venerdì 18 maggio 2018

Il Sole 18.5.18
Le riforme a orologeria di Pechino
Mercati globali. tra liberalizzazioni e guerre commerciali
Quando la Cina si aprirà al mondo sarà per assecondare le sue ambizioni di potenza
di Adriana Castagnoli


La Cina non è un’economia normale: per quattro decenni ha conosciuto una crescita record del 10% annuale ed è il primo Paese in via di sviluppo a divenire una grande potenza mondiale. D’altronde, ne è una riprova anche la missione a Pechino della delegazione guidata dal Segretario al Tesoro americano Steven Mnuchin per cercare di allentare le crescenti tensioni ed evitare l’escalation di una guerra commerciale fra le due sponde del Pacifico. Ma le dispute sugli scambi, dopo le dichiarazioni d’impegno del presidente Xi Jinping a nuove liberalizzazioni e aperture del mercato interno, continueranno: poiché la Cina si aprirà al mondo unicamente nel modo e nei tempi che riterrà più convenienti per la sua politica di potenza.
Quando nel 2007 il premier Wen Jiabao definì l’economia cinese «instabile, squilibrata, scoordinata e insostenibile» i vertici del Pcc, anziché aprire alla concorrenza, decisero di rafforzare le imprese di Stato. Da allora la Cina ha continuato a resistere alle pressioni americane di creare condizioni paritarie per gli investitori stranieri “forzando” le aziende estere a firmare joint venture e a cedere tecnologia per accedere al gigantesco mercato domestico. Pechino ha promosso politiche per sostenere, in particolare con “Made in China 2025”, campioni nazionali in settori strategici che includono aerospazio, biomedicina e robotica. È divenuta così uno dei leading global hub per lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale (Ai). Possiede le più importanti startup al mondo del settore ed è all’avanguardia nella competizione per il 5G.
In alcuni comparti, come il mercato dell’energia, l’enorme impatto economico cinese nel green può ridisegnare l’ordine mondiale insidiando le strategie espansive dell’amministrazione Trump, che ha puntato invece sulle fonti fossili. Perché più la Cina investe nell’industria dell’energia verde (pannelli solari, batterie, auto elettriche, impianti di cattura e stoccaggio del carbonio) più i prezzi di queste produzioni crollano facilitando la strategia di penetrazione cinese e costringendo gli altri ad adeguarsi.
D’altronde, il Fondo monetario internazionale prevede una crescita del Pil cinese al 6,6% nel 2018, mentre sono aumentati i salari, le riserve in valuta straniera e il renminbi si è rafforzato. Anche il riequilibrio dell’economia verso i consumi è iniziato tanto che, nel 2017, il consumo finale ha contribuito al 59% del Pil.
Il punto è che per lo Stato cinese economia e politica sono due facce della stessa medaglia. L’autoritarismo di Pechino nel XXI secolo, oltre a stringenti controlli per la cybersecurity, include anche un piano per il “social credit” che combinando big data, Ai e software di riconoscimento facciale rende possibile localizzare in pochi minuti una persona fisica e premiare o punire i cittadini per il loro comportamento. Sulla scena mondiale, coerente a questa idea di Stato autoritario, Pechino fa scudo a regimi non democratici (come Sudan, Siria, Venezuela, Zimbabwe e altri), insieme alla Russia, ostacolando le sanzioni internazionali e impedendo azioni d’intervento in sede Onu.
Per giunta la Cina si propone come un nuovo modello economico. La sua influenza politica passa anche attraverso questa sua capacità di penetrazione nel business globale. Tanto più che Pechino differenzia il suo approccio negli aiuti ai Paesi in via di sviluppo rimarcando come, rispetto agli Stati Uniti e alle potenze europee, essa non chieda loro di riformare la governance in cambio dei suoi sussidi. La stessa politica di ritorsioni contro i dazi di Trump potrebbe finire per rafforzare la presenza cinese nel subcontinente americano dove Argentina e Brasile sono pronti a fornire la soia prima importata dagli Usa.
Nei confronti dell’America sinora la Cina ha cercato di divenire più competitiva senza essere conflittuale. Contemporaneamente la sua dipendenza dal commercio estero e, in particolare, dal surplus con gli Usa si è costantemente ridotta, tuttavia c’è ancora. Per questo nella disputa sui dazi la strategia cinese punta a isolare gli Stati Uniti dagli alleati poiché una guerra commerciale sarebbe negativa, nell’attuale fase di riequilibrio dell’economia sui consumi interni, anche per Pechino.
Nondimeno vi sono fondati motivi per ritenere che le riforme in corso e le aperture annunciate da Pechino siano soltanto un’ulteriore messa a punto del modello di socialismo di mercato. Xi Jinping ha reso esplicita l’intenzione di rafforzare le aziende di Stato e lo sviluppo di tecnologia domestica. La Cina si aprirà ai capitali esteri gradualmente e nel modo che il governo riterrà più confacente alle sue ambizioni di potenza globale. D’altronde, un potere centralizzato e autocratico può permettersi interventi per correggere il corso delle cose che sono, naturalmente, impossibili in una democrazia.