva un aborto per salvare la moglie.
L’Ottavo emendamento colpisce sproporzionatamente le donne più vulnerabili. Per Merj la battaglia non sarà finita il 25 maggio. «Ci sarà ancora da combattere il razzismo e la discriminazione nei servizi medici», dice Emily.
*** Migrants and Ethnic Minorities for Reproductive Justice

Repubblica 25.5.18
Leo Varadkar Oggi il referendum
La sfida d’Irlanda sulla legge anti aborto più dura della Ue
“Libertà e salute” contro “licenza di uccidere”. In testa i sì all’abrogazione
intervista di Enrico Franceschini


DUBLINO «Dignità, salute, libertà di scelta», si legge sul manifesto affisso sul lato destro della strada. «Licenza di uccidere», si legge sul lato di sinistra, sullo sfondo della foto di un bambino insanguinato. Basta poco per capire su cosa si gioca il referendum di stamane in Irlanda sull’aborto: parole contro immagini, ragionamento contro emozioni, dati di fatto contro slogan. Una sfida che si è già svolta con argomenti simili altrove, dalla Gran Bretagna della Brexit all’America di Trump. In teoria, la consultazione irlandese dovrebbe premiare il raziocinio sulla retorica. Quello che un tempo era il paese più cattolico d’Europa ha già percorso un lungo cammino sulla strada della modernizzazione. Nel 1995 ha legalizzato il divorzio. Tre anni fa ha approvato il matrimonio fra persone dello stesso sesso, dopo una campagna referendaria in cui Mary Robinson, la prima donna eletta presidente della repubblica nell’Isola di Smeraldo, affermava: «Ho due figli, uno eterosessuale, uno omosessuale, voglio che abbiano esattamente gli stessi diritti». E a schierarsi ora per il diritto d’aborto è un primo ministro irlandese, Leo Varadkar, dichiaratamente gay.
Politicamente, Varadkar non è solo: tutti i partiti irlandesi sono favorevoli ad abrogare l’articolo 8 della Costituzione (introdotto a sua volta da un referendum, nel 1983) che riconosce il “diritto alla vita dei non nati”, imponendo il divieto d’aborto più restrittivo di tutta l’Unione Europea. La gravidanza non può essere interrotta neanche in caso di stupro, incesto o anomalie fetali che porteranno alla morte del neonato. La campagna per abrogare il divieto è nata da un episodio clamoroso: la morte di Savita Halappanar, una donna di 31 anni a cui fu impedito di abortire nonostante fosse in corso una grave infezione. Ma l’unanimità della classe politica ricorda quella dei partiti britannici, dai conservatori ai laburisti ai liberaldemocratici, nel referendum del 2016 sull’uscita dalla Ue. Non servì a niente. La “vox populi” smentì quella che sembrava l’opinione dominante.
Succederà anche in Irlanda?
I sondaggi non lo escludono. Fino a sei mesi or sono, il “sì” all’abrogazione del divieto di aborto era in netta maggioranza.
Negli ultimi giorni le distanze si sono ridotte. L’ultimo rilevamento dà ancora i “sì” in testa, 44-34 per cento, ma il fronte del “no” appare fiducioso di una sorpresa: esattamente come accaduto con la Brexit nel Regno Unito.
Affiorano altre similitudini. Nelle città e tra i giovani, stravince il diritto all’aborto. Nelle zone rurali e tra gli anziani, è in vantaggio il diritto alla vita del feto. E il web svolge anche qui un ruolo chiave.
Gruppi anti-abortisti americani hanno finanziato una campagna di martellante propaganda online che, come nei manifesti affissi nelle strade, punta tutto su immagini estreme. «Ho dodici settimane, respiro e scalcio, non uccidetemi», recita lo slogan messo in bocca ad un feto.
Il dilemma irlandese, aborto sì o no, contiene un’ipocrisia di fondo: abortire in realtà è possibile, a condizione di andare all’estero.
Come fanno circa 3500 donne l’anno, recandosi nella vicina Inghilterra. In sostanza, il divieto colpisce soltanto le donne più povere, le immigrate, non in condizioni di viaggiare. «A differenza del matrimonio fra persone dello stesso sesso, l’aborto mette totalmente in discussione il controllo della società sulle donne», aggiunge Laura Fano Morissey, italiana sposata con un irlandese e madre di due figli, impegnata nella campagna per il sì. «Sotto questo aspetto è molto più simile alla campagna del ’95 per il divorzio, perché anche in quel caso veniva avvertita una perdita di potere da parte degli uomini». Il diritto di aborto sarebbe dunque l’ultimo atto di un graduale affrancamento da una società patriarcale e tradizionalista. Su cui pesa naturalmente l’influenza della Chiesa cattolica. La quale ha avuto due punti di forza in Irlanda. In primo luogo, è stata un bastione dell’indipendenza, dopo la secessione dalla Gran Bretagna di un secolo fa: non per nulla, nell’Irlanda del Nord rimasta sotto il controllo di Londra, i cattolici sono indipendentisti e i protestanti anglicani sono fedeli alla monarchia britannica. E in secondo luogo il cattolicesimo ha offerto conforto a una piccola nazione per lungo tempo in miseria. Ma poi è emerso il lato oscuro di questa pia assistenza: le “lavanderie” delle Magdalene Sisters, gli orfanatrofi religiosi dove si consumavano abusi sessuali e umanitari.
Contemporaneamente, negli ultimi vent’anni, l’Irlanda ha vissuto un prodigioso boom, che — a dispetto di un paio di drammatiche crisi — ha sviluppato benessere e secolarismo. Al resto provvedono i controversi benefici fiscali che hanno attirato a Dublino il quartier generale europeo di tante multinazionali, comprese quelle della rivoluzione digitale. L’Emerald Island è irriconoscibile rispetto al passato.
E tuttavia, gli espatriati che ieri affollavano l’aeroporto della capitale, di ritorno in patria per votare nel referendum, erano accolti all’uscita da una scritta su una torre: God is love, Dio è amore. Come un monito che, equiparando il diritto d’aborto con il contrario dell’amore, li rincorre stamane nelle urne.

La Stampa 25.5.18
In Italia ogni due giorni sparisce un bambino “L’emergenza degli invisibili è sempre più grave”
Il dossier di Telefono Azzurro per la Giornata internazionale dei bimbi scomparsi: 4 su 5 non vengono trovati. La situazione peggiore riguarda i minori stranieri non accompagnati
Secondo una stima recente almeno 8 milioni di bambini scompaiono ogni anno nel mondo: è l’equivalente di 22 mila al giorno
di Filippo Femia

qui

Il Fatto 25.5.18
Conte, il designato è un “sopravvissuto”
di Salvatore Settis


Designated Survivor è una serie Neflix di gran successo. La trama ha un nucleo semplice: a Washington, un attentato fa saltare in aria il Capitol durante una seduta plenaria di Camera e Senato. Muoiono il presidente e il vicepresidente, i senatori e i deputati, tutti i ministri. Salvo uno, un ministro di seconda fila, Tom Kirkman (impersonato da Kiefer Sutherland), che secondo una qualche legge americana (non so se vera), essendo l’unico membro superstite del governo automaticamente diventa presidente degli Stati Uniti.
Molti gli danno addosso perché non ha vera legittimazione popolare, altri gli danno fiducia in attesa di vedere come si comporta. Il successo della serie si basa sulla bravura dell’attore, ma anche sul fatto che Sutherland, lo stesso che nella fortunatissima 24 interpretò il duro e scatenato agente anti-terrorismo Jack Bauer, qui è un mite architetto, buon marito e buon papà. Un presidente per caso che affronta il suo compito malvolentieri ma con assoluta onestà. Altro fattore di successo, il vivo contrasto fra questo presidente timido e ritroso e il vero presidente di oggi, il tracotante Trump.
Certo, gli autori di Designated Survivor, una storia che più americana non si può, non lo hanno pensato come una metafora o una parabola del potere da applicarsi altrove (per esempio in Italia), ma la tentazione è forte. Poco prima del 4 marzo, Di Maio annunciò il suo governo, con tanto di lista di 17 ministri, come fosse sicuro di sfondare abbondantemente il 50% della maggioranza parlamentare. Ma quel “governo” (come parecchi allievi delle scuole materne avevano sagacemente predetto) si è dissolto come neve al sole la mattina del 5 marzo, per non dire di ulteriori consunzioni e agonie durante gli estenuanti mesi di negoziato. Insomma, il “governo” Di Maio è imploso senza esplosivo, senza terroristi, senza nemmeno tanti drammi.
Ma il designated survivor c’è: Giuseppe Conte, inopinatamente promosso da ministro in pectore alla Pubblica amministrazione a presidente del Consiglio designato dai partiti alleati. E, come nella fiction Netflix, c’è chi lo condanna in partenza in quanto prima sconosciuto ai più, e chi vuol vedere come se la caverebbe. Si può trarre una qualche morale della favola da questo confronto? Forse. Per esempio, che chi arriva ai vertici del potere come designated survivor è in una posizione fragilissima, non ha un sufficiente capitale di reputazione su cui contare ma deve conquistarsi sul campo i galloni che nel curriculum proprio non c’erano.
Un compito tutt’altro che facile. E sarà bene tenere a mente che in quella fiction Tom Kirkman riesce ad aver successo non solo perché è di buon carattere e ha qualità nascoste che emergono alla sfida dei fatti, ma anche perché un nucleo di esperienza di governo ce l’ha (da ministro ha manifestato chiare idee progressiste, tanto da essere in difficoltà proprio per questo), e perché è, si sente e si dichiara il solo responsabile del programma e dell’azione di governo, e non vuol farsi condizionare da nessuno. Tutti, anche i nemici, gli credono. E lo rispettano proprio per questo.
E poi c’è un ma. Il “governo” Di Maio è imploso, questo è vero, ma il palazzo del Quirinale risulta graniticamente al suo posto. E Mattarella gode a quel che pare di ottima memoria, e non ha bisogno di ripassarsi la Costituzione per ricordarsi e ricordarci che il presidente del Consiglio “dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promovendo e coordinando l’attività dei ministri” (art. 95). Riuscirà, il designated survivor all’italiana, a vestire panni tanto impegnativi?

