Quanto possiamo fidarci dei sedicenti laici come la direzione de il Fatto?.
Leggi qui di seguito per esempio il loro contributo settimanale di oggi
Non sappiamo quali sostanze assumano in precedenza, ma di predicozzi deliranti come questo ne commissionano uno nuovo ogni Domenica al proprio santone personale di fiducia... e noi compriamo e leggiamo...
Il Fatto 20.5.18
Lo Spirito continua la rivelazione di Gesù e ci svela la Verità
di Don Francesco Brugnaro
*Arcivescovo di Camerino–San Severino Marche
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio. Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà (Giovanni 15,26-27.16,12-15).
Dopo i cinquanta giorni (Pentecoste) che seguono la Pasqua, la liturgia prepara i credenti a ricevere il dono promesso da Gesù Risorto all’umanità: lo Spirito Santo vivificante che introduce nella vita divina ogni uomo che crederà nell’Inviato del Padre. Tutto ciò che dà, lo trae da Gesù, così come questi riceve dal Padre le sue parole e le sue opere: tutto ciò che è del Padre appartiene al Figlio. Lo Spirito continua la rivelazione di Gesù immettendo il credente nella crescente comprensione della Verità, espressione dell’unità della rivelazione del Padre, del Figlio e dello Spirito.
Lo Spirito è chiamato da Gesù il Paràclito: colui che è inviato per prestare aiuto, per assistere come avvocato, testimone, consigliere. È lo Spirito che preserverà i discepoli dallo scandalo quando la loro fede sarà drammaticamente contestata. Di fronte all’odio del mondo, i cristiani sono esposti allo scoraggiamento, al dubbio, alla minaccia della vita: lo Spirito difenderà la loro fedeltà, dispiegando in essi la forza e la gioia di essere suoi discepoli. “Egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza”. Verrà donata una nuova e vera comunione inaugurata dallo Spirito Santo, la koinonìa.
Nel dirci che “mentre si trovavano tutti insieme, venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso e riempì tutta la casa” (2,1-4), gli Atti degli Apostoli ci istruiscono circa la natura di questo Spirito. Promesso dall’Alto, non è prevedibile sebbene atteso, colma di Sé ogni cuore e ogni casa diviene il cielo di Dio.
I discepoli erano riuniti insieme dalla paura, mentre arriva su di loro un vento di libertà che rianima le loro esistenze. “Apparvero lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro”. Su ciascuno di loro, senza preferenza ed esclusione, lingue di fuoco illuminano persone diverse sviluppando una vocazione, un’interiorità che mette in movimento la vita di ciascuno. Gli apostoli escono per la comune missione a loro affidata dal Signore Gesù. Il fuoco che Gesù aveva detto di portare sulla terra (Lc 12,49) è ora disceso sui Dodici. Essi come le dodici tribù del Popolo di Dio possono rappresentare tutta l’umanità. Ma l’accento è sempre su Dio! È Lui che si rivela in modo nuovo per formare la nuova e autentica umanità.
Lo Spirito viene con il suo modo di consolare, ricostruisce sempre con il suo perdono la speranza in coloro che non vedono futuro, rende sempre più forte il nostro debole modo di amare tanto da divenire capaci di dare la vita per amore. L’apostolo Paolo scrive ai Galati: “Camminate secondo lo Spirito … lasciatevi guidare dallo Spirito” (5,22). I cristiani sanno di appartenere a un progetto sempre aperto, hanno la grazia di vivere nella logica del dono, affidano gioiosamente la profondità della loro coscienza a Colui che sa convertire ogni cosa in Bene e in frutto di Vita, dello Spirito: “Amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, mitezza, dominio di sé”. Gesù vive nel suo Spirito, nella sua Chiesa, fra di noi, per sempre.
La Stampa 20.5.18
In piena Guerra Fredda Stalin chiese a Pio XII un’ambasciata in Vaticano
Josip Stalin, il dittatore comunista che perseguitava i cristiani, Pio XII, il Papa anticomunista.
di Andrea Tornielli
Nel febbraio 1952, in piena Guerra fredda, il leader sovietico avrebbe tentato un riavvicinamento tra la Santa Sede e l’Unione Sovietica. Una trattativa ufficiosa e ancora embrionale, che si sarebbe protratta fino all’inizio del marzo 1953, quando il leader sovietico morì, con il conseguente naufragio del progetto. Colloqui informali avvenuti in gran segreto, nella residenza di Falcone Lucifero, ministro della Real Casa, con l’interessamento del re esiliato Umberto II. È quanto emerge da un verbale di 40 cartelle, fino ad oggi inedito, dove sono messi nero su bianco i resoconti dei colloqui che attestano l’offerta di Stalin. Per l’Unione Sovietica i contatti erano condotti dallo storico comunista Ambrogio Donini, studioso delle religioni, ambasciatore italiano in Polonia nel 1947, senatore della Repubblica eletto nelle liste del Pci dal 1953 al 1963. Per il Vaticano c’era il gesuita padre Giacomo Martegani, direttore della Civiltà Cattolica, che incontrava Papa Pacelli due volte al mese per ragioni d’ufficio.
Il documento sarà presentato dal professor Matteo Luigi Napolitano, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università del Molise, al convegno sulle relazioni tra Russia e Santa Sede, promosso dal Pontificio Comitato di Scienze storiche, che si svolgerà in Vaticano il 22 e 23 maggio. La Stampa ha letto in anteprima il verbale, che lo stesso Donini, trent’anni dopo quegli eventi, volle consegnare al cardinale Agostino Casaroli, Segretario di Stato di Giovanni Paolo II e pioniere dell’Ostpolitik.
Dal verbale emerge che Umberto II era al corrente della trattativa. Informato di tutto era anche l’arcivescovo di Genova Giuseppe Siri, uno dei cardinali più vicini a Pio XII.
Un importante colloquio fra Donini e Martegani si svolse il 13 febbraio 1952 in casa di Falcone Lucifero. A un certo punto della discussione il professore affrontò il tema decisivo: una proposta concreta, che il professore avanza lasciando intendere di essere autorizzato in alto loco a Mosca. «La Santa Sede ha già accettato e accetterebbe oggi di nuovo un rappresentante accreditato dagli Stati Uniti d’America. Perché non ha mai espresso una posizione analoga nei confronti dell’Urss?». La proposta era di quelle da far tremare i polsi. Padre Martegani replicò pesando attentamente le parole: «Il fatto sarebbe molto importante ma non si può mettere il carro davanti ai buoi. Questo potrebbe caso mai essere il punto di arrivo di una lunga chiarificazione, non il punto di partenza. Si nominano i rappresentanti diplomatici quando si tratta e quando il colloquio diviene abituale; non quando i rapporti sono infranti».
Dopo che lo storico comunista ebbe lasciato l’abitazione, il gesuita fece il punto della situazione con uno dei testimoni, il conte Paolo Sella di Monteluce, presidente dell’omonima fondazione di studi economici e sociali con sede in Vallemosso, adesso provincia di Biella. Insieme misero nero su bianco il colloquio, sottolineando che «Il prof. Ambrogio Donini ha fatto chiaro accenno alla possibilità di una mediazione della Chiesa sia sul piano economico sia sul piano ideologico e politico», per agevolare il disgelo internazionale. «Donini ha egualmente accennato alla eventuale apertura di una rappresentanza diplomatica ufficiale dell’Urss presso la Santa Sede... In quella occasione» Donini offri a Martegani «la formale proposta da parte del Capo del Governo sovietico, Stalin, per la apertura di una Ambasciata Sovietica presso al Santa Sede in Roma». Nel testo anche che l’«offerta non fu respinta dal rappresentante del Sommo Pontefice» ma «dichiarata accettabile subordinatamente alla prova di un concreto atteggiamento» di disponibilità del governo sovietico.
«È un documento importante - spiega lo storico Napolitano che l’ha scoperto e studiato - perché dimostra una linea di dialogo avviata da Mosca che risale a ben prima dell’Ostpolitik».
Non se ne fece nulla. Stalin si spense il 5 marzo 1953 e il progetto morì con lui. Aveva chiesto polemicamente il dittatore sovietico: «Quante divisioni ha il Papa?». Nell’apprendere la notizia della sua morte, Pio XII commentò: «Ora potrà vedere quante divisioni noi abbiamo lassù!».
il manifesto 20.5.18
Vegetti, inattualità di Platone e del comunismo
Filosofia antica. La città perfetta del filosofo greco letta come utopia progettuale: un ritratto di Mario Vegetti a due mesi dalla morte, mentre esce da Carocci l’ultimo libro
di Franco Ferrari
L’imminente uscita dell’ultimo libro di Mario Vegetti, dal titolo Il potere della verità Saggi platonici (Carocci «Frecce», pp. 284, € 24,00), revisionato in bozze dall’autore poche settimane prima della scomparsa avvenuta l’11 marzo scorso, rappresenta un’eccellente occasione per stilare un profilo, per forza di cose parziale, di uno studioso che ha rappresentato un punto di riferimento fondamentale per intere generazioni di antichisti, ma che ha esercitato un’influenza significativa anche nel dibattito culturale della sinistra italiana (tra la fine degli anni sessanta e gli inizi dei settanta fu vicino sul piano intellettuale e politico al gruppo del manifesto e alla sinistra radicale fu sempre legato, come testimonia anche la direzione della rivista «Marxismo oggi»).
Vegetti, che era nato a Milano nel 1937, insegnò per quasi quattro decenni Storia della filosofia antica all’Università di Pavia, dove aveva studiato, in qualità di alunno del prestigioso Collegio Ghislieri, nella seconda metà degli anni cinquanta. Fin dai suoi primi lavori seppe innovare in maniera incisiva il panorama degli studi sul pensiero antico, includendovi ambiti e testi fino ad allora collocati ai margini. Basti pensare che a lui si deve, nel lontano 1964, la traduzione degli scritti del Corpus Hippocraticum, un insieme di testi di argomento medico che contengono importantissime riflessioni di ordine epistemologico. Nel corso degli anni Vegetti si è imposto come uno dei massimi specialisti internazionali di storia della medicina antica; alla pubblicazione delle opere ippocratiche ha fatto seguito, nel 1978, un volume che raccoglie i principali scritti di Galeno, l’altro grande medico dell’antichità. Le indagini di Vegetti sui testi medici antichi, che trovarono un significativo momento di sintesi nello splendido Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donne all’origine della razionalità scientifica (Il Saggiatore, 1979), inaugurarono una stagione di studi vivacissima, che ancora oggi a distanza di tanti anni costituisce uno dei settori più interessanti e innovativi della ricerca sul pensiero antico. Vegetti ha ricostruito i metodi e le forme di conoscenza che hanno segnato l’origine di una nuova forma di razionalità, un pensiero di tipo congetturale e semeiotico, che si è progressivamente affrancato dal modello sapienziale e semi-religioso praticato dalla cultura tradizionale.
L’apporto di Vegetti all’innovazione degli studi sul pensiero antico non si è limitato alla medicina. A lui e al suo collega «pavese» Diego Lanza, amico di una vita, si deve la traduzione delle opere biologiche di Aristotele, fino ad allora trascurate dagli studiosi. La «scoperta» di questi scritti ha permesso di allargare notevolmente la nostra conoscenza del pensiero di Aristotele, consentendo di superare le ristrettezze di un approccio scolastico e banalizzante. Ad Aristotele Vegetti ha dedicato uno dei suoi ultimi libri, scritto in collaborazione con Francesco Ademollo, Incontro con Aristotele (Einaudi, 2016), un’opera nella quale la profondità del pensiero del grande filosofo antico viene valorizzata in tutte le sue componenti.
Il sodalizio con Diego Lanza
Al sodalizio con Diego Lanza si deve anche un’innovativa stagione di studi, dedicati ai meccanismi economici, sociali, istituzionali, politici e ideologici che agiscono alle spalle della costruzione della democrazia ateniese del V secolo. Il libro L’ideologia della città (Liguori, 1977) si serve dei raffinati strumenti analitici forniti dall’antropologia e dal neo-marxismo di quegli anni per indagare le dinamiche intorno alle quali si viene a costituire appunto l’ideologia di Atene (sempre nel 1977 esce per Feltrinelli anche il volume, curato da Vegetti, Marxismo e società antica, dedicato alla questione dell’applicabilità di categorie marxiane, come classe, mercato, sfruttamento, ideologia ecc., al mondo antico).