Repubblica 25.5.18
L’avvocato del popolo e i clienti preferiti
di Marco Ruffolo


Se non fosse stata preceduta da una poderosa ondata demagogica che ha fatto credere a molti italiani che gli ultimi governi non avevano fatto nulla per risarcire i risparmiatori truffati dalle banche, e che avevano fatto molto al contrario per i loro manager, la decisione di Giuseppe Conte di incontrare ieri sera i rappresentanti di quelle vittime apparirebbe come una mossa tutto sommato normale e anche doverosa, comunque priva di particolari significati politici.
Invece non può non scorgersi il filo rosso che lega gli incontri di ieri del presidente incaricato, così come il suo previsto faccia a faccia di oggi con il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, alla campagna populista degli ultimi anni. Solo pochi giorni fa, il responsabile economico della Lega, Carlo Borghi, distintosi per le dichiarazioni irresponsabili su Montepaschi, che in una sola seduta ha perso l’8 per cento, ha gridato all’assenza di strumenti di rimborso per gli azionisti delle banche, non potendo denunciarne la mancanza per gli obbligazionisti. Peccato per lui che il fondo per le vittime di reato bancario esiste, ed è esteso tanto a chi ha obbligazioni quanto a chi possiede azioni. Nell’ultima legge di bilancio sono stati stanziati a questo scopo 100 milioni in quattro anni. Una cifra insufficiente?
Sicuramente sì, ma intanto lo strumento è stato attivato. È tuttavia da anni che Lega e Cinquestelle cercano di far passare la tesi dei governi Renzi e Gentiloni “amici dei banchieri e nemici dei risparmiatori”. I fatti, però, non avvalorano questa accusa. Nel marzo scorso, il Fondo interbancario di tutela dei depositi ha concluso l’attività di indennizzo forfettario in favore degli investitori in obbligazioni subordinate delle quattro banche poste in risoluzione: Etruria, Banca Marche, CariChieti e CariFerrara.
Complessivamente ha liquidato 15.443 richieste di indennizzo per 181 milioni di euro, interamente a carico del settore bancario. Per gli altri, invece, c’è l’arbitrato. Lo stesso Fondo proseguirà la procedura di indennizzo per gli investitori di Popolare Veneta e di Veneto Banca. Il 90 per cento degli indennizzi è andato a piccoli risparmiatori.
Nessun trattamento di favore verso i manager di quelle banche.
Saprà e vorrà Giuseppe Conte, del quale sono note finora consulenze non tanto a piccoli risparmiatori quanto a raider della finanza come Raffaele Mincione, interrompere il circuito della demagogia bancaria?

Il Fatto 25.5.18
A Massonopoli le logge hanno più iscritti del Pd
Massoneria, mattone e medici, tutto il potere era loro Ora il mercato immobiliare in difficoltà modifica gli equilibri
di G. Me.


“Spero non se ne abbiano a male gli amici massoni se dico che in passato il loro peso era evidente, oggi mi sembra scarsuccio”. Maurizio De Pascale, costruttore e presidente della Confindustria di Cagliari, non gliele manda a dire ai concittadini con il grembiulino. Ma Michele Pietrangeli, cardiochirurgo e Gran Segretario del Grande Oriente d’Italia (Goi), di fatto il braccio destro del Gran Maestro Stefano Bisi, non se la prende: “Dire che la massoneria esercita un forte potere su Cagliari è dire il falso. Dire che non conta più niente è falso, ma un po’ meno”. Trent’anni fa Cagliari era la capitale massonica, c’era il Gran Maestro Armando Corona (politico, medico e proprietario di cliniche) che in città coordinava da par suo le tre M (massoni, mattoni e medici) mentre a Roma dirigeva la guerra contro il fratello deviato Licio Gelli. Sono rimasti fortissimi: in Sardegna ci sono 46 logge per un totale di oltre 1400 affiliati, la metà concentrati su Cagliari dove la massoneria ha in pratica più iscritti veri del Pd. Forse sono troppi: se tutti i concorrenti a un primariato ospedaliero si iscrivono a una loggia, le loro speranze di aiuto fraterno si elidono. Sarà per questo che la gestione di Bisi e Pietrangeli si concentra sulle pratiche esoteriche, lasciando alla libera iniziativa dei singoli fratelli più intraprendenti o più millantatori il traffico di influenze massoniche. Giorgio Todde, chirurgo oculista, giallista di successo, ambientalista e polemista corrosivo, li sfotte: “Oggi a Cagliari i fenicotteri rosa sono molto più numerosi dei massoni, dei medici e dei costruttori, ma non è sempre stato così. I massoni continuano a nidificare, e pure loro valgono un viaggio per vederli quando si radunano in stormi la sera”.
I peculiari intrecci del potere cagliaritano, con lo storico miscuglio di energia e pigrizia, li ha ben assaggiati Fausto Martino, architetto salernitano, soprintendente alle belle arti e al paesaggio. L’anno scorso l’assessore regionale all’Urbanistica Cristiano Erriu si è rivolto al ministro Dario Franceschini perché lo fermasse. L’accusa era di criticare pubblicamente il suo disegno di legge urbanistica. Erriu ne ha fatto una questione costituzionale in nome dell’autonomia regionale, il Pd ha anche proposto una mozione al consiglio regionale, mai discussa, alla fine Franceschini ha difeso il suo dirigente mandando al diavolo Erriu. Martino intanto si prepara alla pensione (tra un mese) e capta sorridendo la soddisfazione per la sua uscita del partito del cemento, che non l’ha mai affrontato direttamente, ignorandolo come un prefetto ostile ed estraneo alla città. “In realtà negli ultimi dieci anni il consumo di suolo si è fermato perché è scoppiata la bolla immobiliare”, dice e racconta di una città diversa dalla sua Salerno: “Sarà perché qui non ho amici d’infanzia o parenti, ma nessuno mi è mai venuto a chiedere niente”. Protagonista del lungo scontro sulla cementificazione della necropoli di Tuvixeddu, rivela per esempio di non aver mai incontrato il protagonista, il costruttore Gualtiero Cualbu. Martino se ne va da Cagliari lasciando un riconoscimento: “In questa città e nell’isola una reazione ambientalista c’è. La mia Campania invece è narcotizzata”.

Il Fatto 25.10.18
Istruzione, oltre 160 milioni di tagli a scuole e formazione
Spending review - La riduzione di spesa programmata per i prossimi tre anni colpisce insegnamento e istituti. Invariato il bonus docenti
Istruzione, oltre 160 milioni di tagli a scuole e formazione
di Virginia Della Sala


Trentasei milioni in meno per il 2018, altri 36 nel 2019, poco più di 35 nel 2020. E ancora: 18 milioni in meno per il 2018, 19 in meno per il 2019 e 17,2 milioni in meno per il 2020: l’eredità della spending review lasciata dal ministero dell’Istruzione passa per i tagli al fondo di funzionamento delle scuole e per quello di miglioramento dell’offerta formativa. Il dettaglio della riduzione è contenuto nei decreti interministeriali che perfezionano gli accordi di monitoraggio per la revisione della spesa nei ministeri, sulla scia di quanto deciso nella legge di stabilità.
“Rispetto alle annualità. 2015-2016 e 2017, il cui andamento di spesa (impegnato) è stato crescente anche per effetto dei finanziamenti derivanti dalla legge 107/2015 – si legge – si dovrà procedere a una riduzione significativa di interventi specifici a favore delle istituzioni scolastiche”. E quindi l’elenco: 35.895.240 euro in meno per il 2018 (8,9 milioni per ogni grado, dalla prescolastica alla secondaria di secondo grado); 36 milioni tondi in meno per il 2019 (9 milioni per ogni grado); 35.350.000 in meno nel 2020 (ancora la media di 8,9 milioni per ogni grado). “La riduzione – si legge – comporterà la non attuazione di alcuni interventi specifici a favore delle istituzioni scolastiche”.
“Così – spiega il segretario generale della Uil Scuola, Pino Turi – il Miur dopo aver annunciato che il fondo per il funzionamento era stato appena rifinanziato, interviene proprio nei settori più delicati del sistema nazionale di istruzione: insegnanti e funzionamento delle scuole”. Tra i tagli, infatti, finiscono anche altri 18 milioni del ‘merito’. L’ultimo contratto nazionale aveva previsto l’istituzione di un “Fondo per il miglioramento dell’offerta formativa” nel quale confluiscono il fondo dell’istituzione scolastica, le risorse destinate ai compensi per le ore eccedenti, agli incarichi specifici, alle funzioni strumentali, ai progetti nelle aree a rischio e alla valorizzazione del merito del personale docente. “Si prevede – si legge nel decreto – di ridurre il fondo per l’anno 2018 di 18.770.000 euro, per l’anno 2019 di euro 18.322.000, per l’anno 2020 di euro 17.200.000. L’individuazione degli istituti contrattuali che saranno affetti da tale riduzione avverrà in sede di contrattazione collettiva nazionale di lavoro”.
Il fondo per il merito, nel 2016 e nel 2017, era di 200 milioni. “Quando la coperta si fa corta – aggiunge Turi – le scelte si ripetono: si interviene direttamente sulle risorse delle scuole e le retribuzioni stesse del personale. Fuori dalle maglie del contratto, e del confronto, assistiamo invece ad atti unilaterali del Miur che procede, senza farsi scrupoli, con il prelievo sulle altre voci, per mettere a posto i conti. Un modo di procedere che ci vede totalmente contrari”.
Limature non indifferenti anche su altri fronti: 860mila euro circa in meno entro il 2020 per i progetti educativi su materie specifiche (si dovrà scegliere tra i progetti contro la dispersione scolastica, per la sicurezza stradale e per l’erogazione di strumenti e servizi didattici agli studenti ricoverati), oltre 5 milioni nel triennio per la formazione del personale docente e dirigente grazie a nuovi programmi che prevedono l’uso delle piattaforme informatiche. Il totale fa oltre 160 milioni di euro.
Invariato, invece, il bonus docenti da 500 euro introdotto con la Buona Scuola destinato alla formazione e all’acquisto di materiale per tutti gli insegnanti di ruolo. Il personale di ruolo che ne beneficia è di circa 752mila unità. Alla carta docenti, ogni anno, si destinano quindi 376 milioni di euro. Non solo: “Un aumento non previsto del personale docente di ruolo in servizio rispetto a quanto stimato – si legge – potrebbe comportare una riduzione dell’importo effettivo della Carta da individuare con successivo provvedimento”.

il manifesto 25.10.18
Licenziato perché sostituito da una macchina
Nel Milanese. L'operaio, un marocchino di 61 anni, ha ricevuto la lettera motivata dal fatto che l'azienda ha comprato un macchinario che espleta la sua mansione


Ha lavorato per 30 anni per la stessa azienda di Melzo, in provincia di Milano. Ora a quattro anni circa dalla pensione, per un 61enne marocchino – il quale convive con una pesante disabilità dal 1991 quando perse una mano – è arrivata la lettera di licenziamento.
La sua posizione lavorativa è stata «soppressa» dopo l’arrivo di un macchinario che svolge le sue stesse mansioni.
Solo diciassette righe per comunicare l’addio «per giustificato motivo oggettivo», in seguito alla riorganizzazione aziendale all’interno della ditta che si occupa di fusti e imballaggi metallici. Dopo l’installazione della macchina «Paint Cap Applicator», che svolge in automatico lo stesso lavoro svolto finora dall’operaio.
La società ha valutato la possibilità di assegnare al 61enne altre mansioni, ma «purtroppo non è stata reperita alcuna posizione lavorativa vacante, essendo tutti i posti già occupati da altri dipendenti», si legge nella lettera di licenziamento che l’azienda ha mandato al lavoratore.
La ditta riconosce all’uomo l’indennità di legge, ma fallito il tentativo di conciliazione che si è tenuto alla Direzione territoriale del lavoro, il licenziamento è diventato effettivo.
L’operaio si è rivolto all’avvocato Mirko Mazzali: «È ingiusto licenziare una persona che ha lavorato 30 anni in un posto, che si ritrova disoccupato a un passo dalla pensione, perché una macchina ha preso il suo posto. Un’ingiustizia tanto più grave considerando che è una persona con una disabilità tale da rendergli difficile la ricerca di un nuovo impiego», chiosa il legale che passerà la causa ad un collega specializzato in cause di lavoro.
«Hai 61 anni, da 27 hai perso una mano, te ne mancano 4 alla pensione e ti arriva una lettera dal padrone: licenziato perché una nuova macchina farà il tuo lavoro», commenta Giovanni Paglia di Sinistra Italiana. «Succede in provincia di Milano e magari scopriremo che l’investimento deriva da sgravi fiscali tipo industria 4.0. Questa non è innovazione, ma criminalità economica e come tale andrebbe perseguita», conclude Paglia.
«È necessario capire esattamente cosa sia avvenuto – osserva Chiara Gribaudo, responsabile Lavoro del Pd – . Bisogna appurare se siamo in presenza di una violazione dei suoi diritti o meno. Faremo, per parte nostra, le verifiche necessarie. Di sicuro la vicenda apre scenari e problematiche che richiedono risposte puntuali dalla politica. A livello nazionale ed internazionale. Il Pd – continua – intende essere parte propositiva di una riflessione sulla quale debba essere il futuro del rapporto tra lavoratore e macchina. Una riflessione che ci porti ad elaborare misure atte a difendere le persone e la dignita’ del lavoro. Non si tratta di fuggire il futuro ma di governarlo. E la politica è chiamata a dare risposte», conclude Gribaudo.

Repubblica 25.5.18
Dopo trent’anni in fabbrica
L’operaio licenziato da una macchina “Fa lo stesso lavoro”
di Franco Vanni


Ha lavorato per 30 anni nella stessa fabbrica. La burocrazia aziendale lo qualificava come addetto posizionamento paint cap. In pratica, doveva porre tappi provvisori alle taniche prodotte nello stabilimento, di modo che potessero poi essere verniciate. Lo scorso aprile all’operaio, che ha 61 anni e che nel 1991 ha perso quattro dita di una mano, il ramo italiano della multinazionale dell’imballaggio Greif ha mandato una lettera: licenziamento per giustificato motivo, «con parziale esonero dal preavviso e riconoscimento della relativa indennità sostitutiva». La ditta, che ha una sede a Melzo in provincia di Milano, va dritta al punto: «In data 23 febbraio 2018 è stata installata una macchina, denominata Paint Cap Applicator, che svolge in automatico il medesimo lavoro sino ad oggi da Lei svolto. È stata soppressa la Sua posizione lavorativa». Di fronte alla Direzione territoriale del lavoro, l’azienda ha offerto al lavoratore 12 mensilità, come indennità prima dell’addio.
L’operaio ha rifiutato. «Per me il lavoro è tutto. Sono in fabbrica da 30 anni, è la mia vita. Mi manca poco alla pensione, licenziarmi adesso è davvero una cattiveria».
La lettera di licenziamento prosegue con formule gelide, che il lavoratore dice di avere vissuto «come una ferita». Si legge: «Abbiamo valutato la possibilità di assegnarLe altre mansioni, anche di livello inferiore riconducibili alla Sua professionalità. Purtroppo non è stata reperita alcuna posizione lavorativa vacante, essendo tutti i posti già occupati da altri dipendenti».
L’operaio è a casa dal 6 aprile.
Si è rivolto al sindacato, che lo ha assistito nella fase dolorosa del tentativo fallito di conciliazione. Si è rivolto all’avvocata Marica Pesci, per valutare un’azione in sede civile contro la società. «Quello che faremo per vie legali, non ho intenzione di comunicarlo», taglia corto.
Sarà probabilmente un giudice a valutare se il fatto che l’uomo fosse disabile, per avere perso una mano, gli garantisse per legge una maggior tutela. E se comunque sia possibile costringere l’azienda a reintegrare l’operaio al suo posto di lavoro. O almeno a corrispondergli i contributi da qui al giorno in cui potrà andare in pensione.
L’operaio si è anche rivolto a un penalista, l’avvocato Mirko Mazzali, per capire se la condotta dell’azienda possa anche costituire reato. «Non si può licenziare un operaio che ha lavorato tanto a lungo, e prossimo alla pensione, perché una macchina lo ha soppiantato. Tanto più se ha una disabilità tale da rendere difficoltosa la ricerca di un nuovo impiego», dice Mazzali.

il manifesto 25.10.18
Casa delle donne, la risposta alla consigliera Guerrini


L’intervista alla consigliera Gemma Guerrini, richiede alcune precisazioni. Dobbiamo contestare alcune affermazioni; in particolare non è vero che lo stralcio della sua relazione alla Commissione delle Elette sia stato causato dalla nostra opposizione.
La consigliera sa bene che lo stralcio era già stato deciso dall’aula e dal suo presidente.
E così vogliamo chiarire, una volta per tutte, che la minaccia di chiusura della Casa non è una nostra falsificazione, ma al contrario è testimoniata dagli atti formali ricevuti in novembre e dalla stessa mozione in consiglio.
È evidente l’intenzione dell’amministrazione di appropriarsi del Buon Pastore e del progetto, snaturandolo e riducendolo puramente a servizi (peraltro da mettere a bando); la Casa Internazionale non viene riconosciuta quindi come una risorsa per la città, meritevole di sostegno e di interlocuzione.
La Casa, inoltre, ha sempre comunicato al Comune i suoi bilanci e il rendiconto delle sue attività, ed ha anche segnalato le difficoltà che erano insorte per la sostenibilità del canone, fin dal 2010.
Se c’è opacità, certo non è da parte nostra. Il tono stesso dell’intervista, d’altra parte ripropone quanto già noto del pensiero della consigliera.
    Una sostanziale volontà di censura e di cancellazione di quanto fatto dalle precedenti amministrazioni: la storia della città comincerebbe oggi, con l’amministrazione a 5 Stelle, unica garante della moralità e del progresso. La progressiva cancellazione delle esperienze sociali più interessanti, avvenuta in questi mesi, la chiusura degli spazi femministi, il disconoscimento (“il riallineamento” auspicato dalla mozione) della creatività e dell’ autogestione dal basso sono i segnali di questa visione.
    Una sostanziale non conoscenza delle caratteristiche del progetto Casa Internazionale delle Donne e, prima ancora delle acquisizioni del movimento femminista, che non si limitano all’“aver denunciato certi temi” ma rappresentano piuttosto l’affermazione della soggettività e della autonomia femminile, la possibilità di interpretare il mondo in modo radicalmente nuovo grazie al punto di vista di genere. L’amministrazione democratica dovrebbe riconoscere la pluralità di culture e di pensieri che rendono viva la città e sostenere tutte le forme di autogestione, invece di penalizzarle e umiliarle.
    Una sostanziale volontà autoritaria di definire il bene e il male, una affermazione di fondamentalismo che rifiuta la collaborazione e il confronto con le altre visioni e che anzi ne disprezza l’espressione. La priorità data alla pratica burocratica è prova, a nostro parere, di una non volontà di comprensione della complessità e di rifiuto di agire il confronto culturale e politico.
La consigliera Guerrini considera violenta una piazza che lunedì 21, dal Campidoglio, ha espresso la sua preoccupazione e ha richiesto all’amministrazione di cambiare politica; non si tratta di “persone portate in piazza” ma di soggetti consapevoli che liberamente hanno scelto di condividere la scelta di difendere l’esistenza della Casa.
Anche le tantissime forme di solidarietà, le 80.000 firme di sostegno, non sono la voce di “una politica che ha fatto il suo tempo” ma piuttosto l’espressione di volontà diffusa, di una molteplicità di esperienze che chiedono di poter continuare a vivere la Casa delle Donne come è stato possibile in questi anni.
*** Il direttivo della Casa Internazionale delle Donne di Roma

Il Fatto 25.5.18
Emergenza aggressioni negli ospedali. I medici si ribellano: “1.200 casi l’anno”
di Daniele Erler