La democrazia ateniese nasce attraverso un complesso sistema di inclusioni ed esclusioni, che mette ai margini i poveri, gli schiavi, le donne e gli stranieri. Ma la città si dota anche di formidabili strumenti di autorappresentazione, che ne cementano l’identità (basti pensare al teatro, prima tragico e poi anche comico). Non c’è però dubbio che lo strumento più forte per mezzo del quale viene costruita l’ideologia della città sia l’uguaglianza politica, la celebre isonomia, la quale assegna pari dignità a ciascun cittadino, celando la profonda diseguaglianza nella distribuzione della proprietà e delle ricchezze. Lanza e Vegetti scrivevano che «gratificante e consolatoria, l’ideologia assicura ciascuno della propria identità», facendo sì che l’individuo si senta parte di una comunità omogenea. Sulla funzione mediatrice e unificante del nomos, ossia della legge, Vegetti è tornato numerose volte nel corso degli anni, soffermandosi sulle voci critiche provenienti da coloro che misero in luce il carattere illusorio (si direbbe «ideologico») di questa pretesa. La più radicale di queste voci è senz’altro quella del sofista Trasimaco, il quale viene descritto da Platone nell’atto di sferrare un attacco formidabile alla pretesa di neutralità e universalità della legge e dei sistemi normativi che regolano la vita della città: la giustizia, proclama con forza Trasimaco, non è altro che «l’utile del più forte».
I sistemi normativi nei quali la giustizia si sostanzia smarriscono ogni ambizione «oggettiva», diventando l’espressione di rapporti di forza che si collocano alle loro spalle: chi ha la forza – si tratti dei più ricchi o della maggioranza – impone il rispetto di leggi il cui unico obiettivo è quello di perpetuare questo potere. Vegetti, che non ha mai nascosto la sua ammirazione per la radicalità e la potenza teorica di una simile tesi, è arrivato ad attribuire a Trasimaco la formulazione di un vero e proprio «teorema del potere», ormai indifferente alla natura «costituzionale» del governo: si tratti di un regime monarchico, aristocratico oppure democratico, il suo assetto legislativo dipende unicamente dalla forza, la quale finisce per rappresentare, contro ogni pretesa di universalità e neutralità, l’unica autentica fonte della legge e dunque della giustizia.
Fine dell’età dell’innocenza
Lo smascheramento della natura della legge e delle norme di giustizia operato dal Trasimaco platonico rappresenta per Vegetti tanto la fine dell’«età dell’innocenza» della città, quanto il punto di partenza per il grandioso progetto di rifondazione antropologica e politica messo in campo da Platone. A questi temi Vegetti dedicò sia la monumentale edizione commentata della Repubblica (uscita in 7 volumi per Bibliopolis, 1998-2007), sia numerosi altri contributi, tra i quali lo splendido Un paradigma in cielo (Carocci, 2009) e il recentissimo Chi comanda nella città. I Greci e il potere (Carocci, 2017). Il senso della lettura che Vegetti propone del progetto politico platonico è chiaro, sorretto da una straordinaria conoscenza dei testi e da una solida competenza filologica, ma soprattutto animato da una inequivoca «scelta di campo». Polemizzando tanto con le interpretazioni «liberali» quanto con quelle schiettamente «conservatrici», entrambe volte a depotenziare il messaggio «politico» contenuto nella Repubblica, concepito o come un documento di morale individuale oppure come un gioco letterario, Vegetti ha coraggiosamente affermato l’«inattualità» di Platone sia rispetto alla cultura individualistica e proprietaria della modernità, sia rispetto alla presunta unità «cristiana» dell’occidente: Platone non fu né liberale, né cristiano, fu anzi convinto che i provvedimenti intorno ai quali dovrebbe sostanziarsi la «città bella» (kallipolis), ossia a) l’uguaglianza dei generi rispetto ai compiti di governo, b) la soppressione della famiglia e della proprietà, cioè l’abolizione della componente privata sia sul piano patrimoniale sia sul piano affettivo, e c) il governo dei filosofi, non risultano solo desiderabili, ma anche, in qualche misura, «possibili», ossia realizzabili. La città perfetta immaginata da Platone non rappresenta dunque un «castello in aria», un’utopia letteraria priva di significato politico, ma, come Vegetti ha sostenuto numerose volte, un’utopia progettuale, vale a dire un modello normativo che svolge la funzione di paradeigma dei comportamenti pubblici e privati degli individui. L’ultimo libro di Vegetti, al quale si faceva riferimento in apertura, tratta con la consueta limpidezza molti dei temi ora richiamati.
In un divertissement pubblicato in una collana di «falsi d’autore» (Platone, Repubblica, libro XI, Guida, 2004), Vegetti immagina che nel 1937 in un convento dell’Armenia uno studioso sovietico dal non casuale nome di Josiph Vissarionovich annunciò il ritrovamento di un manoscritto contenente il libro XI della Repubblica di Platone. Il protagonista di questo libro, colui che intende superare le tesi di Trasimaco e di Socrate, è «uno straniero piuttosto tozzo e tarchiato, con una gran testa, un’incolta barba grigia e lo sguardo penetrante, cui faceva da seguito una piccola folla di manovali o di schiavi da poco liberati dalle loro catene». Questo Marx che dialoga con Socrate, delineando i contorni di una società senza sfruttati né sfruttatori, senza ricchi né poveri, rappresenta l’estrema concessione – ironica e divertente, – di Vegetti alla passione politica, alla sua fiducia in un comunismo aperto e libertario, tanto «inattuale» quanto ineludibile, almeno per una riflessione che non si accontenti di registrare passivamente il presente, ma si proponga di immaginare criticamente il futuro.
Corriere La Lettura 20.5.18
Marx è un messia
Dialogo con la filosofa ungherese sulla modernità (non solo l’attualità dell’autore del «Capitale», ma di Freud, Kierkrgaard, Nietzsche), e sul futuro della democrazia. «Al contrario di quel che si crede il nostro continente è estraneo al liberalismo. Profondamente radicato qui, invece, è il nazionalismo»
conversazione di Donatella Di Cesare e Agnes Heller
DONATELLA DI CESARE — Nel 1944 suo padre Pàl Heller, ebreo austriaco, fine intellettuale, uscì e non tornò più. Fu deportato ad Auschwitz e ucciso il 16 gennaio 1945. Lei fu reclusa nel ghetto di Budapest a 15 anni e sopravvisse solo perché Eichmann aveva deciso di deportare prima gli ebrei sparsi fuori dalla città. Sebbene lei si dichiari laica, il suo rapporto con l’ebraismo mi pare molto profondo.
ÁGNES HELLER — Essere ebrea era per me ovvio. Come sarebbe stato possibile altrimenti negli anni della persecuzione? Avevo 10 anni quando in Ungheria, nelle università e nelle scuole, fu introdotto il numero chiuso. Non mi fu possibile studiare, se non al liceo ebraico. Dal momento che ero cresciuta in una famiglia non religiosa, pensai di provocare il rabbino Sámuel Kandel, un uomo straordinario. Mi rivolsi a lui con sfrontatezza: «Io non credo in Dio». Mi aspettavo un finimondo. E invece mi raccontò una storia ambientata ai tempi dei pogrom in Ucraina. «Un cosacco, responsabile di quei massacri, sfidò il rabbino dello shtetl, la piccola città, intimandogli: “Sono pronto a salvare i superstiti della tua comunità, se riuscirai a riassumere l’essenza dell’ebraismo stando in piedi su una gamba sola”. Il rabbino disse d’un fiato: “Ama il prossimo tuo come te stesso”». La storiella mi turbò; ancora oggi avverto quel sentimento. «E tu — chiese il rabbino — ami il prossimo tuo come te stessa?». Replicai: «Ci provo; non so se ci riesco». «Bene — proseguì — allora sei una brava ebrea. A Dio non interessa che tu creda o no, ma che tu segua le sue leggi». Per anni fui convinta che fosse solo un’idea di Kandel; solo dopo mi accorsi che la storiella fa parte della tradizione e capii che l’ebraismo non si occupa dell’esistenza di Dio, bensì dell’agire in conformità alla legge. Non ci sono dogmi, ma interpretazioni. In questo senso posso dire che sono religiosa, provo ad esserlo. Per anni studiai allora la Torah e la storia del popolo ebraico. Poi ci fu l’occupazione tedesca e l’olocausto degli ebrei ungheresi. Quasi tutta la mia famiglia venne sterminata; persi anche molti amici d’infanzia. Il rabbino Kandel fu assassinato con la moglie dai nazisti ungheresi.
DONATELLA DI CESARE — Trovo molto importante quello che lei osserva nel libro Breve storia della mia filosofia, che il grande problema è perché mai sia esistita ed esista una «questione ebraica». Giustamente lei connette antisemitismo e antiebraismo nel bel libro Gesù l’ebreo. Rivendicando la figura di Gesù all’ebraismo («Gesù non ha infranto la legge, l’ha radicalizzata») si chiede perché questo fatto sia stato così a lungo taciuto.
ÁGNES HELLER — Il mio libro è legato al rabbino Kandel, che ci parlava di Gesù sostenendo che apparteneva alla corrente ebraica degli esseni. Per me Gesù non è mai diventato un biondo tedesco, ma è sempre rimasto un amato profeta. Sebbene questo primo amore abbia contribuito in modo decisivo al mio interesse per la sua figura, quel che mi ha spinto allo studio non è stata un’esperienza personale, bensì un interrogativo storico e filosofico. Perché non solo i cristiani, ma anche gli ebrei hanno dimenticato per secoli il Gesù ebreo? La questione filosofica riguarda la memoria e l’oblio — la memoria di una comunità e l’oblio collettivo. Perché i testi — ad esempio i testi evangelici — sono stati letti in modo selettivo e ha prevalso sempre un’unica interpretazione? In che modo questa lettura ha finito per alimentare un terribile e ingiustificato odio contro gli ebrei? E perché negli ultimi 70 anni è stato riscoperto il Gesù ebreo?
DONATELLA DI CESARE — Lei ha più volte rivendicato il diritto di richiamarsi a Marx senza essere marxista. E lo ha pagato a caro prezzo con persecuzioni e vessazioni. Il suo ultimo libro su Marx, appena uscito in italiano, ha un titolo per alcuni versi sorprendente: Marx. Un filosofo ebreo-tedesco. Che cosa c’è di ebraico nell’opera di Marx? Questo lei si chiede. E la risposta è: la «liberazione dell’umanità». Lei inserisce Marx in una prospettiva messianica. Quasi come Walter Benjamin… Il ruolo messianico è quello del proletariato.
ÁGNES HELLER — All’università, dal 1946 in poi, sono stata allieva di György Lukács, famoso marxista. Quella è stata la mia formazione. Tuttavia, a parte il primo volume del Capitale, non conoscevo altro. Per quanto possa apparire paradossale, non c’erano in quel tempo molte possibilità di studiare Marx, perché fino al 1953 tutti i suoi libri erano «materiale secretato». Solo in seguito, quando cominciai a leggere Marx, diventai una vera marxista, ma critica e selettiva. Lasciai perdere il Marx economista e scelsi invece quello giovane dei manoscritti di Parigi, che profetizza il nuovo Messia, e cioè i «proletari di tutto il mondo». Alcune importanti tesi di Marx, come il paradigma della produzione, mi sono sempre parse lontane ed estranee. Era quasi obbligatorio allora definirsi marxista o postmarxista. Ho imparato infine, grazie a Michel Foucault, che la filosofia è personale (non privata!) e non è quindi necessario identificarsi in uno dei tanti «ismi», per essere riconosciuti come filosofi.
DONATELLA DI CESARE — La sua teoria dei bisogni, che proprio in Italia ha avuto negli anni Settanta grande successo, resta più che mai attuale. A partire da Marx, lei identifica nei «bisogni radicali» — una vita piena di senso, un lavoro gratificante, l’esigenza di tempo libero, cultura, amore — i bisogni che, proprio perché mirano a una liberazione radicale, non possono essere soddisfatti in una società ingiusta. Sono perciò antitetici ai bisogni alienanti — il consumo di merci gratificanti, la necessità di conformarsi — che creano sempre ulteriore assoggettamento. Nell’egocentrismo illimitato del tardo capitalismo manca infatti sempre qualcosa.