All’ospedale di Partinico, in Sicilia, un’infermiera è stata presa a calci: aveva abbandonato temporaneamente un malato di influenza per soccorrere uno più grave. A Tivoli un uomo, soccorso per una ferita lieve in codice verde, ha aggredito tre infermieri e un medico, forse perché lo stavano facendo aspettare. A Napoli un infermiere di dermatologia è stato colpito, sembra con un casco, da alcune persone che volevano entrare nel reparto. Sono solo alcuni degli ultimi episodi di violenza negli ospedali italiani.
I medici ora dicono basta. Sul sito del Coas, il sindacato dei medici dirigenti, ci sarà presto un contatore. Si aggiornerà ogni volta che ci sarà un’aggressione: un modo per rendere evidente la portata dell’emergenza. Sempre il Coas aprirà uno sportello virtuale, dove segnalare gli episodi e ottenere supporto. Dal primo marzo al 30 aprile la Simeu – la Società italiana di medicina di emergenza e urgenza – ha tenuto sotto controllo 218 pronto soccorso, in tutta Italia: nel 63% dei casi c’è stata almeno un’aggressione. Fare i medici nelle strutture d’emergenza è pericoloso: ogni anno ci sono circa 1.200 aggressioni, di varia entità. Solo nel 2017, sono almeno 150 i medici e gli infermieri dei pronto soccorso che sono stati curati dopo un’aggressione, con prognosi di vari giorni.
Così nel Veneto i medici hanno deciso di armarsi, non con pistole o manganelli ma con i più innocui fischietti: sono 200 quelli già ordinati, per ora saranno usati in via sperimentale per sei mesi. “Il fischietto sarà utilizzato dall’operatore in caso di pericolo. Potrà richiamare l’attenzione dei colleghi o di altre persone che lo potranno aiutare” spiega Carlo Bramezza, direttore dell’Azienda sanitaria del Veneto orientale.
Ma per Francesco Rocco Pugliese, presidente della Simeu, non basta: “Servono misure concrete e si deve partire da una revisione delle norme vigenti”. Fino alla misura più estrema: “Bisogna togliere l’assistenza sanitaria ordinaria, esclusa l’emergenza, agli aggressori recidivi. Per di più, se non si superano i venti giorni di prognosi, oggi è necessaria la denuncia del medico aggredito. Chiediamo che si possa intervenire sempre d’ufficio, come succede con i pubblici ufficiali”.
Non ci sono solo gli episodi più gravi di violenza. Le spinte, le aggressioni verbali e le intimidazioni sono all’ordine del giorno: “Nell’ultimo anno, in base alle testimonianze raccolte, la situazione è sensibilmente peggiorata in tutte le regioni, dal Friuli Venezia Giulia alla Sicilia, passando per il Lazio – dicono i responsabili della Simeu – Nel 50% dei casi le aggressioni si sono verificate dove il problema sovraffollamento risulta più grave”.
E allora si muovono anche le prefetture. Questo pomeriggio a Roma ci sarà una riunione con il prefetto Paola Basilone, il locale presidente dell’Ordine dei medici, Antonio Magi, e l’assessore regionale alla Sanità, Alessio D’Amato. Saranno potenziate le misure di sicurezza nei pronto soccorso e negli ambulatori, verificando anche l’effettiva presenza delle forze dell’ordine nei presidi sanitari. Se non si riesce davvero a porre fine alle aggressioni, almeno si cerca di intervenire per reprimerle.

il manifesto 25.10.18
Nuova colata di cemento israeliano sulla Cisgiordania occupata
Territori palestinesi . Il Consiglio israeliano per la ‎pianificazione si riunirà per approvare piani per la ‎costruzione delle prime 2.500 case e per dare il via in un secondo tempo a progetti ‎per altre 1.400 abitazioni in 30 colonie. Trump potrebbe riconoscere il Golan siriano come parte di Israele
di Michele Giorgio


GERUSALEMME  Israele costruirà altri 3.900 alloggi nei suoi insediamenti coloniali nella ‎Cisgiordania occupata. Ad annunciarlo ieri, con un tweet, è stato il ministro della ‎difesa Avigdor Lieberman, in apparente ritorsione alla decisione presa martedì dai ‎palestinesi di chiedere alla Corte penale internazionale dell’Aja di avviare una ‎indagine contro Israele per crimini di guerra. Il Consiglio israeliano per la ‎pianificazione si riunirà la settimana prossima per approvare piani per la ‎costruzione delle prime 2.500 case e per dare il via in un secondo tempo a progetti ‎per altre 1.400 abitazioni in 30 colonie in Cisgiordania, tra le quali Ariel (Nablus) ‎e Maale Adumim, vicino Gerusalemme. Silenzio e, perciò, tacita approvazione da ‎parte dell’Amministrazione Trump che dopo aver riconosciuto Gerusalemme come ‎capitale di Israele, nei prossimi mesi dovrebbe fare altrettanto con il Golan, un ‎territorio siriano che lo Stato di Israele occupa dal 1967 in violazione delle ‎risoluzioni internazionali e che si è annesso con un atto unilaterale. Il ministro ‎israeliano dell’intelligence, Yisrael Katz, un membro chiave del governo ‎Netanyahu, ha detto in un’intervista che il riconoscimento statunitense ‎dell’annessione del Golan è ‎«in cima all’agenda‎» nei colloqui con la Casa Bianca. ‎‎«Penso che ci sia una grande maturità e un’alta probabilità che questo passo ‎accada‎», ha aggiunto il ministro, secondo cui il riconoscimento americano ‎dovrebbe avvenire nel giro di ‎«qualche mese‎»‎‏.‏‎ Anche in questo caso la Casa ‎Bianca non ha commentato‏.‏‎ (mi.gio)‎

La Stampa 25.5.18
Cisgiordania, sarà demolita la celebre “Scuola di gomme” dei beduini
Gli abitanti del villaggio trasferiti ad Abu Dis, tensioni fra Israele e Ue
di Giordano Stabile


La Corte Suprema israeliana ha autorizzato la demolizione del villaggio beduino Khan el-Ahmar, in Cisgiordania, e della celebre “Scuola di gomme”, realizzata con copertoni riciclati da una ong italiana con l’aiuto della cooperazione europea. I giudici hanno stabilito che sono stati costruiti senza i necessari permessi. Il quotidiano Haaretz ha precisato che i giudici hanno respinto gli appelli dei 200 abitanti che si oppongono al trasferimento nella vicina località di Abu Dis. La sentenza mette così fine ad anni di battaglie legali. I beduini si sono sempre opposti a un provvedimento che li costringerebbe ad abbandonare la loro vita di nomadi. 
La “Scuola di gomme” è un progetto realizzato dalla Ong italiana Vento di Terra, nell’ambito della cooperazione fra l’Unione europea e l’Autorità nazionale palestinese. I rapporti fra Ue e Israele in questo momento sono tesi. Due giorni fa il ministro dell’Energia Yuval Steinitz ha invitato l’Europa “ad andare mille volte all’inferno” dopo che Bruxelles aveva chiesto un’indagine su presunte brutalità della polizia israeliana nei confronti di manifestanti arabi ad Haifa. 
Oggi il ministero degli Affari Strategici israeliano ha chiesto all’Unione Europea a «interrompere i finanziamenti» alle organizzazioni non governative «che hanno legami con il terrore e promuovono il boicottaggio di Israele». Nel mirino oltre una decina di Ong europee e palestinesi che nel 2016 - stima il ministero - «hanno ricevuto oltre 5 milioni di euro dall’Ue». Israele chiede all’Ue «lo stop immediato» ai finanziamenti e «di mettere in pratica il suo impegno a rifiutare i boicottaggi».

La Stampa 25.5.18
Media Usa: Harvey Weinstein verso l’arresto per stupro
di Paolo Mastrolilli

qui e qui

MANIFESTI 68

La Stampa 25.5.18
Storia e memoria
Non basta dire “io c’ero” per ricostruire che cosa è stato il ’68
di Giovanni De Luna


I protagonisti del ’68 furono tutti giovani o giovanissimi. È logico quindi che molti siano presenti nel dibattito pubblico che si è acceso in occasione del 50° anniversario, proponendo una memoria che affida la propria autorevolezza a due frasi simbolicamente efficaci: «io c’ero» e «mi ricordo perfettamente». Si tratta di testimonianze che - come è successo in questi mesi - rischiano di entrare in conflitto con le ragioni di una ricostruzione storica meno emotiva e più consapevole.

Le ragioni per diffidare di quei ricordi e di quelle memorie sono molte: «io c’ero», ad esempio, rischia di produrre testimonianze che spesso sconfinano in un narcisismo fine a sé stesso, incapace di comunicare quell’esperienza a chi, appunto, «non c’era»; così come «mi ricordo perfettamente» può nascondere le giravolte di una memoria selettiva, che vuole trattenere solo qualcosa e non tutto, che cambia così come cambiano le fasi che scandiscono le biografie dei protagonisti, man mano sempre più indulgenti verso i ricordi della propria giovinezza.
“Vele attorcigliate ma distinte”
Pure, opporre semplicemente le ragioni della storia a quelle della memoria sarebbe riduttivo, anche perché da quella stagione è affiorata un’agguerrita generazione di storici così che spesso ci si confronta con posizioni e tesi interpretative elaborate da chi è contemporaneamente sia storico sia testimone.
In realtà, come ha scritto Paul Ricoeur, storia e memoria, «alberi maestri dalle vele attorcigliate ma distinte», appartengono «alla stessa imbarcazione, destinata a una sola e unica navigazione» e a una meta comune, «rappresentare il passato e permetterci di conoscerlo». Il testimone ci propone l’immediatezza delle sue percezioni, restituendoci lo spirito del suo tempo e svelandoci il ’68 così come è stato vissuto e rielaborato a caldo dai suoi protagonisti; lo storico arriva dopo, con il senno di poi, sa «come è andata a finire» ed è in grado, attraverso le fonti e i documenti, di far emergere quello che allora non era possibile sapere. Alla fine, però, una storia senza le testimonianze diventa un esercizio astratto, un racconto del passato esangue, aridamente nozionistico; e una testimonianza, non inserita in un contesto storiografico, diventa prigioniera di due stereotipi ampiamente presenti in questo 50° anniversario: da un lato «anni formidabili», dall’altro una folla di figli di papà, scansafatiche, pronti a imboccare qualsiasi scorciatoia pur di far carriera.
La sintesi tra storia e memoria è particolarmente efficace se si guarda al ’68 come a uno dei classici eventi globali della nostra contemporaneità, eventi, cioè, con una spazialità non riconducibile a un singolo luogo o a una specifica realtà, ma che rimbalzano in simultanea da tutti gli angoli del mondo, in una cronologia affollata di date. La dimensione geografica del ’68 (dalla Cina agli Usa, da Praga a Berlino, da Parigi all’America del Sud, da Roma a Berlino) fu così straripante da sottrarsi, proprio per questo, a ogni interpretazione riduttiva e obbligare chiunque voglia studiarlo a confrontarsi con un corpus di fonti altrettanto vasto, eterogeneo, multiforme.
I mezzi di comunicazione di massa, ad esempio, «costruiscono» il ’68, lo fanno parlare e ci permettono di conoscerlo più dei tanti documenti politici prodotti allora dal movimento. La rottura generazionale che allora spaccò le famiglie della borghesia fu anticipata e descritta dai film di Bertolucci (Prima della rivoluzione, 1964) e Bellocchio (I pugni in tasca, 1965); il rifiuto della forma partito tradizionale e l’accento posto sulla dimensione individuale dell’agire politico si trovano già tutti in Godard (La chinoise, 1967); il confronto con la violenza della polizia è raccontato in Fragole e sangue di Stuart Hagmann (1970).
Dalla forza alla fragilità
E poi. Le fotografie di Tano D’Amico e di Uliano Lucas; le canzoni di Paolo Pietrangeli; le vignette di Buonfino o di Zamarin; i manifesti che colorarono i muri di Parigi e di Torino; i grandi concerti, primo fra tutti quello di Woodstock (agosto 1969): su quel prato si discuteva di politica, si ballava, si consumavano le prime droghe «di gruppo», soprattutto marijuana e Lsd e una comunità giovanile si autorappresentava come altra e separata rispetto al resto del mondo, scegliendo una dimensione esistenziale fondata sulla libertà (intesa come trasgressione) e sull’assenza di regole (come principio normativo).
Ecco, solo dopo essersi immerso nello spirito di quel tempo, lo storico può lasciare il testimone al proprio destino emergendo dall’oceano delle percezioni di allora per proporre una compiuta storicizzazione di quell’evento. Ed è proprio Woodstock a suggerirne i termini: il ’68 fu un evento globale; ebbe come protagonista una generazione che visse la propria giovinezza non come una tappa di passaggio ma come il punto più alto della propria biografia; una generazione che fece della disobbedienza il tratto unificante di quell’esperienza e che sul rifiuto delle regole costruì dapprima la sua forza, poi la sua fragilità.