ÁGNES HELLER — Continuo a vedere in Marx una delle voci più radicali del pensiero moderno che insieme a Kierkegaard, Nietzsche e Freud, ha influenzato profondamente il mondo di oggi. In particolare Marx e Nietzsche, loro malgrado, sono stati oggetto di una ricezione per certi versi esiziale. Nietzsche è stato utilizzato dai nazisti, Marx da Stalin. Ma non si è responsabili di una recezione contro cui non è possibile farsi valere (semplicemente perché non si è più in vita).
DONATELLA DI CESARE — Sebbene lei abbia difeso una «filosofia radicale», il suo atteggiamento verso la democrazia liberale non è critico come si potrebbe immaginare. Lei sostiene che non c’è bisogno di trasformazione rivoluzionaria e che le istituzioni democratiche odierne hanno un potenziale nascosto che non siamo riusciti ancora a liberare.
ÁGNES HELLER — Prima con la teoria dei bisogni, poi con il saggio sulla rivoluzione della vita quotidiana ho preso questa posizione avvicinandomi alla Nuova Sinistra. Si è trattato anzitutto di un cambio di paradigma nell’interpretazione di Marx.
DONATELLA DI CESARE — Nel suo libro Paradosso Europa, lei ha più volte sottolineato giustamente la contraddizione tra diritti del cittadino e diritti dell’uomo che segna la democrazia occidentale almeno dalla rivoluzione francese. Nel frattempo questa contraddizione è divenuta — io credo — un vero contrasto, anzi un conflitto: quello fra i cittadini di uno Stato-nazione e i migranti. Di qui la crisi dei diritti umani, calpestati ovunque, che si è tradotta in criminalizzazione di chi, fra gli Stati, tenta ancora di innalzare il vessillo della solidarietà. Tengo a dire che considero la prospettiva dell’universalismo cosmopolita un fallimento; penso che occorra guardare a un’articolata politica dell’accoglienza e allo sviluppo di comunità aperte. Mi pare che su questo punto lei assuma una posizione che non condivido, quando sostiene — più o meno apertamente — che i cittadini sono sovrani, che hanno insomma il diritto di escludere, di respingere. Per lei è valida la distinzioni tra profughi politici e immigrati economici, che io considero invece fittizia, un retaggio della guerra fredda. Di più: lei afferma che l’Europa si deve difendere, deve chiudere le porte a coloro che sono «estranei» alla sua civiltà e che ne metterebbero a repentaglio il futuro. Non le sembra una posizione reazionaria?
ÁGNES HELLER — La Rivoluzione francese ha proclamato i diritti dell’uomo e quelli del cittadino. Sappiamo già da tempo che i diritti umani possono essere preservati solo dove sono garantiti i diritti dei cittadini — come fa lo Stato. Negli ultimi anni è all’ordine del giorno la questione del conflitto tra questi due tipi di diritti a causa della crisi migratoria. Per quel che riguarda i diritti umani, tutti sono nati liberi e hanno il diritto di vivere lì dove vogliono. Ma per quel che riguarda lo Stato, i cittadini possono e devono decidere con chi coabitare. Sono contraria a recinti e confini; ma occorre riconoscere questo diritto dei cittadini che limita purtroppo i diritti umani. C’è il rischio di conflitti e guerre. Ma temo soprattutto che paure, legittime e comprensibili, verso un altro che non conosciamo, possano essere strumentalizzate dai populisti.
DONATELLA DI CESARE — Lo Stato nazionale mostra però oggi il suo lato peggiore, più aggressivo e violento. Basti pensare ai muri, ai fili spinati, ai campi di internamento per i migranti. La xenofobia dilaga, in Ungheria, ma anche in Italia.
ÁGNES HELLER — Sì, il razzismo è presente ovunque, in forme vecchie e nuove. L’antisemitismo è in particolare odio per Israele. La miccia che ha riacceso il nazionalismo è stata la crisi economico-finanziaria. I leader populisti hanno raggiunto grandi consensi fomentando l’odio e attingendo ai sentimenti più bassi. Il populismo autoritario ha precedenti in quello che chiamo «bonapartismo», un fenomeno inaugurato da Napoleone. Di fronte a problemi complessi, che richiederebbero condivisione, responsabilità, solidarietà, si ricorre all’uomo forte, che incarna lo Stato, rivendica verità, promette soluzione a tutto quel che affligge il «popolo». In realtà rappresenta interessi parziali e agisce senza scrupoli. La scorciatoia del bonapartismo resta purtroppo una tentazione, malgrado la rovina portata da tutti quei leader populisti che promettevano salvezza. Nel mio Paese, l’Ungheria, il populismo di Orbán ha assunto caratteri autoritari e sempre più preoccupanti. Ma vedo che ormai rischia di non essere un’eccezione in Europa…
DONATELLA DI CESARE — Il sovranismo populista, che si nutre di complottismo, odio per l’altro, stereotipi razzisti, non è più una tendenza marginale, ma sta diventando forza di governo.
ÁGNES HELLER — L’espressione «populismo» è fuorviante. Perón è stato un populista, una sorta di dittatore, che tuttavia aveva la sua forza nei sindacati. I populisti attuali, come Trump o Orbán, sono appoggiati dalle oligarchie, più o meno velate. Oggi viviamo in società dove i tiranni possono essere votati liberamente. Gli interessi di classe non hanno più un ruolo significativo in campo elettorale; le ideologie, invece, sono decisive. In Europa vedo nei prossimi anni lo scontro tra due forze: da una parte la tradizione autoritaria, dall’altra il federalismo, di cui il primo esempio fu Roma antica. Certo, i partiti populisti possono vincere le elezioni, ma non governare a lungo. La democrazia, intesa come governo di maggioranza, non basta a garantire la libertà.
DONATELLA DI CESARE — Lei ha fatto ritorno in Europa, malgrado il lungo esilio, prima in Australia, poi in America. Vuol dire che ripone ancora speranze nel vecchio continente… Io penso che l’Europa avrebbe dovuto diventare una forma politica postnazionale. E invece è rimasta un agglomerato di Stati nazionali.
ÁGNES HELLER — L’Europa si è ridotta a mero progetto burocratico. L’occasione mancata è la Costituzione europea, senza la quale appare difficile fermare le derive populiste e autoritarie. Al contrario di quel che si crede, l’Europa, con il suo passato tetro, è estranea alla democrazia liberale. Profondamente europeo è, invece, il nazionalismo che oggi si riafferma. Il motivo? È mancata una coscienza europea, la costruzione di un’identità unificante. Non si possono incolpare solo i governi; anche i cittadini hanno perseguito interessi nazionali.
DONATELLA DI CESARE — La liberazione delle donne è forse le rivoluzione più significativa, perché rimuove l’unica disuguaglianza che nei secoli è stata ritenuta ovvia, naturale. Perciò lei ha scritto, non senza una punta di provocazione, che lo stato di minorità delle donne è oggi «autoinflitto». Che cosa intende? Si riferisce alla paura della libertà?
ÁGNES HELLER — Sì. La liberazione delle donne è stato anche obiettivo della Nuova Sinistra. Sono molte le «ovvietà» dominanti messe in questione. È una lunga e difficile storia. Ma dal 1968 a oggi noi donne abbiamo ottenuto più riconoscimento di quanto fosse mai avvenuto prima.
DONATELLA DI CESARE — «Oggi sosteniamo che la Nuova Sinistra è stata sconfitta, ma è una sciocchezza». Così lei ha scritto qualche anno fa precisando che «le speranze rivoluzionarie non possono essere realizzate, ma ciò non significa che la rivoluzione sia un inganno». Lo pensa ancora?
ÁGNES HELLER — La Nuova Sinistra mi ha attirato per molti motivi. Sin dall’inizio è stata ostile al comunismo sovietico. Inoltre al suo interno non era necessario concordare su tutto. Infine è sempre stata internazionale — è fiorita in Francia, in Italia, negli Usa, in Sudamerica. I suoi obiettivi erano concreti e diversi. Sotto il profilo filosofico ha contribuito al passaggio dal moderno al postmoderno. Questa rivoluzione per me non è sconfitta né tanto meno conclusa, nonostante le disillusioni e, anzi, proprio per questo. Ma è chiaro che serve mobilitare la società civile sia per ridistribuire le ricchezze sia per coinvolgere tutti in un grande impegno per l’istruzione. Altrimenti attecchiranno i populismi.
DONATELLA DI CESARE — Contro i becchini della filosofia, che vanno proclamandone ormai da tempo la fine, lei dice che la filosofia non è morta, a patto che non si riduca a puro gioco speculativo.
ÁGNES HELLER — Occorre essere cauti quando si parla di futuro, specie nel campo della filosofia. Nell’epoca postmetafisica le opere filosofiche di maggior rilievo sono state prodotte nell’ambito della fenomenologia e dell’ermeneutica. Adesso sembra quasi che il pensiero creativo si sia esaurito. Mentre i filosofi analitici non fanno che risolvere enigmi, gli storici coltivano una filosofia da museo. Tutto ciò serve a poco — come i nodi di un fazzoletto che dovrebbero ricordarci quel che non vorremmo dimenticare… Vedo però anche nella filosofia continentale, in cui mi riconosco, il rischio di un’eccessiva popolarizzazione.
La Stampa 20.5.18
La stagione della grande diseguaglianza
Ma nel “Contratto” la parola non compare
di Stefano Lepri
Indigna di più che l’amministratore delegato di una banca guadagni 90 volte lo stipendio medio dei suoi dipendenti, o che un giovane precario possa essere licenziato per un’inezia, mentre nel pubblico impiego viva tranquillo un certo numero di fannulloni?
Facile dire che il voto ai partiti populisti viene dalla rabbia verso le diseguaglianze. Proprio quando dalla crisi si comincia a uscire vengono avvertite di più: se alcuni riprendono ad avanzare, chi resta fermo si esaspera. Ma quali aspetti contano davvero? Nel contratto M5S-Lega la parola non compare; alcune delle misure previste ridurrebbero le disparità di reddito, altre, come la nuova Irpef, le accrescerebbero. Del rancore verso «quelli in alto» non sempre si capisce se sia questione di ricchezza, di potere delle cosiddette caste, di status sociale, di identità.
Tra i più convinti che il voto di protesta abbia cause economiche, non culturali, è Luigi Guiso, professore all’Eief (ex Ente Einaudi): «Riscontriamo un legame forte in tutta l’Europa Occidentale». Il suo più recente studio, con i colleghi Herrera, Morelli e Sonno, è apparso a inizio mese. «Anzi, la correlazione tra voto populista e disagio economico, misurato come esposizione alla globalizzazione e vulnerabilità finanziaria, è ancora più visibile nell’area euro; si distinguono le regioni dove la concorrenza dei Paesi emergenti ha cancellato posti di lavoro» prosegue. Ma quanto incidono quelle che chiamiamo diseguaglianze? «Difficile dirlo. Se ne creano di nuove, che sfuggono ai vecchi criteri di interpretazione; mentre i tradizionali strumenti per affrontarle non ispirano più fiducia».
Giovani contro vecchi
Nel nostro Paese però gli indici statistici segnalano che un aumento delle diseguaglianze di reddito è avvenuto negli Anni 90, prima delle nuove tecnologie, prima della globalizzazione, prima dell’euro. Durante la grande crisi e dopo, assai poco. Il dato generale, secondo un grande esperto, Andrea Brandolini della Banca d’Italia, «nasconde ampi cambiamenti nelle posizioni relative di specifici gruppi; come i lavoratori rispetto ai pensionati, e i giovani rispetto agli anziani. Da qui il senso di impoverimento e di indebolimento delle prospettive future».
Siamo diversi dagli Usa, dove lo squilibrio tra ricchi e poveri è tanto cresciuto che si parla di svuotamento della classe media. Segno particolare nostro è, secondo la Banca d’Italia, che a parità di lavoro il primo stipendio di un giovane con posto fisso sia calato del 20% nell’arco di due decenni. Le analisi non mettono a tacere opinioni divergenti. Una parte della sinistra si ostina a negare la diseguaglianza tra giovani e vecchi. La destra insiste ad attribuire all’afflusso di immigrati la pressione al ribasso sui salari, senza che ne arrivino prove statistiche.
Un dato che ha fatto notizia è l’aumento del numero dei poveri. In un Paese dove l’economia non è ancora tornata al livello pre-crisi, è potuto avvenire anche senza maggiore diseguaglianza in senso stretto; e concerne soprattutto le famiglie di immigrati. «Non per questo è meno grave. E c’è un solo filo conduttore, le politiche sbagliate degli ultimi tre decenni» obietta Fabrizio Barca, ministro nel governo Monti, uno dei promotori del «Forum delle diseguaglianze».
Le riforme che mancano
A segnalare che i nuovi poveri sono soprattutto immigrati è stato Giampaolo Galli, già direttore generale della Confindustria: «Problema prioritario è la bassa crescita dell’Italia, il reddito di oggi uguale a vent’anni fa; senza affrontarlo non risolveremo nulla»; gli sforzi vanno concentrati su riforme per dinamizzare l’apparato produttivo. «Anche con migliori risultati in termini di crescita non riusciremmo a ridurre presto i 5 milioni di poveri – ribatte Enrico Giovannini, ex presidente Istat, ministro del Lavoro nel governo Letta – e oltretutto l’Ocse mostra che troppe diseguaglianze frenano lo sviluppo».
L’Italia inoltre conserva il mai risolto divario territoriale. Nel Nord gli indici di diseguaglianza sono allineati con l’Europa, nel Sud sono più gravi. Di norma è il mercato a creare squilibri, l’intervento pubblico li tempera. Nel caso italiano, i sussidi al Mezzogiorno evidentemente non sono efficaci.
Con risorse scarse, il dilemma è: sono più urgenti da affrontare le diseguaglianze, o il collettivo declino di tutto il Paese, che perde terreno anche rispetto ai vicini europei? Le differenti scelte elettorali mostrano che nel Nord prevale la seconda risposta, nel Sud la prima. Barca e altri economisti suggeriscono: imposte patrimoniali non frenano la crescita, con il ricavato si può intervenire sulla povertà. Ma in un Paese che non cresce, il ceto medio è ansioso rispetto al principale patrimonio, la casa, perché teme di dovervi ricorrere per mantenere il tenore di vita.
M5S e Lega avevano promesso entrambi meno tasse, ma gli uni ai redditi modesti perché spendessero, i secondi ai benestanti perché investissero. L’impostazione della Lega ha prevalso, il M5S spera di temperare con il «reddito di cittadinanza».
Il Sole Domenica 20.5.18
Malattie mentali
Dalla parte dei matti
Un libro tragico e bello scritto dal padre di due schizofrenici si intreccia al ricordo di Franco Basaglia. La sua voce ci manca
Ron Powers, Chissenefrega dei matti. Il caos e lo strazio della salute mentale. Edizioni Centro Studi Erikson, Trento, pagg. 384, € 18,50
di Vittorio Lingiardi
È passata una settimana dalle commemorazioni, alcune molto belle, dei 40 anni della legge 180. Ho sentito il bisogno, fisico e politico, di tornare a Basaglia. Ore avvincenti con l’imponente volume dei suoi Scritti (curato dalla moglie Franca Ongaro Basaglia e da poco ripubblicato dal Saggiatore; prima parte 1953-1968 dedicata al fenomenologo, titoli come Il sentimento di estraneità nella malinconia, Corpo, sguardo e silenzio; seconda parte 1968-1980 dedicata al teorico della deistituzionalizzazione, titoli come Dall’apertura del manicomio alla nuova legge sull’assistenza psichiatrica, Riabilitazione e controllo sociale). E con la nuova edizione delle Conferenze brasiliane del 1979 (curate per Cortina da Franca Ongaro e Maria Grazia Giannichedda), testamento intellettuale e bilancio critico sulla psichiatria all’indomani della 180. Immersioni incandescenti e attuali, pur nell’irriconoscibile. Sofferenze che si sciolgono in speranza, altezze del pensiero che si inchinano al senso della comunità. Era “solo” 40 anni fa, ma oggi guardiamoci intorno: c’è forse una voce così?
Il mondo intero ha ammirato la nostra riforma psichiatrica, nonostante i limiti della sua realizzazione. Due anni fa, di ritorno da un convegno a Trieste, Allen Frances, emerito e decano della psichiatria americana, ha scritto sull’Huffington Post che «se Los Angeles è il peggior posto del mondo per ammalarsi, Trieste è il migliore». E così, mentre pensavo all’America e alla sua contrastata psichiatria (Szasz e i dianetici, Asylums e i DSM), il caso mi ha messo in mano un libro che mi è piaciuto. Perché, scritto bene (e ben tradotto da Gabriele Lo Iacono), racconta con passo quotidiano il modo misterioso e tragico con cui la schizofrenia attraversa le storie e la Storia. È infatti un memoir, un racconto familiare, un saggio sociale e in parte scientifico sulla malattia mentale. Ma è anche «una chiamata alle armi» rivolta a qualsiasi società «osi definirsi decente» e abbia a cuore le persone con diagnosi di schizofrenia.
L’autore è Ron Powers, non stupisce sia un Pulitzer. Il titolo originale è No one cares about crazy people. La frase, pronunciata da una funzionaria federale americana, nel titolo italiano (non felicissimo) diventa Chissenefrega dei matti. «Tutti sanno che si può fare», scrive Peppe Dell’Acqua, psichiatra, collaboratore di Basaglia, già direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste, introducendo l’edizione italiana. «Il problema è che nessuno sembra interessato a conoscere, veramente, come si può curare in un altro modo. Molte famiglie che hanno lottato con la malattia mentale, dopo aver vissuto la loro parte di oscurità, trovano alla fine una specie di speranza e di forza. Questo libro coraggioso trasmette forza, speranza e conoscenze, e chiede a noi tutti di uscire dall’indifferenza e diventare complici di tutti coloro che lottano».
Powers si era ripromesso di non scriverlo mai, questo libro. Lo aveva promesso anche a sua moglie Honoree. Ha mantenuto l’impegno per dieci anni, da quando loro figlio Kevin, musicista di talento e poco più che ventenne, si era impiccato nel seminterrato di casa, dopo aver lottato per tre anni contro la schizofrenia. Una diagnosi che afferra anche la vita del figlio maggiore, Dean. È paralizzato dal dolore, Ron Powers, ma è anche mosso dal desiderio di illuminare l’oscurità perduta del figlio, di riscattarla, come glielo dovesse, come lo dovesse a sé, alla moglie, a Dean. Ha bisogno di raccontare, studiare e ricordare. Raccoglie i testi, struggenti, delle e-mail che si scambiava con i figli, ritrova la vitalità e la rabbia. Porta la voce di una famiglia assalita dal dolore. Le cose che non aveva visto, non aveva capito. Riconoscere una malattia dai sintomi di una persona amata è molto doloroso: ci vuole confidenza col segreto e la fragilità, con la negazione e l’amore.
La schizofrenia è un disturbo e un rompicapo, una condizione su cui da sempre ci interroghiamo senza capire, fornendo risposte assai diverse tra loro, scoprendo ipotesi scientifiche, teorie cliniche e contesti istituzionali inconfrontabili. «Una patologia cerebrale cronica e incurabile», scrive l’autore. «Dovuta (o perlomeno così credono oggi i neuroscienziati) in parte a una mutazione genetica e in parte a esperienze esterne, “ambientali”». «Colpisce una persona su 100». «Un flagello, ma non è che una delle molte malattie mentali esistenti, variamente classificate e caratterizzate da durata e livello di gravità differenti».
Eppure, «anche nel novero delle numerose e devastanti diagnosi di malattia mentale», la sua capacità di «distruggere i processi mentali di tipo razionale» le offre un posto unico. «La schizofrenia sta alla salute mentale come il cancro alla salute fisica». Parole terribili pronunciate da un padre a cui la condizione schizofrenica non ha fatto sconti. Un padre che spera che non ce lo «godiamo» questo suo libro. Spera che ci addolori. Ma non dimentica di citare la recover y: concetto di guarigione intesa come condizione soggettiva di recupero e possibilità di integrazione sociale; esperimento clinico che conferma l’idea che la cura nella comunità, accompagnata da farmaci adeguati, può contribuire a restituire una vita più armoniosa e produttiva a molte persone affette dalle gravi forme della schizofrenia.
il manifesto 20.5.18
Ragioni psichiche contro la sragione del consumismo
Saggi. Per superare le dinamiche feticistiche, oggi più pervasive che ai tempi del Capitale, Romano Màdera indica una strada che deve partire dalla rivoluzione nel rapporto con sé e con gli altri: «Sconfitta e utopia», Mimesis
di Stefano Petrucciani
A due secoli dalla nascita di Marx uno dei temi del suo pensiero che suscitano ancora interesse e discussione è quello del «feticismo delle merci»: parte da qui il volume di Romano Màdera, Sconfitta e utopia Identità e feticismo attraverso Marx e Nietzsche (Mimesis, pp. 238, euro 20,00) che ripropone, arricchito con diversi nuovi materiali, il testo pubblicato nel 1977 col titolo Identità e feticismo, importante nella discussione di quell’epoca.
Tornando oggi su questi temi, Màdera traccia un bilancio delle geniali intuizioni marxiane che si lascia compendiare in questa secca frase: «una perfetta diagnosi, una mediocre prognosi, una terapia inconsistente».
Ora, la diagnosi marxiana centrata sul tema del feticismo appare a Màdera come la parte migliore, e non caduca, della eredità del pensatore di Treviri. Anzi, si direbbe che sia proprio il Marx del feticismo quello più compiutamente inverato nell’epoca del capitalismo globale: una «forma di civiltà» – secondo Màdera – dove tutto ruota intorno all’accumulazione economica, «nel senso che a immagine di questa si strutturano i rapporti di potere, le relazioni tra le persone, la psicologia collettiva, i valori, gli ideali, i simboli (compresa la nuova religione secolarizzata del denaro da moltiplicare, autentica divinità del nostro tempo)».
Come osserva David Harvey in un bel volume appena pubblicato da Feltrinelli, Marx e la follia del capitale (Feltrinelli, pp. 240,euro 22,00) il punto decisivo messo a fuoco dal filosofo di Treviri è la visualizzazione del capitale come valore in movimento; un processo che tocca il suo apice nel capitale produttivo di interesse, dove il feticismo raggiunge il suo culmine in quanto al capitale sembra appartenere il misterioso potere di autovalorizzarsi.
Verso un’altra strategia
Certamente, il fine di tutta la ricerca di Marx era proprio quello di dissipare questa apparenza feticistica, mostrando come la fonte occulta della valorizzazione del capitale non potesse essere altro se non lo sfruttamento del lavoro. Ma ancora oggi, a un secolo e mezzo dalla pubblicazione del Capitale, il feticismo, inveratosi nel consumismo e nella società dello spettacolo, costituisce una sorta di orizzonte onnicomprensivo del nostro mondo vitale, più pervasivo di quanto Marx non avesse potuto prevedere.
«Entro le coordinate del capitalismo globale – scrive infatti Màdera – la tendenza a consumare si accoppia con quella a spettacolarizzare ogni aspetto della vita (come aveva cominciato a teorizzarla Debord), sia perché attraverso lo spettacolo la tendenza al consumo colonizza un’altra rilevante parte della vita, mettendo al lavoro il tempo di non-lavoro, sia perché lo spettacolo (…) tende a sganciare il valore di scambio da un uso qualsiasi, ampliando la scala dello scambio a ogni virtualità immaginabile e, parallelamente, vendendo il necessario non per le sua qualità intrinseche, ma per l’aura che la sua presentazione riesce a evocare». Insomma, da un lato si afferma senza residui il primato del valore di scambio sul valore d’uso, dall’altro la sostanza di questo valore di scambio svapora anch’essa lasciando sussistere solo la sua natura immaginaria e spettacolare.
La lezione di Jung
Ma se Marx si è inverato così bene, dove sta il problema? Paradossalmente, sta nel fatto che aveva troppo ragione: se le dinamiche feticistiche sono ancora più pervasive di quanto a Marx non fossero apparse, allora la conclusione che Màdera trae è che dal filosofo di Treviri non si ricava tanto una teoria del necessario rovesciamento del capitalismo, quanto una visione della sua insuperabilità. O meglio, della sua insuperabilità finché si resta sul terreno di una contestazione economico-politica degli assetti vigenti.