Corriere 25.5.18
La collana In edicola con il «Corriere» da mercoledì 30 maggio una serie con i titoli del romanziere, in una sequenza scelta dall’autore
C’è l’America nella sua «Pastorale». Poi altri 27 titoli
di Ida Bozzi


Philip Roth aveva smesso di scrivere, ma non aveva smesso di occuparsi di critica sociale, né di letteratura, né dei suoi libri. Anzi, era un interlocutore per i media (celebri le sue opinioni su Trump), e la vita editoriale della sua opera era vivacissima in tutto il mondo. Anche in Italia. Sapeva bene che in ottobre sarebbe uscito nel nostro Paese il secondo Meridiano dedicato ai suoi romanzi (e nel 2019 il terzo), come scriveva ieri sul «Corriere» la sua amica italiana Livia Manera, collaboratrice del quotidiano, che lo avrebbe incontrato in settembre per una nuova intervista.
E sapeva bene che si stava preparando in Italia una collana intera dedicata alle sue opere, destinata ad apparire in edicola con il «Corriere» e realizzata in collaborazione con il suo editore italiano, Einaudi: anzi aveva scelto egli stesso l’ordine delle uscite, come un percorso diretto alla comprensione dei suoi testi.
La collana di 28 opere sarà in edicola da mercoledì 30 maggio insieme al «Corriere» (ogni volume a e 8,90 più il costo del quotidiano), e l’ordine in cui usciranno i titoli porta il suo «taglio» personale. Un’indicazione di percorso che viene da un autore attentissimo all’interpretazione della propria opera: è celebre la correzione che inviò nel 2012 a una piattaforma online riguardo alla voce enciclopedica de La macchia umana.
Se è lo stesso Roth a indicare l’ordine in cui godere la lettura dei suoi romanzi, seguiamolo: la prima uscita della collana, il 30 maggio, sarà Pastorale americana, romanzo in cui il realismo descrittivo di Roth e la sua critica alla società americana e alle sue illusioni toccano l’apice. I titoli seguenti in edicola completano la cosiddetta «trilogia americana»: Ho sposato un comunista (il 6 giugno) e La macchia umana (il 13 giugno).
Sono i testi della maturità, usciti tra il 1997 e il 2000, in cui, mentre Nathan Zuckerman resta sullo sfondo come narratore, più netta e tagliente si fa quella che lo scrittore Matt Heig ha definito, ieri — tra i ricordi di colleghi come Joyce Carol Oates, Zadie Smith, Nathan Englander, Richard Ford e molti altri — la sua «brutale onestà» sulla vita e sul mondo.
E il quarto romanzo scelto da Roth per la collana sarà Lamento di Portnoy (in edicola il 20 giugno), del 1969, uno dei più comici e scandalosi libri sulla sessualità mai scritti (ne disse Roth: «Se lo avessi intitolato L’orgasmo sotto il capitalismo rapace, magari avrei guadagnato il favore dell’accademia svedese»). Era il suo terzo romanzo; ma Roth contava anche la giovanile raccolta di racconti Addio, Columbus, e amava menzionarloproprio come il suo quarto libro.

Repubblica 25.5.18
Donne sospese tra due mondi
Islam a testa bassa
La vita delle ragazze musulmane, cresciute in Italia ma costrette a fronteggiare le loro famiglie, pronte alla violenza per imporre la tradizione: dai vestiti fino ai matrimoni combinati.
Una sfida che può avere un prezzo altissimo. Che però molte riescono a vincere. Ecco le loro storie
di Francesca Caferri