La strada del cambiamento passerà, allora, da un’altra parte: da una rivoluzione che deve investire innanzitutto il rapporto con se stessi e con gli altri. Il contributo della psicoanalisi junghiana si combina – nel testo di Màdera – con quello della ricerca spirituale intesa nel senso più ampio, aperta a ciò che si può imparare dalle grandi religioni, dalla spiritualità buddhista, dalla pratica classica degli esercizi spirituali. E così, per il filosofo-psicanalista, l’auto-trasformazione di noi stessi diventa «la continuazione della politica con altri mezzi».
il manifesto 20.5.18
Anche gli spiccioli generano filosofia
Saggi. Per John Searle i soldi non hanno valore in sé ma grazie alla intenzionalità del contesto sociale. Per Maurizio Ferraris, invece, la moneta è «un documento accessibile anche agli analfabeti»
di Marco Mazzeo
Gli spiccioli che abbiamo in tasca costituiscono un oggetto filosofico. Sono protagonisti dei nostri comportamenti quotidiani, eppure denunciano un enigma antropologico. Come è possibile che qualche grammo di metallo sia in grado di condannarci alla fame o sottrarci all’inedia? Questo è l’interrogativo del quale discutono due tra i più noti filosofi contemporanei, John Searle e Maurizio Ferraris in Il denaro e i suoi inganni (Einaudi, pp. 126, euro 12,00) mettendo in scena un dibattito vivace in un volume agile e comprensibile anche ai non filosofi.
Searle legge il denaro attraverso una delle sue nozioni cardine, la «funzione di status». Il denaro non ha valore in sé, come vorrebbe il feticista accumulatore, la sua importanza è dettata, piuttosto, dal contesto sociale. Come il governo e il matrimonio, anche il denaro è una istituzione dipendente dalla comunità che gli riconosce una funzione. A prescindere dal tipo di moneta, ribadisce il filosofo americano, denaro e funzione di status traggono la propria forza dalla mente umana: il denaro trova uso perché questa è l’intenzione e la volontà di chi lo impiega. Pur riconoscendo l’utilità del denaro, Searle si concentra sugli inganni monetari legati alle sue forme più recenti. Oggi più che mai, la funzione di status tenderebbe a divenire una finzione che porta alla frode e al disastro economico.
Ferraris, invece, parte da un diverso punto di vista. A un primo sguardo potrà anche sembrare che le istituzioni umane si basino sulle intenzioni di chi vi partecipa. Ma se si va più a fondo, si scopre che anche il denaro si basa su quel che Ferraris chiama ormai da tempo «documentalità». Le istituzioni sarebbero sorrette non dalle intenzioni di chi le fonda ma dalla memoria pratica dei loro utenti. Il rito e la moneta sono forme mnemoniche, ma non perché dotate di una struttura che porta al ricordo della loro funzione originaria o dell’intenzione del proprio costruttore.
Anche il denaro è un documento perché, come lo smartphone, spinge i suoi utenti a comportarsi secondo strategie delle quali, spesso, non hanno cognizione né consapevolezza. Per questo motivo, il denaro viene definito «un documento accessibile anche agli analfabeti»: non un inganno, ma un enigma prodotto dal potere mistico esercitato da ogni forma tecnologica e documentale.
Al di là della differenza di posizioni, i due filosofi procedono su una strada comune, riducendo il denaro al loro impianto teorico generale. Di fronte alle sfide poste dalla moneta, né Searle né Ferraris sembrano disposti a mettere in gioco qualche elemento di fondo delle rispettive posizioni. Il primo riporta il denaro all’intenzionalità, il secondo al documento: una scelta che vanta il pregio della coerenza; ma al tempo stesso corre il rischio di una controindicazione.
Il volume si limita a sfiorare quella che appare la caratteristica specifica del denaro sia allo sguardo superficiale di chi fa la spesa (l’intuizione del senso comune sulla quale lavora Searle) sia per molta riflessione antropologica sulla tecnica (la via percorsa da Ferraris). A differenza del matrimonio o degli scacchi, infatti, il denaro sembra essere una istituzione legata al mondo della produzione e, da un paio di secoli, alla sfera del lavoro salariato.
Il filosofo statunitense si limita a parlare di «denaro merce» in termini generici, come forma primitiva che sostituisce il baratto; il filosofo italiano preferisce soffermarsi sul rapporto tra denaro, autorità e innovazione tecnologica. I due autori concordano sull’idea che vi sia un legame stretto tra denaro e dominio ma non indagano, magari per confutarlo, il rapporto tra produzione della vita e uso della moneta. Ecco, forse, un punto nevralgico sul quale tornare a discutere: non sarà, invece, proprio una simile rinuncia a farci percepire quel tintinnio nelle tasche come il monito inscalfibile del profeta?
il manifesto 20.5.18
Il lessico ragionato di un paranoico
Dal «tormentato caso umano del dottor Minor» alla genesi dell’Oxford English Dictionary, una vicenda paradigmatica: «Il professore e il pazzo» di Simon Winchester, da Adelphi
James Augustus Henry Murray con lo staff dell’Oxford English Dictionary
di Luca Crescenzi
Una classica tesi, avanzata ormai quasi quarant’anni fa dal grande storico Reinhart Koselleck, vede nell’Ottocento il secolo della velocizzazione, della definitiva uscita dell’umanità occidentale dall’ordine di un’esistenza regolata dalla natura e dai suoi immutabili ritmi: la successione di giorno e notte, l’alternanza delle stagioni, i cicli lunari. Le masse accolte in misura crescente da metropoli piccole e grandi abbandonarono una volta per sempre le forme di vita ereditate dai loro avi e condivise ancora fino a poco tempo prima da una civiltà prevalentemente legata alla terra, la tecnica assecondò e favorì le necessarie trasformazioni e le ultime esplorazioni della storia restituirono del mondo un’immagine ristretta e affollata, chiusa e priva di romanticismo, in cui le realtà del pericolo e dell’avventura avevano perduto il loro antico fascino e, nel peggiore dei casi, potevano proporsi solo nelcontesto, sempre più tecnologico anch’esso, della guerra.
Sorprendenti cortocircuiti
Ernst Jünger, in quel capolavoro d’ironia che è il romanzo Giochi africani, poté racchiudere poco più tardi il significato del suo tentativo di fuga nella legione straniera in una sola frase del suo disilluso legionario Benoit: «Vai fino alla fine del mondo e alla fine scopri che ovunque c’è già stato qualcuno». L’avvicinamento all’ignoto si ritira nella dimensione dell’interiorità, là dove è ancora possibile incontrare il silenzio e la solitudine. E per reazione a un’esistenza generalmente uniformata e intensificata cominciano a svilupparsi forme di vita contemplativa e isolata in cui si producono sorprendenti cortocircuiti che rendono indistinguibili i confini fra luoghi un tempo lontanissimi. Accade, in questo momento, che un carcere, un manicomio, un laboratorio scientifico o una biblioteca possano diventare per poco o molto tempo una sola identica cosa.
La storia che Simon Winchester racconta in Il professore e il pazzo (traduzione di Maria Cristina Leardini, Adelphi, pp. 262,
Il proposito dichiarato del libro di Winchester risponde, in effetti, a un progetto ambizioso, ma non nuovo: cogliere, attraverso il «tormentato caso umano del dottor Minor», la possibilità di «osservare la storia più grande e ancor più affascinante della lessicografia inglese», ovvero riscrivere questa storia a partire da una vicenda strana e vagamente noir capace di renderla interessante per un pubblico non necessariamente attratto dalle sue lunghe e tortuose vie.
A questo scopo la storia di Minor, inseparabile da quella di James Murray che fu l’anima del dizionario di Oxford, possiede la stessa efficacia che già ebbe nel momento in cui uscì per la prima volta nel 1915.
Il gusto della digressione
La cronaca vuole infatti che uno dei più efficienti e produttivi collaboratori del dizionario (che per venire al mondo ebbe bisogno della collaborazione di moltissimi ricercatori dilettanti o esperti reclutati in maniera alquanto empirica dai professori di Oxford), uno dei più acuti corrispondenti e interlocutori in materia di lessicografia del leggendario Murray fosse un medico americano a riposo, costretto nel manicomio di St. Elizabeth a Crowthorne, a causa di un omicidio commesso poco dopo il suo arrivo a Londra e perseguitato da fantasie paranoiche che non lo avrebbero lasciato per tutta la vita.
Il racconto di questa storia si eleva ben al di sopra e al di là della narrazione aneddotica, grazie alla capacità di Winchester di intrecciarla a una ricostruzione storica di ampio respiro che unisce la rappresentazione della periferia londinese di fine ottocento agli orrori della guerra di secessione americana, le vicende della Philological Society di Londra alle storie personali di vari umiliati e offesi della modernità o la vita di Samuel Johnson alla descrizione delle regole di detenzione nei manicomi inglesi in un disegno unitario, mai eccessivo e, bisogna ammettere, tenuto sotto controllo da un’abilissima capacità costruttiva.
La densità è tale che si vorrebbe concedere a Winchester il beneficio di divagazioni più ampie. Ad esempio viene da considerare che la storia di Minor è efficace e, per certi versi, perfino commovente o traumatica: ma che dire di quella di Fitzedward Hall, altro grandissimo collaboratore americano del dizionario – cui Winchester è costretto a dedicare poche righe – il quale spedito dalla famiglia a Calcutta in cerca di un fratello poco prima di entrare a Harvard, sopravvive al naufragio della sua nave, inizia a studiare il sanscrito con tale successo da ricevere l’offerta di una cattedra all’università di Benares, combatte con gli inglesi durante la rivolta dei sepoy e approda infine a Londra, al King’s College e all’incarico di bibliotecario presso il ministero dell’India, solo per dimettersi da entrambe le incombenze poco dopo e ritirarsi per motivi misteriosi in uno sperduto villaggio del Suffolk a seguito di una furiosa lite con un altro sanscritista austriaco di nome Theodor Goldstücker? Sembra che gli insospettabili lessicografi offrano a ogni piè sospinto trame da romanzo.
Il rischio, in questa molteplicità di oggetti della narrazione di Winchester, è casomai quello di perdere di vista quello che dovrebbe essere il tema del libro, cioè la storia del dizionario di Oxford. Ma il guadagno premia la perdita. Sono infatti gli accostamenti inaspettati del racconto a suggerire la necessità di riesplorare i luoghi dell’isolamento ottocenteschi.
Negli spazi della inazione
Come dimostrano le tesi di Koselleck, ci siamo attardati a considerare l’Ottocento solo alla luce dei suoi aspetti più macroscopici, dei suoi miti (primo fra tutti quello del progresso) o di quei risultati che ancora condizionano le nostre vite: la velocità, la tecnica, la metropoli, la massa. E di conseguenza consideriamo ancora troppo poco quanto, il XIX secolo, sia popolato da una schiera di personaggi ritirati negli interstizi dell’inazione, dell’ascesi, dell’erudizione, del puro e semplice pensiero.
Anche Minor, come Fitzedward, è un ex soldato, portato alla follia, forse, dall’esperienza della guerra. E anche lui riesce a trovare scampo dalla storia solo nel confronto con la realtà silenziosa dei libri. Dalla sua ritirata solitudine scaturisce il grande dizionario; ma mille altre solitudini più libere della sua – quella di Nietzsche è forse solo la più famosa – hanno dato al nostro tempo la sua visione del mondo. Per questo dovremmo forse considerare anche i luoghi della reclusione forzata e della segregazione come il rifugio di alcuni. E restituire la parola ai Benoit del XIX secolo, che come l’idealista disincantato di Jünger potrebbero dire: «Ho passato mesi negli ospedali e nelle prigioni. Ho conosciuto il cafard e la noia. Ma a quel tempo non sapevo che si possono tappezzare i muri coi pensieri. Per me non ci sono più prigioni».
il manifesto 20.5.18
Michel Foucault
Vite incarnate e ribelli alle regole della tecnica e alle norme di un’epoca
Saggi. "Da dentro" di Sandro Chignola per Derive Approdi
di Carmelo Colangelo
Di cosa parliamo quando parliamo di «potere»? C’è qualcosa che vi resiste e, resistendovi, permette di scorgerne meglio le forme? In quali modi la marginalizzazione dello Stato-Nazione e l’avvento della globalizzazione trasformano sia l’esercizio del potere che le azioni che vi si oppongono? Sono alcune delle questioni che attraversano il volume di Sandro Chignola Da dentro Biopolitica, bioeconomia, Italian Theory (DeriveApprodi, pp. 191, € 17,00) dove la posta in gioco è individuare le tendenze che possono favorire l’emanciparsi dalla prevaricazione che, in modo ora manifesto, ora strisciante, connota le odierne forme di accumulazione postindustriale e finanziaria.
Studioso addestrato alla storia dei concetti, ma anche esperto lettore dell’opera di Michel Foucault (il filosofo più convocato nel libro, e per «ragionare con Marx oltre Marx»), Chignola considera che nella configurazione corrente della società capitalistica la differenza tra tempo della vita e tempo del lavoro è divenuta sempre più tenue: l’estrazione di valore avviene ormai facendo leva sulla plasticità stessa dei processi che definiscono l’uomo in quanto vivente, le sue caratteristiche di indeterminazione e di flessibilità cognitiva come le sue generali capacità linguistiche e relazionali. Ciò che con il superamento della fase industrialistica del capitalismo è stato messo al lavoro è la vita come tale, inscritta in cicli produttivi permanenti grazie a tecnologie capaci di scomporla in flussi informativi che tracciano stili di consumo e modi del comportamento.
Gli «algoritmi setacciano, estraggono, incrociano, accumulano e confrontano i dati nei quali il vivente, ritrascritto a partire dalla mobilità dei suoi desideri, delle sue opzioni, delle posizioni che lo localizzano, viene scomposto e provvisoriamente riassemblato come una sequenza di bit». Così si può dire che se la realtà della fabbrica è in via di sparizione, è perché la società stessa va assumendo la fisionomia di una fabbrica – fabbrica immane, in perpetuo movimento, capace di sussumere i soggetti ben oltre ritmi e misure della giornata lavorativa.
Chignola scrive pagine rilevanti sulle dinamiche che accompagnano questo processo, lo rendono possibile o lo rilanciano.
i grande interesse sono in particolare l’esame della cosiddetta governance (letta come modalità di risposta preventiva all’eventualità dell’insubordinazione), le analisi sul senso e gli effetti delle biotecnologie (sequenziazione del genoma, medicalizzazione della vita), le osservazioni sulla trasformazione dei modi della penalità (il business imprenditoriale delle carceri private). Ma il punto essenziale su cui il libro insiste – ricorrendo a un modulo teorico d’ispirazione post-operaista – è l’urgenza di riconoscere che il processo attraverso cui il potere investe la vita e pare dominarla può renderci più consapevoli del fatto che la vita stessa è un potere, e un potere di resistenza, mai interamente dominabile dalle tecniche tendenti a catturarla.
Polemizzando senz’altro con quello che definisce il nucleo «vittimario» della proposta filosofica di Giorgio Agamben, e richiamandosi piuttosto alla riflessione di Toni Negri, Chignola invita così a considerare che le esistenze incarnate sono capaci di quotidiane pratiche di liberazione dalle forme che pretenderebbero di regolarle. Contro quanti ritengono che le soggettività siano irrimediabilmente irretite dal potere, Da dentro analizza così la loro capacità di piegare altrimenti le norme di un’epoca e di riconnettere diversamente le forze in campo.
il manifesto 20.5.18
«Via la legge 194»: movimenti pro vita contro l’aborto
Corteo a Roma. Il sostegno di un pezzo di «governo del cambiamento», con i leghisti Giorgetti e Fontana. La sociologa Serughetti: «Più pericolosi perché ormai usano il linguaggio dei diritti umani». Ma da sindacati e associazioni un appello in difesa dei diritti della donna
di Antonio Sciotto
Abrogare la legge 194 sull’aborto, e nell’attesa revocare tutti i fondi che permettono alle donne di accedere alla ospedalizzazione gratuita: la Marcia per la vita ieri ha sfilato a Roma, con preti, suore, vescovi e cardinali, a reclamare una decisa inversione di rotta a pochi giorni dai 40 anni della 194, il compleanno è il 22 maggio. Con loro i combattivi Citizen go – che qualche giorno fa hanno tappezzato di manifesti la Capitale: «aborto prima causa di femminicidio» – ma soprattutto politici di peso. Non solo lo scontato Mario Adinolfi, e l’assidua Giorgia Meloni, ma hanno aderito anche due importanti leghisti: il vicepresidente della Camera Lorenzo Fontana e Giancarlo Giorgetti, tra i candidati premier del Governo del Cambiamento.
CON IL CAMBIO DI QUADRO dopo le elezioni, e la nuova possibile maggioranza Cinquestelle-Lega, insomma questi movimenti rischiano di uscire dalla nicchia di ultras cattolici e di influenzare le decisioni politiche dei prossimi anni. Le tesi restano sempre estreme, ma il linguaggio, come nota la sociologa dell’Università di Milano Bicocca Giorgia Serughetti, «si è raffinato per conquistare un pubblico più largo, facendo prima di tutto ricorso alla stessa terminologia dei diritti umani». «Basti pensare – spiega la studiosa – al manifesto affisso a Roma, “aborto prima causa di femminicidio”: ricorre a un termine che ha oggi larga fortuna, e si appoggia strumentalmente alle giuste campagne contro gli aborti imposti in alcuni paesi dove si vuole la nascita di soli maschi».
Il manifestino è stato distribuito in 500 copie alla Marcia per la vita, con gli attivisti di Citizen go che annunciano «l’apertura di una grande stagione di convegni ed eventi territoriali in tutta Italia – definita Operazione Rinascita – per raccontare la verità sull’aborto e sulla Vita nascente, sugli effetti devastanti per la salute delle donne e della stessa tenuta demografica, sociale ed economica dell’Italia. Verrà il giorno – spiega il portavoce Filippo Savarese – in cui ci chiederemo come si sia potuto rendere legale l’aborto allo stesso modo di come ci chiediamo come siano stati possibili i lager e i gulag».
INTANTO TRA I I PRETI IN gruppo come in un film degli anni Cinquanta e le suore in abito grigio e blu si sprecano i cartelli di accusa contro l’«omicidio di Stato», sia alla nascita che in punto di morte: «In 40 anni di 194 ci sono state 6 milioni di vittime», «Aborto ed eutanasia la vita portano via», «Sì alle cure no all’eutanasia». In piazza anche l’associazione Amici di Alfie Evans, il piccolo inglese il cui fine vita recentemente ha rappresentato un caso internazionale. Al fianco dei manifestanti, porporati come il vescovo Luigi Negri e il cardinale Raymond Burke.
Tra le testimonianze palco, quella di Margherita, pentita per aver deciso di non far nascere il figlio con sindrome di Down. E la madre del francese Vincent Lambert, tetraplegico, che ha raccontato il conflitto tra famiglia e Stato sulla malattia terminale del figlio: l’ospedale ha disposto che venga sospesa la nutrizione, lei si oppone. Si accusa chi ricorre alla 194 di fare «eugenetica» e «infanticidio con fondi pubblici», esaltando i medici obiettori.
SULL’ALTRO FRONTE, A DIFESA della legge 194, donne e intellettuali di politica, sindacati e associazioni hanno scritto alle parlamentari dell’attuale legislatura la lettera «Le donne sono qui». «Vogliamo celebrare con voi, che siate d’accordo o no – si legge nel testo – i 40 anni della legge che ha dato alle donne il diritto di dire la prima e l’ultima parola sul proprio corpo». Le promotrici si pronunciano contro i «reiterati attacchi alla 194 e alla sua applicazione», sostenendo che «non ci può fare paura l’oscena propaganda che si sta scatenando in questi giorni contro questa legge, che pretende di mostrare le donne come assassine». «È la nostra libertà – concludono – a fare paura».
«Probabilmente la 194 non è a rischio in sé – conclude la sociologa Giorgia Serughetti – ma c’è un movimento culturale sempre più forte e insidioso che cerca di depotenziarla e smontarla dall’interno. Ad esempio reclamando figure che negli ospedali spieghino alle donne i possibili danni di un aborto: informazione che già la legge assicura nel modo corretto, in realtà. E non utilizzano più solo l’argomento del danno al nascituro, ma – come è avvenuto in un convegno dei Provita fatto in aprile con Lega e Fdi al Senato – adesso si concentrano sui possibili danni fisici e psichici per le donne. Così si conquistano sempre più vaste fasce di pubblico».
il manifesto 20.5.18
La rivolta del popolo “sfarinato” delle periferie
Dopo il 4 marzo. Presentata la ricerca del Cantiere delle Idee sulle istanze sociali e il rapporto con la politica nelle periferie. Marco Revelli: "Alla domanda su chi sei, il popolo ha risposto: 'Non sai chi sono, perché non sono'. C'è una molteplicità di 'io' ma non un 'noi'". E Carlo Freccero: "E' un popolo 'sfarinato' che non riesce a organizzarsi contro il potere vero, che è quello economico".
di Riccardo Chiari
FIRENZE Sarebbe piaciuto a Valentino Parlato l’approccio metodologico – 50 interviste nei quartieri popolari di Milano, Roma. Firenze e Cosenza – del “Cantiere delle Idee”. Una ricerca coordinata da Carlotta Caciagli, Loris Caruso, Riccardo Chesta, Lorenzo Cini e Niccolò Bertuzzi, e realizzata a Roma con l’aiuto di Altramente-Scuola, della quale la giovanissima Caciagli spiega la genesi: “Siamo ricercatori e attivisti, impegnati su vari fronti politici in senso lato ma comunque a sinistra, e siamo andati a parlare con 50 residenti in quartieri periferici. Le interviste hanno riguardato sia l’aspetto sociale, i problemi e i disagi di ognuno, che l’aspetto politico, e cioè il loro rapporto con la ‘governance’, intesa come classe dirigente, e il rapporto con la politica, intesa come azione collettiva”.
Da ricercatori e ricercatrici, precari, che intervistano italiani precari, cosa è emerso? “Sul piano sociale un forte disagio, dovuto alla mancanza di una progettualità della governance sui servizi pubblici e sociali, sul governo del territorio, e sulle altre condizioni che possono favorire la nascita di un tessuto civile. Si sentono in balia degli eventi, e così si scagliano contro i ‘privilegiati’, che loro individuano nei politici, e negli immigrati. Non nei potentati economici”.
Sul fronte politico, è stata invece riscontrata non la presenza dell’anti-politica, quanto dell’anti-classe-politica: “C’è la richiesta, forte, che qualcuno prenda in carico le loro istanze. Che le istituzioni siano presenti e si diano da fare. Mentre, pur riconoscendo la loro condizione di sfruttati, se la prendono con i ‘ricchi’ ma non mettono in discussione il sistema economico. E nemmeno la delega: ci raccontano che, non arrivando a fine mese, non possono farsi agenti del cambiamento. Qualcuno deve farlo per loro”.
Ad analizzare i risultati e cercare una chiave di lettura, intellettuali e attivisti come Marco Revelli, Carlo Freccero, Vincenzo Vita, Massimo Torelli, Tommaso Fattori, Monica Di Sisto e Roberto Musacchio. “Gli esiti della ricerca – osserva Revelli – danno ragione ai suoi obiettivi di partenza, cioè che avessimo alle spalle un cambiamento radicale, io la chiamo ‘apocalisse’, culturale, politico e sociale, che rendeva obsolete le nostre risposte. E che non sapessimo più cosa è ‘il popolo’. Quanto alle risposte, la foto che emerge dalle interviste è quella di un’esplosione delle forme e delle culture politiche del ‘900. Alla domanda su chi sei, il popolo ha risposto: ‘Non sai chi sono, perché non sono’. C’è una molteplicità di ‘io’ ma non un ‘noi’. Solo in contrapposizione con l’altro, siano gli immigrati o la classe politica, si costituisce un effimero ‘noi’. Il governo che sembra star per nascere è, per molti versi, corrispondente alla foto. Corrisponde, ma non risponde”.
Per Carlo Freccero “abbiamo una moltitudine di popolo ‘sfarinato’, che è stato in grado di esercitare una reazione violenta contro quello che ritiene essere l’establishment. Ma già in partenza si tratta di un reazione manipolata, perché il ‘popolo sfarinato’ non riesce a organizzarsi contro il potere vero, che è quello economico”. Mentre Massimo Torelli chiama il Cantiere delle Idee ad un ulteriore lavoro di approfondimento, dedicato stavolta all’Italia dei mille municipi. “La provincia italiana sta votando sempre più in reazione al ‘centro’, perché pensa che lì ci sia la ricchezza, mentre il resto è una gigantesca periferia. Ecco così che la Toscana profonda, l’Umbria profonda, votano in reazione all’establishment dei capoluoghi”.
Tommaso Fattori tira le somme: “Questo è un lavoro sulle precondizioni, su cosa pensano e cosa vogliono le classi popolari. L’obiettivo è costruire una strumentazione adeguata a spiegare i tempi nuovi. Una ‘cassetta degli attrezzi’. Un tentativo analogo era già stato fatto, ma da parte accademica si riteneva, sbagliando, che sarebbe stata sufficiente la ‘cassetta’ vecchia. Invece è necessario affinare strumenti concettuali nuovi. Perché se prima non hai chiara la complessità dell’oggi, e analizzi le trasformazioni per poi ‘costruire’ delle idee utili, non puoi fare azione politica all’altezza, né tanto meno un progetto politico complessivo”.