 Già da piccola, Alison non amava i vestiti lunghi. «È uno dei miei primi ricordi. Con la mamma andavamo dal sarto e gli chiedevo di accorciare i miei shalwar kameez, le lunghe tuniche che in Pakistan donne e bambine indossano sopra i pantaloni. Lui diceva sempre che avevo un bel caratterino, poi ci mettevamo tutti a ridere e mi accorciava gli abiti. Ero una bambina, mi lasciavano fare». Afgana, gli occhi a mandorla tipici degli hazara, la minoranza sciita del Paese, Alison, 20 anni, parla dell’infanzia senza troppi rimpianti. «Ricordo solo Peshawar: era orribile». Come tanti altri afgani in fuga dalla guerra visse anni nel limbo della città pachistana approdo di migliaia di profughi: poche scuole, pessimi servizi, razzismo.
Cui si aggiunse la morte del padre: non stupisce che non abbia voglia di ricordare: «La mia vita, quella vera, iniziò quando avevo 12 anni e con mamma venimmo in Italia per raggiungere mio fratello». Alison non poteva di certo immaginare che da quel momento la passione per gli abiti le sarebbe quasi costata la vita. «Arrivai nel 2010. Portavo il velo e lo shalwar kameez: quando vidi le ragazze italiane, i loro vestiti colorati e i capelli al vento tutto mi parve bellissimo. E iniziai a sognare: volevo studiare, lavorare, avere la mia macchina un giorno. Come loro». Lentamente, la ragazzina prese a portare i jeans insieme al velo e ad uscire con le amiche. Cambiamenti innocui, che però non sfuggirono al fratello: «Cominciò a farmi il lavaggio del cervello. Dovevo portare il velo, pregare e non mettere piede fuori di casa da sola». Passarono anni carichi di tensione: quando Alison iniziò a lavorare la situazione esplose: «Mi disse che mi dovevo sposare, che non potevo vivere così. Ma io non facevo niente di male: non frequentavo nessun ragazzo, nessuna cattiva compagnia. Lavoravo e basta. Provai a parlare con mia madre, ma lei non diceva nulla. A mio fratello consentiva tutto: l’alcool, le droghe. Due o tre volte prese il coltello e disse che voleva ammazzarmi: mi misi tantissima paura. Poi una sera tornai in ritardo dal lavoro: lui era fuori di sé, mi disse che mi avrebbe rispedito a Kabul per farmi sposare. O che mi avrebbe bruciata viva: era pronto a farlo, era solo questione di tempo, glielo lessi negli occhi. Il giorno dopo presi il telefono, i pochi soldi che avevo, lo zaino e invece di entrare a scuola andai via, con l’aiuto di una assistente sociale.
Avevo appena compiuto 19 anni. E non sono più tornata».
Il destino a cui Alison (il nome è di fantasia) fuggì quella mattina avrebbe potuto essere simile a quello di altre donne e ragazze di fede musulmana nate o cresciute in Italia che per ragioni simili a quelle di questa giovane afgana sono state punite, a volte con la morte: Hina Salem, 21 anni, origini pachistane, accoltellata nel 2006 dal padre a Sarezzo, in provincia di Brescia, per punirla di uno stile di vita troppo indipendente.
Begm Shnez, pachistana, 46 anni, uccisa a bastonate a Novi di Modena nel 2010 per aver cercato di difendere la figlia da nozze combinate. Sana Cheema, cittadina italiana di origine pachistana sgozzata qualche settimana fa da padre e fratello, in una vicenda ancora piena di punti da chiarire. O Jessica – un altro nome di fantasia – ventenne arrivata a Roma quando aveva pochi mesi e cresciuta qui, oggi tenuta prigioniera a suon di botte e frustate a Dacca, in Bangladesh, dalla famiglia che non vuole che torni in Italia: su Facebook posta le foto dei lividi e disperate richieste di aiuto, ma finora nessuno è riuscito a fare nulla per lei.
LE storie di queste ragazze non sono certo una fotografia esaustiva dell’Islam italiano: una comunità composta, fra l’altro, da migliaia di giovani che studiano, lavorano e vivono senza problemi in questo Paese, spesso da cittadine. Ma sono un angolo della fotografia: quello che racconta della parte minoritaria della comunità che fatica ad integrarsi in una società con regole diverse da quelle a cui è abituata. Così, se è sbagliato puntare il dito contro un intero gruppo, è un fatto che negli ultimi anni il fenomeno delle violenze, anche mortali, contro le donne di religione musulmana sia arrivato sotto i riflettori anche qui. «Il problema è molto più esteso di quanto non si creda», sostiene Tiziana Del Pra, presidente dell’associazione Trama di Terre di Imola, che si occupa di sostegno alle donne vittime di violenza. « Le bambine arrivate quando l’onda migratoria era al picco sono diventate grandi. Tante altre sono nate qui. Sono ragazze diventate adulte in un Paese che non è quello dei genitori, dentro a una cultura diversa, con sogni differenti da quelli delle madri o dei padri. Non tutti sanno accettarlo».
Secondo gli ultimi dati, in Italia ci sono circa 150mila musulmani fra i 15 e i 24 anni: più di 300mila sono gli under 15. La metà sono ragazze. «È impossibile dire quante di loro entreranno in conflitto con la famiglia. Tantomeno capire che risposta potranno avere questi conflitti: dipende dalle famiglie, dai Paesi di origine, dal modo in cui si è inseriti nella comunità qui in Italia», spiega Renata Pepicelli, docente di Storia dei Paesi islamici all’università di Pisa e una delle maggiori esperte della questione in Italia. « Non si può generalizzare, ma è un dato di fatto che le Seconde generazioni oggi pongano delle questioni. Siamo di fronte a giovani donne piene di sogni, di speranze e di aspirazioni: che risposte troveranno?».
Le aspirazioni di cui parla Pepicelli hanno diverse facce, ciascuna potenzialmente portatrice di tensioni: proseguire o no lo studio, indossare o meno il velo, quali luoghi e quali compagnie è lecito frequentare, chi scegliere come compagno di vita. Una risposta univoca su questi temi non c’è, neanche nei Paesi di origine: il Marocco non è il Pakistan, il Bangladesh non è l’Egitto, solo per citare i luoghi di provenienza di alcune fra le comunità più numerose. E anche lì la vera questione non è tanto la religione — che sulle donne dice molte cose e molto diverse, anche all’interno dello stesso Corano — quanto il modo in cui viene interpretata: la tradizione, dunque. Ma è innegabile che in alcuni casi a queste domande nelle società di origine degli immigrati musulmani si diano risposte considerate inaccettabili nel mondo occidentale. E che spesso la diaspora complica ulteriormente il quadro, spingendo le comunità a chiudersi in se stesse per paura di perdere la loro identità.
«Dici che la mia voce è haram (proibita ndr) perché ti eccita. Ma forse sei tu quello che ha bisogno di calmarsi, forse sei tu quello che ha bisogno di rileggersi il Corano. Io ho il velo in testa: tu sei l’assetato, tu sei l’eccitato, tu nel tuo completo da signore importante. Pensi che solo tu puoi dirmi cosa fare. Pensi che solo tu sai cosa è giusto: ma sei solo un cane», canta in Dog (Cane), singolo da milioni di hit su YouTube, Mona Haydar, 28 anni, rapper siriano-americana, velata e femminista: uno dei simboli di una generazione di ragazze poco disposte a sentirsi dire in silenzio cosa dovrebbero e non dovrebbero fare.
Una nuova vita
Dal giorno in cui si è chiusa la porta di casa alle spalle, tutto nella vita di Alison è cambiato. Ha lasciato la città dove viveva, non ha potuto dire a nessuno dove si trova né contattare la famiglia. Le operatrici cui è stata affidata le hanno tolto il cellulare: il rischio è che in un momento di debolezza possa inviare un messaggio, fare una telefonata o postare sui Social network una foto che faccia capire dove si trova. Allora l’incubo tornerebbe: « Mio fratello vuole ancora uccidermi, ne sono certa — dice mentre si tormenta le mani — ogni volta che prendo il treno ho paura di trovarmelo davanti». Incontriamo Alison in un luogo segreto: a prima vista sembra una ragazza come tante, ma appena parla il suo bagaglio di dolore torna a galla: « Vorrei sentire mia madre, spiegarle: ma non posso chiamarla. Ho scritto una lettera alla mia migliore amica: solo per dirle che non deve preoccuparsi per me. Spero glielo abbia detto».
Oggi Alison vive con una famiglia italiana. Con il nome falso, è tornata a scuola: i nuovi amici non sanno nulla della sua storia. «Quando guardo la famiglia in cui vivo e la normalità del loro affetto, come si parlano, come si trattano, mi torna in mente tutto. E sono triste. Ma poi penso ai pigiama party, che avevo tanto sognato nella mia vecchia città e a cui ora posso andare: sono bellissimi!». Non fa in tempo a terminare questa frase che le lacrime le salgono agli occhi.
A passarle un fazzoletto è una ragazza poco più bassa di lei, vestita in jeans e maglietta, con lunghi capelli neri. Per raccontare la sua storia sceglie il nome di Zoya: come Alison è una fuggitiva, come lei ha scelto un nome falso per parlare con noi. Fino a qualche mese fa le due non si conoscevano nemmeno: ma il fatto di condividere la stessa sorte le ha unite al di là dei caratteri diversi.
Anche Zoya ha vent’anni: nata in Pakistan, è arrivata a Roma quando ne aveva tre. È una ragazza sveglia, si capisce subito, e non c’è da dubitare quando dice che sin dai primi giorni di scuola ha capito di essere diversa dalle altre bambine. « Ero costretta a indossare il velo e gli abiti pachistani, non potevo giocare con i maschi né uscire: nessu na festa, nessun parco giochi — racconta — Non facevo che chiedere perché a tutti: maestre, bidelle, amici».
Jeans strappati, unghie laccate, voce decisa, Zoya ha un look da ribelle: o forse solo da una che è diventata brava a mascherare quello che ha vissuto. «Ho preso tantissime botte. Sono cresciuta in un clima di oppressione: se infrangevo le regole mi picchiavano, minacciavano di uccidermi, di darmi fuoco. Ma non non mi sono mai arresa: odiavo essere presa in giro per i miei vestiti, volevo essere libera».
Dai sei anni in su, la sua vita è tutta uno stratagemma: un trucchetto per poter restare fuori un po’ di più, un altro per fare quello che fanno le altre ragazzine. Essere brava a scuola è fondamentale: le fa conquistare un po’ di spazio, qualche libertà in più. E a 15 anni, in un momento di gloria scolastica, un cellulare. «Me lo comprò mio padre — racconta — mio fratello lo controllava ogni sera, ma i nomi degli amici maschi erano salvati al femminile e i messaggi cancellati. Così nessuno poteva dirmi nulla. Non si accorsero neanche quando mi iscrissi a Facebook: passavo dal motore di ricerca e cancellavo la cronologia » . Sul Social network Zoya incontra un ragazzo di origini pachistane che abita in Italia: iniziano a parlare, a flirtare, poi lui prende un treno e va a trovarla. La loro storia inizia quel giorno. «Veniva quando poteva: io fingevo di andare a scuola, ma passavo la giornata con lui. Durante una di queste fughe incontrai mia cugina: quella che rispettava sempre le regole, era devota e veniva additata ad esempio per tutte noi. Anche lei era in giro con il suo fidanzato clandestino, un ragazzo che mai la nostra famiglia avrebbe accettato. Le dissi che se non mi copriva avrei detto tutto agli zii. Da allora tutto fu più semplice: mia madre era felice che passassi del tempo con lei, pensava che mi avrebbe fatto bene. Invece quando uscivamo lei era con il suo fidanzato e io con il mio».
La vita di Zoya andò avanti così per anni, fino all’appuntamento che nella vita di altre ragazze, per ultima Sana Cheema, si è rivelato decisivo: una vacanza nel Paese di origine, il Pakistan per entrambe. Lì la giovane si trova di fronte ad un matrimonio organizzato dalla madre: uno zio che arriva a casa con il cugino per chiederla in sposa e un corredo che conteneva « tutte le cose bellissime che mia madre non mi aveva mai comprato: trucchi, gioielli, abiti » . Zoya disse no, davanti a tutti, in modo plateale. «Mi presentai di fronte a mio zio senza velo e senza trucco. Presi a urlare contro mia madre. Fu un dramma: lei mi diede due schiaffi e mi trascinò in camera. Mi conficcò le unghie nel viso. Mi picchiava e gridava: “ Parla, parla! Se c’è qualcuno ti ammazzo”. Quando venne a sapere del mio fidanzato prese un bastone e iniziò a picchiarmi così forte che alla fine il bastone si spezzò. Avevo sangue sulla schiena, non riuscivo a muovermi, ma lei prese un altro bastone e ricominciò. Nessuno faceva nulla. Mio fratello di dieci anni pur di fermarla mi si gettò addosso. Lei lo colpì e lui svenne: dovettero portarlo in ospedale. Solo così la violenza cessò. Anche io avrei dovuto essere curata, ma mi rinchiusero in camera per una settimana. Quando la porta si aprì mia madre mi disse che ero la vergogna della famiglia. Che avrei dovuto sposare subito il mio fidanzato visto che era chiaro che non ero più vergine. E che comunque per lei ero morta. Io ero vergine: provai a dirlo, ma lei non volle neanche ascoltarmi. Alla fine celebrammo le nozze per procura: lui era in Italia, io in Pakistan. La famiglia di mia madre si presentò in lacrime e vestita di nero ».
Il rientro in Italia non fu semplice: dopo qualche mese di serenità il matrimonio si trasformò in un incubo fatto di violenza e di tradimenti. Senza possibilità di chiedere aiuto alla famiglia, Zoya fuggì. Solo l’incontro fortuito con una ufficiale di polizia le permise di entrare nello stesso percorso di accoglienza che ha salvato Alison.
Come la sua amica, ha cambiato tutto. E come lei sta cercando di ricostruirsi la vita con un nome falso e in una città lontana. Ma le conseguenze delle sue scelte non le danno pace. « Nessuno nella mia famiglia ha davvero capito perché ho fatto quello che ho fatto, nessuno ha ragionato sugli errori che hanno commesso. Mia sorella, che ha 12 anni, ha qualche libertà più di me. Non è obbligata ad indossare abiti pachistani, per esempio. Studia moltissimo, vorrebbe diventare dottoressa: ma mia madre l’ha già fidanzata con il fratello minore del cugino che avrei dovuto sposare io, per cancellare l’onta. E le dice sempre che se la scopre a parlare con dei ragazzi la farà infibulare. Lei mi chiama disperata, è in trappola: e io non so come aiutarla. Mia cugina è stata scoperta e rispedita in Pakistan: non è mai più tornata».
È solo a questo punto che la voce di Zoya si incrina: lo smalto sulle unghie è rovinato, da quando ci siamo sedute non hai mai smesso di giocarci. « Dicono che l’Islam impone tutte queste regole ma non è così. L’Islam dice che non puoi forzare tua figlia a sposare una persona senza il suo consenso. L’Islam non dice che le donne sono merce. Io sono orgogliosa di essermi ribellata, di aver lottato. C’è stato tanto dolore, ma spero che mia sorella possa avere una vita più facile della mia».
Alison e Zoya sono un’eccezione: protette dalla promessa di non rivelare dove vivono e chi le ha aiutate, hanno accettato di raccontare la loro storia. Ma trovare donne disposte a parlare per questa inchiesta è stato difficilissimo. Come la maggior parte delle vittime di violenze e di soprusi in qualunque parte del mondo, le musulmane italiane preferiscono rimanere in silenzio. Per paura e anche per solitudine. È un silenzio comune a tante donne abusate, qualunque religione pratichino, in qualunque Paese vivano. Una realtà che in Italia, dove i tassi di violenza sulle donne sono altissimi, conosciamo bene. Ma è anche una realtà che in questo caso si carica di un peso maggiore, quello legato alla religione e allo stigma che — a torto — l’Islam si porta dietro. « Avrei voluto morire piuttosto che esporre la mia famiglia alla condanna pubblica. Anche quando mi picchiavano — ha detto una ragazza di origine siriana — non avrei sopportato un solo sguardo in più su di loro: ci giudicano già abbastanza perché siamo musulmani, perché mamma è velata».
Più delle italiane doc dunque, le figlie della migrazione rischiano di sentirsi sole: per questo anche quelle di loro che a un certo punto trovano il coraggio di denunciare rischiano di non farcela, di tornare indietro. È quello che è accaduto a Nosheen, 28 anni, che otto anni fa vide la madre massacrata a colpi di bastone a Novi di Modena perché voleva salvarla da nozze combinate. Quel giorno anche lei fu ferita gravemente: ma dopo i due processi in cui padre e fratello sono stati condannati è rientrata nella comunità con cui aveva tagliato i ponti.È tornata a indossare il velo che aveva tolto uscita dall’ospedale e ha chiuso i rapporti con l’avvocato che l’aveva rappresentata.
In un contesto così difficile, gli “angeli custodi”, le figure incontrate lungo il percorso che offrono sostegno e aiuto alle ragazze, hanno un ruolo fondamentale. Naima Daoudagh è una di loro: in 17 anni di lavoro non ricorda neanche quante donne ha aiutato. «A un certo punto ho smesso di contare » , dice di fronte a un caffè nella sua Brescia. « Alcune neanche le conosco di persona. Ricevo telefonate dalla Calabria, dal Veneto, dal Piemonte. Io faccio quello che posso: ma il passo più grande, dire basta, spetta a loro».
Nata in Marocco, Naima è arrivata in Italia quasi 30 anni fa, quando ne aveva 16. «Eravamo i primi marocchini a stabilirsi in Sardegna — ride — ci guardavano come qualcosa di raro. Ma furono tutti molto gentili » . Qui si è trasferita nel 1995, per seguire il marito, bresciano doc. Dopo poco ha iniziato a lavorare come mediatrice transculturale, poi si è specializzata nell’ambito sanitario e ha cominciato a lavorare in ospedale. «Ho aiutato a partorire donne con mutilazioni genitali. Assistito signore che hanno abortito a causa delle botte ricevute dai mariti. E tenuto per mano adolescenti con il naso e le costole spaccate da padri- padroni che le picchiavano per punirle di uno stile di vita  “troppo occidentale”. Quando dico che siamo di fronte a un problema in aumento parlo per esperienza. C’è una questione aperta nella comunità musulmana in Italia oggi. Nei Paesi di origine delle migrazioni si discute sull’interpretazione storica del Corano, di come sposare le regole della religione e quelle della vita contemporanea: qui non si parla, e chi solleva questi temi viene accusato di offrire il fianco agli islamofobi».
Più si passa del tempo con Naima più diventa chiaro che quello di cui discute non è solo il suo lavoro, ma la sua vita: l’amore per un uomo italiano e cristiano che ha rifiutato l’ipocrisia di una conversione finta per sposarla. La difficoltà di crescere la figlia in una famiglia con due culture e due religioni, l’inflessibile volontà di parlare a nome di un Islam che, rivendica con forza, «non è fatto solo di donne con il velo. Non ha una visione unica » . « Non mi si può tacciare di ignoranza perché non mi sono mai coperta la testa: sono musulmana anche io. Prego anche io. E conosco il Corano», spiega.
«Se dico che c’è un problema — insiste — è perché lo vedo. Queste ragazze sono straniere per legge ma italiane nei fatti: nate e cresciute qui, nelle nostre scuole, accanto ai nostri figli. Molte di loro conducono un’esistenza tranquilla, in armonia con il mondo esterno e con la famiglia. Ma per altre la storia è diversa. I genitori vogliono che mantengano l’identità delle origini, ma le loro origini sono qui: non hanno ricordi dei Paesi di origine delle famiglie, ma di Brescia. Siamo nella città di Hina, la ragazza uccisa nel 2006. Noi abbiamo ben presente dove può portare la tensione».
Parole profetiche: qualche settimana dopo questa conversazione, c’è stata la morte in Pakistan, presumibilmente per mano di padre e fratello, di Sana Cheema, che a Brescia era cresciuta e viveva, apparentemente felice. La notizia ha devastato Naima: «Siamo sotto choc: dodici anni dopo ci ritroviamo allo stesso punto. È il segno di un fenomeno che è stato sottovalutato. Non sto dicendo che va tutto male: ci sono giovani realizzate e famiglie felici. Ma c’è anche altro: e non bisogna vergognarsi a dirlo, non bisogna essere buonisti. C’è una zona grigia e va affrontata: perché se non lo facciamo crescerà».
In teoria Naima e Amina Alzeer stanno dalla stessa parte: entrambe combattono contro la violenza, entrambe si spendono anima e corpo nel loro lavoro, entrambe sono diventate un punto di riferimento nazionale. Eppure rappresentano due mondi che si guardano da lontano, a tratti con diffidenza. «Nei confronti di noi donne con il velo c’è un certo pregiudizio » , sospira Amina. « Le femministe e le laiche spesso non ci apprezzano perché proponiamo un approccio anche religioso alla questione della violenza. Allo stesso tempo alcuni esponenti della comunità musulmana ci danno addosso perché dicono incoraggiamo le donne a ribellarsi. Ma se tutti ci criticano, vuol dire che stiamo facendo bene».
Quarantadue anni, italopalestinese, madre di sei figli, Amina è la vicepresidente di Aisha, un progetto che prende il nome dalla moglie preferita del Profeta Maometto il cui scopo è contrastare la violenza e la discriminazione contro le donne. Aisha è un’iniziativa unica in Italia, nata a Milano due anni fa: le donne che vivono una violenza possono rivolgersi al gruppo e avere consulenza legale, terapia di coppia e individuale e, se richiesta, assistenza religiosa. La sua peculiarità è quella di operare all’interno delle comunità, coinvolgendo Imam e moschee. «Tutto nasce da una constatazione semplice: noi musulmane non siamo esenti dal problema della violenza » , dice Amina. Che rifiuta con forza di etichettare la questione come un problema religioso. «È una questione trasversale. Certo da noi c’è da fare uno sforzo in più, quello della consapevolezza: parliamo spesso con donne che non conosco i propri diritti, giuridici, personali e anche sessuali. E per questo sono passive di fronte alla violenza. Ma la religione non c’entra nulla: al massimo, viene usata come scusa».
Il progetto Aisha non è il mio primo impegno pubblico di Amina: da tempo nel Caim — il coordinamento delle associazioni islamiche di Milano e Monza — è abituata a dover difendere le sue scelte. «Sono stanca di ripetere sempre le stesse cose: che velo non vuol dire sottomissione, che chi dice che l’Islam autorizza la violenza sulle donne mente, che siamo parte della società come gli uomini. Uno si aspetterebbe che dopo tanti anni il dibattito in Italia si fosse un po’ evoluto. Ma così non è». Dopo un lancio un po’ faticoso, finora Aisha ha aiutato una ventina di donne: «Parlando anche con i mariti quando abbiamo potuto. Accompagnandole ai centri anti-violenza pubblici quando necessario. E facendole parlare con un imam, quando ce lo chiedono».
« Non discuteremo di velo, vero? » . Mohammed Ben Mohammed accompagna la frase con un sorriso bonario. Nato in Tunisia, dopo più di venti anni in Italia e alla testa di una comunità, come quella di Centocelle a Roma, che ha attraversato diverse tempeste, l’Imam vorrebbe davvero parlare di qualcosa che non fosse polemico. Se accetta di discutere della questione della violenza di genere è perché la considera «un problema vero». Ma prima di rispondere alle domande ci tiene a chiarire un punto. « L’Islam sta attraversando una fase delicata. La gente fatica a capire come vanno applicate le regole del Corano. Continuo a ripetere che conservare la visione del Profeta non significa vivere come ai suoi tempi, ma nel tempo le diverse interpretazioni della parola sacra hanno creato tradizioni che non rispettano i veri valori. Questo è valido in particolare per la situazione della donna. Con Maometto, le donne avevano un ruolo di primo piano nella società, a cominciare dalle sue mogli. Avevano anche massima libertà nella scelta dello sposo. Adesso siamo lontani anni luce da tutto questo, molto spesso le ragazze non possono dire “no”. Sono tradizioni difficili da cambiare. Ma non è la religione a prescrivere tutto questo».
L’Imam di Centocelle sa per esperienza che quella di cui parliamo è una sfida centrale per il futuro: sua figlia, Takoua Ben Mohammed, 26 anni, vignettista, è uno dei volti emergenti della comunità. Intraprendente, articolata, spiritosa. Una delle poche in grado di raccontare, con la leggerezza del suo tocco di matita e la profondità di chi ha respirato religione e politica sin da bambina, il complesso rapporto fra i giovani musulmani e la società italiana.
«Gestire i ragazzi e le ragazze al crocevia fra due mondi e due culture è difficile», sospira l’uomo. «Nascono, crescono, studiano qui ma i genitori spesso insegnano loro un’altra cultura. Bisogna capire e aiutare. Capita che le famiglie vengano a chiedere aiuto: cerco di spiegare che non si possono imporre cose ai figli. Spesso i genitori restano in silenzio: non sanno affrontare tutto questo. C’è chi non capisce che si possono conservare i nostri valori e vivere nell’Europa di oggi. È la nostra sfida».
Davanti alle storie di Alison e Zoya, di Jessica e a ai racconti delle tante altre donne con cui abbiamo parlato, Ben Mohammed stringe gli occhi e per la prima volta sembra perdere la serenità: «Non si può imporre la religione. E neanche il velo. Sono scelte. Chi sarà costretto a subirle non sarà coerente né sereno. Non è questo che ci ha chiesto il Profeta».