Il Fatto 20.5.18
I Dem e la loro base elettorale vanno in direzioni opposte
di Carlo Trigilia
Assistiamo a una grave crisi di rappresentanza che riguarda i rapporti del Pd con i gruppi sociali e i territori dove è più forte e più cresciuto il disagio sociale, e che dovrebbero avere nel principale partito del centrosinistra il loro referente. Come è potuto accadere?
Scarterei spiegazioni che tendono a sottovalutare la crisi di rappresentanza. Una di queste si limita a sottolineare che in Italia si sia semplicemente manifestata una tendenza già presente in altri Paesi europei: l’indebolimento dei principali partiti socialdemocratici, che perdono quote significative della loro base elettorale tradizionale (soprattutto operai e nuovi salariati dei servizi) a favore delle nuove formazioni di critica radicale al sistema politico. La tendenza si manifesta anche da noi, ma non sembra in grado di spiegare da sola la rapidità e la portata della crisi di rappresentanza del Pd. Non solo i principali partiti socialisti europei, con l’eccezione della Francia, non si sono indeboliti in modo paragonabile, ma nella loro base restano ancora componenti ben più elevate di operai e di salariati dei servizi, e anche di nuovi ceti medi, specie di quelli dipendenti più legati al settore pubblico.
Nella tornata elettorale del 2013 si manifesta un calo dei votanti del Pd legati alla base tradizionale del partito, in particolare salariati dell’industria e dei servizi. È probabile che soprattutto nei mesi precedenti alle elezioni, caratterizzati dagli interventi di emergenza del governo Monti, sia cresciuto il malcontento. Il nodo forse più rilevante è costituito dall’intervento drastico sul sistema pensionistico (la legge Fornero). Può essere utile il confronto con un’altra grave fase di emergenza finanziaria, quella della prima metà degli anni Novanta, con gli interventi intrapresi dai governi, anch’essi “tecnici”, di Amato e Ciampi. In quell’occasione prese forma una manovra pesantissima, con inasprimenti fiscali e compressione dei salari che fu però condivisa e negoziata con le organizzazioni sindacali. Le più drastiche misure prese dal governo Monti non vedono invece il coinvolgimento e l’accordo delle organizzazioni sindacali, mentre il Pd sostiene il governo e le sue proposte. In questo caso, dunque, i costi percepiti dai lavoratori dipendenti, salariati e impiegati, sono probabilmente apparsi non solo elevati, data la sensibilità al tema delle pensioni, ma anche non efficacemente negoziati dal partito che avrebbe dovuto rappresentare i loro interessi e che sosteneva il governo dall’esterno.
Nella legislatura che si apre nel 2013 e si conclude con le elezioni del 4 marzo il problema non solo non viene affrontato, ma sembra aggravarsi. A pochi mesi dall’insediamento della compagine governativa, con Matteo Renzi il Pd coglie un importante successo alle elezioni Europee superando gli undici milioni di voti: un risultato che si può leggere come una larga apertura di credito al giovane leader che mostra impazienza nei riguardi degli equilibri e delle liturgie interni al partito e manifesta forte determinazione a realizzare senza indugi le riforme capaci di imprimere una svolta al Paese. La parola chiave è “rottamazione”: la promessa di Renzi di liberare il partito dalla vecchia classe dirigente che lo bloccava. Il successo alle elezioni del 2014 è probabilmente il segno che questa prospettiva critica e polemica e l’impegno a favore delle primarie come strumento per formare una nuova classe dirigente incontra il favore di una vasta area dell’elettorato. La nuova leadership del Pd sembra dunque avere inizialmente successo proprio perché promette di affrontare i problemi di rappresentanza che investono il partito e insieme di allargarsi fuori dal perimetro tradizionale d’influenza.
Tuttavia, la strategia di affermazione all’interno del partito condizionerà anche le politiche condotte dal governo e le modalità di relazione con l’elettorato. La linea seguita per rafforzarsi all’interno si può definire di tipo maggioritario, avversa a intese e a compromessi tra le varie componenti (i “caminetti”). Le leadership si formano attraverso le primarie, sono dunque decise dall’elettorato con una forte personalizzazione che ne legittima il ruolo. Il leader, una volta scelto, deve poter decidere senza intralci.
Questa nuova prospettiva allontana anche il Pd dai modelli organizzativi prevalenti tra i grandi partiti socialdemocratici europei (con l’eccezione della Francia), che non utilizzano le primarie “aperte” e continuano a valorizzare il ruolo organizzativo del partito. Il nuovo modello che si prospetta guarda più al Partito democratico americano. Non a caso al modello di democrazia maggioritaria si ispira anche il disegno di riforma costituzionale proposto da Renzi e il correlato costituito dalla legge elettorale (Italicum), poi bocciata dalla Corte Costituzionale.
La democrazia maggioritaria configura una modalità di economia di mercato in cui il dinamismo convive con maggiori disuguaglianze sociali. Un modello molto diverso da quello adottato dalle democrazie negoziate o concertate nelle quali si muovono i principali partiti socialdemocratici sperimentando appunto pratiche di concertazione delle politiche con le organizzazioni di rappresentanza del mondo del lavoro e delle imprese.
Se il partito deve essere guidato in una prospettiva maggioritaria, non c’è spazio per negoziazioni e compromessi con un’area interna che è tradizionalmente più vicina alla rappresentanza di gruppi sociali e territori più disagiati, e che in genere è anche più legata alle organizzazioni sindacali (in particolare alla Cgil).
Accanto a rottamazione l’altra parola chiave è dunque “disintermediazione”: anche a livello di governo occorre puntare a un drastico ridimensionamento della negoziazione delle politiche con le organizzazioni di rappresentanza degli interessi. La “disintermediazione” ha contribuito a isolare il governo dalle domande di protezione sociale provenienti dai gruppi sociali e dai territori più disagiati. E l’attenzione negata si è presto trasformata, per alcune parti dell’elettorato del partito, come la classe operaia tradizionale, in aperta ostilità, specie in occasione di provvedimenti come il Jobs Act.
Quanto al consenso per il Pd, esso va cercato appunto in un’ottica maggioritaria, puntando ad attrarre non solo gli imprenditori, ma anche settori del ceto medio tradizionalmente più interessati a Berlusconi e Lega. Una volta ripartito lo sviluppo, sarà poi possibile ricostruire e rinsaldare un rapporto anche con settori del tradizionale elettorato di sinistra scontenti delle politiche del Pd al governo, ma che è necessario al momento contenere con la disintermediazione proprio per far ripartire la crescita. Così, sul terreno dello sviluppo, il governo a guida Pd è parso affidarsi al motore dell’industria del Nord come traino per portare il Paese fuori dalla crisi, sostenendolo con interventi centrati sulla creazione di condizioni più favorevoli dal lato del mercato del lavoro e del costo del lavoro, ma anche con misure di sostegno agli investimenti.
Da tutto questo è risultata una crisi di rappresentanza di grande portata che colpisce il Pd e con esso il tentativo di costruire un partito capace di legare insieme i ceti più dinamici e innovativi ma anche quelli più deboli in un disegno condiviso. Non è solo un problema per il Pd, ma per la democrazia italiana e per la sua capacità di rafforzarsi coniugando sviluppo e coesione sociale.
Il Fatto 20.5,18
Fischi, rabbia e ribellioni: il Pd non decide e implode
L’Assemblea approva un documento di mediazione che rinvia tutto di un mese: 221 i contrari. Martina resta reggente, Renzi se ne va senza parlare
di Wanda Marra
Non decidere: alla fine di una giornata convulsa e sbrindellata, l’Assemblea del Pd raggiunge quest’obiettivo. Traduzione per i non appassionati di Pd: dopo i ballottaggi delle amministrative ci sarà un’altra Assemblea che dovrebbe far partire il congresso in autunno o forse all’inizio del 2019 (con quale guida del frattempo? chissà); Martina rimane reggente (cioè un mezzo-segretario); Renzi conferma le “dimissioni irrevocabili”, ma nel vuoto di potere formale resta segretario ombra. L’Assemblea di ieri certifica un dato, anzi due. Uno: nessuno sa chi ha la maggioranza. Due: il partito – a forza di non decidere – è imploso tra ribellioni, rabbia, sfoghi.
Ore 11 e 15. L’Assemblea sarebbe convocata alle 10 e 30, ma la trattativa è in corso. Girano due documenti: uno dei renziani, che chiedono il congresso in autunno, con il partito gestito da Matteo Orfini. L’altro che vuole eleggere Martina segretario fino al congresso, entro l’anno. All’entrata dell’hotel Ergife si materializza Simona Malpezzi, senatrice “premiata” da Renzi con ben 6 pluricandidature, trolley rosso e tacchi a spillo. Sepolta dalle telecamere.
Ore 11 e 50. Le note dell’Inno nazionale aprono la riunione. Gentiloni, Minniti, Orlando, Martina, Franceschini, Boschi cantano stralunati. Le telecamere a circuito chiuso inquadrano Renzi sui versi “Siam pronti alla morte”.
Ore 12. Orfini illustra un documento, sul quale c’è l’accordo dei big per modificare l’ordine del giorno. Non parlare del segretario, ma della situazione politica. La platea fischia. “Anche basta”, dice lui, in versione capoclasse: 397 sì, 221 no, 6 astenuti. I big alzano le deleghe, tra i no i seguaci di Andrea Orlando.
Ore 12 e 15. Caccia al ribelle. Chi ha votato no, contravvenendo alle indicazioni di tutto il gruppo dirigente? “Sono state le anime calde delle varie tifoserie, visto che l’accordo è arrivato tardi”, dice un alto dirigente dem. La giornata porterà chiarezza: il “no” è stato un afflato spontaneo della platea, davanti all’ennesima non decisione, riconducibile a tutte le componenti. Con il lasciar fare dei big, tanto per continuare la guerra.
Ore 12 e 30. Gruppi di delegati furibondi iniziano a defluire. “Che ci hanno chiamato a fare?”, la domanda. “Con un voto come questo, che dice no a un documento della presidenza, è morta una classe dirigente”, commenta Katia Tarasconi, consigliera Pd in Emilia Romagna. Nel frattempo, Martina fa l’intervento introduttivo. “Rilanciare un centrosinistra nuovo, alternativo a M5S, Lega e a FI”. Platea distratta. “Se tocca a me, tocca a me”, rivendica. Con ovazione. “Si è portato la claque. Hanno convocato gente apposta”, commentano i delegati tra di loro.
Ore 13 e 45. Renzi si fa qualche selfie e se ne va senza aver neanche sfiorato il palco: altro che relazione per spiegare la sconfitta. “Se parlo sbaglio, se non parlo sbaglio”, si lamenta coi suoi. Ma poi: “Ho stravinto”. La conta l’ha evitata, a che serve questa vittoria si vedrà. Prima di lui era scivolato via Minniti. Poi se ne va Gentiloni. Franceschini insiste per votare la relazione di Martina. “L’accordo non era questo”, i renziani iniziano ad andarsene.
0re 14 e 15. I renziani si attribuiscono il 58% dell’Assemblea, Franceschini & C. si annettono i voti negativi al documento di mediazione e si vedono maggioranza.
Ore 14 e 30. L’intervento di Roberto Giachetti segna un “rompete le righe” psicologico. “Quando sento Orlando che dice ‘abbiamo sbagliato a non approvare la legge sull’ordinamento penitenziario’, mi viene da chiedere abbiamo chi? Tu eri il Guardasigilli e Gentiloni il premier”, dice. Fischi, urli, boati. Gente incredula in sala. Orlando replica: “La riforma dell’ordinamento penale l’avete tenuta ferma un anno perché c’era la campagna per il referendum. Ecco, ora l’ho detto”. Intanto Cuperlo delinea le due strategie per due Pd: “Ricostruire nella società un’alleanza”, oppure “creare una union sacrée delle forze europeiste alla Macron”.
Ore 15 e 50. Marcucci dà il via libera al voto per Martina dei renziani rimasti. Retropensiero: sempre un semi reggente resta. Risultato: 294 a favore, 8 astenuti.
Ore 16.00. La delegata di Tor Bella Monaca, Pina, lancia la tessera verso la presidenza e incarna il pensiero di molti: “Al congresso nun me chiamate più”.