La scuola
Dalla moschea di Centocelle al quartiere di Torpignattara ci vogliono circa 20 minuti: quattro fermate del tram che attraversa via Casilina, zona popolare della città, portano nei pressi della Pisacane, la scuola che è uno dei cuori pulsanti del quartiere. Qui gli insegnanti si trovano di fronte a problemi simili a quelli che affronta l’imam Ben Mohammed. Torpignattara è una delle zone con il tasso di immigrati più alti di Roma: da anni fra i banchi del suo istituto ci sono allievi di origine bengalese, egiziana, marocchina, ma anche dell’Europa dell’Est.

La Stampa 25.5.18
Cannabis light, il ministero dell’Agricoltura regola il mercato delle infiorescenze
Era in vendita in smart shop e tabaccherie, ma senza una legge che ne regolasse la destinazione d’uso
di Nadia Ferrigo


Torino Era un paradosso legislativo, ora risolto. La cosiddetta «cannabis light», cioè la canapa con un contenuto di Thc inferiore allo 0,2%, si poteva coltivare, ma non era ancora regolato il mercato delle infiorescenze. Una circolare del Ministero dell’Agricoltura ha così sanato un mercato in piena espansione, che si trovava ancora in una zona grigia: pur essendo legali le infiorescenze di canapa in vendita non potevano riportare una destinazione d’uso. «Materiale per uso tecnico – si legge ancora sull’etichetta della cannabis light venduta in smart shop e tabaccherie – non atto alla combustione».
E dire che nell’ultimo anno il settore è cresciuto e parecchio, con un balzo dai 400 ettari di terreno coltivati del 2013 ai quasi 4mila stimati per il 2018. Per la Coldiretti «sono centinaia le nuove aziende agricole che hanno avviato nel 2018 la coltivazione».
«La coltivazione della canapa - si legge nella circolare ministeriale - è consentita senza necessità di autorizzazione, che viene richiesta invece se la pianta ha un tasso Thc di oltre lo 0,2% come previsto da regolamento europeo. Qualora la percentuale risulti superiore ma entro il limite dello 0,6% l’agricoltore non ha alcuna responsabilità; in caso venga accertato un tasso superiore allo 0,6% l’autorità giudiziaria può disporre il sequestro o la distruzione delle coltivazioni di canapa».
Ma c’è di più. Come spiega Luca Marola, fondatore di Easy Joint e tra i primi a entrare nel mercato «per la prima volta la parola infiorescenze viene inserita in un testo di diritto, riconoscendone così il valore. Adesso tutti i soggetti che hanno investito in questo business sanno di agire legalmente, senza più ombre». A spiegare la circolare Mipaaf è anche il vice ministro Andrea Olivero: «Si tratta di un provvedimento necessario per chiarire i possibili usi della canapa coltivata nell’ambito del florovivaismo, così da attuare una buona legge e precisarne il suo campo di applicazione. E in questo modo agevoliamo anche l’attività di controllo e repressione».

La Stampa 28.10.17
La strana corsa all’oro verde. La canapa cresce ovunque eppure mancano scorte per le terapie
L’Italia è piena di campi, ma solo lo Stato può produrre cannabis. Il fabbisogno nazionale per uso medico sono 500 chili (e l’Olanda limita l’export)
di Nadia Ferrigo

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La Stampa 28.10.17
Saranno le pecore a tosare l’erba nei parchi della capitale
di Nicola Lillo

Eccola la soluzione all’incuria e all’erba alta nelle ville e nei parchi di Roma: «Le pecore tosaerba». La Capitale chiede aiuto agli ovini, che scendono letteralmente in campo per mantenere bassa la vegetazione, ma - assicura il sindaco Virginia Raggi - «il metodo dell’ecopascolo» sarà utilizzato soltanto nelle periferie. Le pecore dunque non invaderanno il centro di Roma.
Ieri il Comune ha firmato il protocollo d’intesa con la Coldiretti per questa nuova soluzione, che vedrà impegnate 50 mila pecore in circa 20 aeree della città, dal Parco degli Acquedotti al Parco del Pineto, da Valle Aurelia alla zona di Tor Crescenza-Acqua Traversa. La soluzione non è del tutto nuova per la Capitale. Già duemila ovini sono infatti all’opera. Al Parco della Caffarella «convivono serenamente con i cittadini», spiega l’assessora all’Ambiente Pinuccia Montanari. La convivenza a breve coinvolgerà quindi altri abitanti di Roma, ma non quelli del centro città che non vedranno le pecore pascolare nei parchi. E probabilmente, si deduce, saranno costretti a continuare a vedere l’erba alta in attesa di una soluzione alternativa del Campidoglio.
L’accordo, che è stato presentato ieri, riprende iniziative avviate anni fa in alcune altre città. La prima è stata Torino, con l’ex sindaco Sergio Chiamparino che ha introdotto in alcune aree verdi questa iniziativa. In Europa invece è Parigi che utilizza le pecore in zone delimitate. Il protocollo presentato per la Capitale va in sostanza in due direzioni. In primo luogo sono stati individuati venti parchi dove gli agricoltori potranno falciare l’erba con mezzi propri e darla poi agli animali. Dove invece l’erba è più bassa, questa la seconda opzione, ecco che l’esercito di pecore entra in campo. «Questo protocollo d’intesa - spiega il sindaco Raggi - vuole valorizzare la funzione agricola di questa città che ha 40 milioni di metri quadri di verde e circa il 40 per cento ha vocazione agricola». Inoltre, secondo Raggi, con l’utilizzo delle «pecore tosaerba restituiremo agli ovini un’area che gli è stata sottratta».
L’assessora Montanari ricorda che già in altre città europee, nella lista c’è anche Berlino, si utilizza l’ecopascolo e che pecore che brucano l’erba a Roma ci sono sempre state. Un esempio (forse poco azzeccato)? «Si vedono anche in dipinti del 1600», dice l’assessore. Per David Granieri, presidente di Coldiretti Lazio, «è una grande opportunità, riuscire a rientrare nel modello agricolo a Roma è una sfida e un’opportunità per tutti». Il motto è già pronto: «Sarà la festa della transumanza a Roma».

Il Fatto 25.5.18
Zerocalcare riesce a ritrovare se stesso per diventare adulto tra le “macerie prime”
di Stefano Feltri


C’è chi passa una vita in analisi per accettare i propri limiti e trovare uno spazio nel mondo e chi, come Zerocalcare, disegna fumetti. Esce ora per Bao la seconda parte di Macerie prime e – come per Loro di Paolo Sorrentino – è soltanto con l’opera completa che si capisce davvero il senso, lo scopo. Nel primo volume Zerocalcare doveva rassegnarsi al fatto che, se tutti gli altri erano ormai adulti con problemi da adulti, anche lui doveva rassegnarsi a non rimanere eterno adolescente. L’amico Cinghiale si sposa, aspetta una figlia, il gruppo di compagni di una vita di centri sociali e marginalità esplode perché anche gli irregolari, prima o poi, cercano la normalità, in questo caso grazie all’opportunità offerta da un bando per avere fondi europei. Il secondo tomo si apre con Zerocalcare tra le macerie di una vita di cui ha perso il controllo: la sua coscienza abituale, raffigurata come un armadillo nobile e generoso, ha lasciato il posto al panda dell’egoismo. Ma Zerocalcare – alias Michele Rech – riesce faticosamente a ritrovare un equilibrio, anche le sue paturnie da troppo successo, si capisce ora, erano parte del tentativo di negare la complessità di una fase della vita in cui, a 35 anni, bisogna accettare che non tutto è andato come doveva, che gli amici non si cambiano più ma vanno capiti, coltivati e accompagnati. Anche le abituali digressioni comiche e nostalgiche che hanno determinato il successo di Zerocalcare qui vengono spinte ai margini da una narrazione autentica, perché sofferta, che pur con uno stile molto diverso ricorda la traiettoria narrativa dell’altro grande talento del fumetto italiano, Gianni “Gipi” Pacinotti. Il miglior libro di Zerocalcare da molto tempo.

Corriere 25.5.18
Evento a Cesena
Dibattiti e musica con Rai Radio3 Da oggi la Festa


Quasi ventiquattro ore di trasmissioni in diretta tra eventi e dibattiti che si tengono in sedi prestigiose, il Teatro Bonci e il Teatro Verdi. Da oggi a Cesena, fino a domenica 27 maggio, si tiene la Festa di Rai Radio3. Il tema è: tirannia e libertà. E alcune parole-guida percorrono tutte le messe in onda. Il primo piano è quello geopolitico, ma ci sono anche spettacoli musicali e teatrali, incontri con autrici e autori, uno spazio per la scienza. Tra gli ospiti: Stefano Bollani, Massimo Cacciari, Paola Cortellesi, Franco Farinelli, Francesco Guccini, Loriano Macchiavelli, Sergio Romano, Alessandra Sarchi.

Corriere 25.5.18
Claudio Bisio psicanalista cinico e depresso
di Maria Volpe


Anche gli psicanalisti possono cadere in depressione? Lo sa bene Marcello (Claudio Bisio, foto), psicanalista cialtrone e cinico, che un giorno decide di chiudersi in casa e mollare tutto. La scelta non viene accolta bene dalla sua segretaria Silvia (Anna Foglietta) che decide di radunare i suoi pazienti per cercare di farlo uscire dalla crisi. Ad aiutarlo c’è anche uno spacciatore (Marco Giallini) affetto da attacchi di panico, e molti altri tipi strani.
Confusi e felici Rai3, ore 21.15