16 e 20. Strategie. Defilato, in un angolo, c’è Nicola Zingaretti. Lo aspettano tutti come candidato per il futuro congresso. Anche Gentiloni (che non parla con Renzi da due mesi). Lo stesso ex premier s’immagina di portargli il suo pacchetto di voti. Extrema ratio. Ma è solo questione di tempo: uno dei due Pd resterà e uno uscirà. Ammesso che resti qualcosa.
Corriere 20.5.18
Conta rinviata, fischi e rabbia al vertice Pd
Nervi tesi in assemblea. Martina resta fino a luglio, l’ex premier lascia la sala. La minoranza: fase nuova
di Monica Guerzoni
ROMA Per un moderato come Maurizio Martina, più tagliato per le mediazioni che per i duelli sanguinosi, lo scatto dell’hotel Ergife davanti ai mille dell’assemblea nazionale è il cambio di passo che gli anti-renziani aspettavano. «Se tocca a me, anche se sono poche settimane, tocca a me», avverte in un clima da corrida l’aspirante leader del Pd. Mezza platea scatta in piedi, l’applauso ritma il coro «se-gre-ta-rio!, se-gre-ta-rio!» e Matteo Renzi, furioso, si alza e se ne va.
In quella sedia di prima fila lasciata dall’ex premier gli oppositori interni vedono l’immagine plastica di una leadership al tramonto. Parlano di «fallo di reazione» di Renzi e si preparano a sostenere la sfida del reggente, riconfermato in un clima avvelenato con 294 sì, otto astenuti e centinaia di seggiole vuote. All’ora di pranzo i renziani si defilano minacciando di non votare la relazione di Martina e se ne vanno anche Marco Minniti con la sua maglietta nera sacerdotale e il premier Paolo Gentiloni. Anche a loro Renzi aveva telefonato alla vigilia per convincerli a evitare la conta, così da non dare al Paese l’immagine di un Pd lacerato mentre gli avversari mettono su il governo.
Ancora tramortiti dalla sconfitta e dalle conseguenze del no al dialogo con i Cinque Stelle, i dem sono sull’orlo di un collasso nervoso. Nonostante la tregua raggiunta all’ultimo minuto con tutte le aree grazie alla mediazione di Piero Fassino, per scongiurare la rottura su mozioni contrapposte, in cinque ore di puro caos si sente e si vede di tutto. I fischi e gli insulti, gli sfoghi a cuore aperto e le tessere lanciate per protesta, le trattative estenuanti e la rabbia dei delegati, venuti da ogni parte d’Italia per un regolamento di conti di nuovo rimandato. La tensione esplode durante l’intervento di Roberto Giachetti: «Una parte organizzata della platea mi ha continuamente interrotto, fischiato, insultato», ha raccontato su Facebook l’ex vicepresidente della Camera, preso di mira dai sostenitori di Andrea Orlando. Il quale — nella sua relazione — ammonisce i renziani: «Disertare il voto sulla relazione di Martina sarebbe un errore, più grave della conta».
Alla fine, tutti cantano vittoria. I renziani esultano, perché nonostante le dimissioni irrevocabili del loro «capo» sono riusciti a imporre con 397 sì, 221 contrari e 6 astenuti la modifica dell’ordine del giorno, con cui si rinvia la decisione sul dilemma di un segretario incoronato in assemblea o scelto con le primarie. Ma quelli che per la maggioranza dell’ultimo congresso sono «numeri buoni», per le aree di Dario Franceschini, Andrea Orlando e Michele Emiliano sono cifre che certificano «la fine dell’era renziana». Se il fronte dell’ex segretario ha schivato la conta sui nomi è perché i suoi numeri non sono più così granitici, essendo sceso dal 70% delle primarie al 57% di ieri.
«Si apre una fase nuova, le minoranze sono diventate maggioranza — azzarda Francesco Boccia —. Se stiamo uniti possiamo vincere il congresso». Gli sfidanti? O lo stesso ministro dell’Agricoltura, che ha chiesto autocritica sugli errori del gruppo dirigente e annunciato una nuova segreteria plurale (ottenendo la fiducia di Gentiloni), o Nicola Zingaretti.
Repubblica 20.5.18
Renziani in difesa, orlandiani all’attacco
Fischi e prove di ribaltone benvenuti alla corrida dem
Orfini cerca di frenare la platea, cori per Martina “se-gre-ta-rio”. Ora la minoranza fiuta il sorpasso. I delegati: “ Più ci si divide, più perdiamo voti”
di Concetto Vecchio
ROMA «Se-gre-ta-rio! Se-gre-ta-rio!».
Maurizio Martina ha appena ripetuto «tocca a me, tocca a me», e dalle fila dei suoi sostenitori parte, improvviso e potente, un coro sillabato. Si replica quando puntualizza: «Siamo alternativi anche a Forza Italia». Lo stesso scroscio di battimani che sommergerà Andrea Orlando che esclama con foga: «Non voglio fare il partito degli antipopulisti con Berlusconi!».
C’è poi una terza scena che fotografa le sette ore all’Ergife, il mutamento sotterraneo dei rapporti di forza consumatosi ieri dentro il Partito democratico: il renziano Roberto Giachetti sta tirando le orecchie a Martina e a Orlando quando parte la contestazione più sanguigna. «Bastaaa!», gli dice il napoletano Peppe Russo.
«Dimettiti da consigliere comunale!», gli ingiunge l’ex presidente dell’Arcigay Aurelio Mancuso. Giachetti procede tra i fischi che diventano «buuu» dopo la difesa del Jobs Act. Una signora gli urla: «18 per centoooo». Un militante ripete come tarantolato: «Sesto Fiorentino...», ricordandogli il seggio blindato avuto lo scorso 4 marzo.
Mai come stavolta il renzismo è stato messo sotto accusa, in una sala dove Matteo Renzi, in teoria, dovrebbe avere il 70 per cento dei delegati. Ne sono arrivati 829 da tutta Italia. «Spero ancora nell’unità», dice alle 10 del mattino l’ex assessore romano Giancarlo D’Alessandro, 69 anni, consulente d’impresa. «Io vengo da Prato, dove il collegio è andato al centrodestra», racconta Lorenzo Tinagli, 21 anni. La professoressa Ada Fiore è arrivata dalla Puglia, «dove io, sindaco per dieci anni di Corigliano d’Otranto ho straperso contro una sconosciuta M5S: più litighiamo più voti perdiamo». Pietro Virtuani, il segretario di Monza, e Sergio Gianni Cazzaniga, sindaco di Besana in Brianza, sperano che non ci sia la conta, perché «il punto non è Martina o Renzi, ma il Pd».
Ce ne sarebbero, insomma, di cose di cui discutere. La minoranza, che fu umiliata al momento della compilazione delle liste, ora si ribella fiutando il ribaltone, come «una curva nello stadio», denuncerà Giachetti a sera su Facebook. Ci sono scene che ricordano certi congressi della Dc e istantanee che spiegano il cambio di stagione più di dotte analisi: Renzi che non interviene e va via subito dopo la relazione di Martina; soprattutto i suoi, collocati al centro del salone, danno, per la prima volta, l’impressione di essere come intimiditi psicologicamente dal clima in sala. La minoranza, sistematasi non a caso nell’ala sinistra, monopolizza l’arena con rumorosa ribalderia.
«Capiamoci, anche basta», aveva capito l’antifona il presidente Matteo Orfini, quando all’inizio aveva annunciato di voler cambiare l’ordine del giorno, rinviando a una successiva riunione estiva la discussione sul nuovo leader. Un differimento deciso «all’unanimità», aveva precisato, e subito era partita la bordata dalla platea: la prima di tante. «Ma quale unanimità, hanno fatto il gioco delle tre carte», s’inalbera l’ex deputato campano Simone Valiante. Gli anti-Renzi all’improvviso sembrano tantissimi. Quelli di Emiliano rumoreggiano senza soste. «Sono 190 solo gli orlandiani», è il calcolo che attribuiscono all’uomo macchina della corrente, Giulio Calvisi. È come un’onda sempre più alta. «Martina esce più forte», esulta Sergio Lo Giudice.
«Stanno cambiando gli equilibri», annuisce Andrea Martella. Gianni Cuperlo s’aggira soddisfatto. Anna Finocchiaro e Luigi Zanda assistono ai lavori seduti, senza muovere un muscolo, mentre attorno a loro s’inscena la ribellione che in futuro potrebbe aggregarsi attorno alle leadership di Martina o del governatore del Lazio Nicola Zingaretti.
Quando tutto è finito ritroviamo D’Alessandro al bar, mentre ordina un caffé. «Quante divisioni, nessuno affronta le vere questioni politiche», conclude amaro.
Repubblica 20.5.18
Il momento del Pd
Un partito lontano dal suo popolo
di Stefano Cappellini
Se ai tanti inutili sondaggi che i leader del Pd compulsano settimanalmente per registrare scostamenti dello zero virgola sostituissero un più urgente studio sul sentimento del popolo della sinistra — esiste ancora, eccome! — scoprirebbero che è l’impotenza lo stato d’animo dominante. Degli elettori ancora fedeli, di quelli persi per strada e di quelli rimasti alla finestra.
Impotenza che deriva dalla sensazione, del tutto corretta, di non avere una rappresentanza politica degna della propria missione in un passaggio storico cruciale, segnato dalla imminente nascita di un governo la cui cifra politica, al di là delle dissimulazioni grilline e leghiste, è il populismo nella sua versione più destrorsa e reazionaria.
Fate caso alle parole più usate nel lessico che ha accompagnato l’assemblea nazionale del Partito democratico: congelare, rinviare, mozione, tregua. Un partito che dovrebbe sentire su di sé tutto il peso di incarnare un’opposizione che sappia in tempi rapidi proporsi come alternativa alla deriva grillo-leghista è invece oggi impegnato in una stucchevole coreografia utile solo a mascherare uno scontro di potere nella sua versione peggiore, quella priva di contenuti contrapposti e caratterizzata dalla guerra di cordate. Poco conta essere l’unica forza che ha ancora organismi dirigenti veri e una dialettica interna non sottomessa all’autocrazia del leader o dell’azienda madre, se questa prerogativa viene spesa tutta per discutere di astratte formule: congresso subito o tra due mesi ovvero tra sei, leader a tempo, reggente vero, reggente dimezzato. Un dibattito astruso che non ha nulla più a che fare con l’esercizio della democrazia di partito. Conta o mediazione, compromesso o scontro, nulla di ciò che in questo momento anima la discussione del Pd ha un impatto sul corso politico del Paese e, tanto meno, sulla vita reale delle persone.
A più di due mesi dalle elezioni non c’è mai stato modo di assistere a una seria analisi delle ragioni di una sconfitta epocale, che non ha risparmiato né il Pd né chi lo ha abbandonato scoprendosi ridotto a percentuali di mera sopravvivenza. In questi anni la preoccupazione principale del Pd è stata sempre prorogare una riflessione sul restringimento del consenso. Ogni volta c’è una scusa buona per parlarne più avanti. Nel frattempo, non si parla di nulla.
Tutto sembra complicato e contorto.
Eppure le regole per impostare una ripartenza politica sono le stesse da sempre, almeno nei partiti uniti ancora da un vincolo politico e non solo burocratico: occorre aver chiaro perché si è perso, costruire un programma che sani i difetti di quelli precedenti, attrezzare un campo di rappresentanza congruo e dotarsi di un leader vero, riconosciuto e che, possibilmente, sia in campo non per interposta persona.
Il Pd invece è fermo, come il semaforo di Prodi nella famosa scenetta di Corrado Guzzanti. Matteo Renzi continua a restituire l’impressione di volerlo eterodirigere paralizzandone ogni funzione vitale. I suoi avversari, perlopiù tutti suoi alleati nella stagione precedente, devono ancora dimostrare di avere idee per sostituire Renzi in base a una strategia e non solo a un rovescio di potere. Il popolo della sinistra assiste attonito e, avanti così, c’è il rischio che non coltivi più nemmeno la speranza di investire nel Pd la possibilità di non restare in balia per anni dei contratti giallo-verdi.
La Stampa 20.5.18
Balcani, oltre il confine del fiume Evros
Si riapre la porta orientale dell’Europa
Tra i profughi siriani e iracheni in marcia anche i primi cittadini turchi che fuggono dal governo di Ankara
di Mariangela Paone
Gli unici suoni che si sentono in lontananza sono i clacson e il rumore dei camion che provengono dalla strada che porta a Edirne. La città turca è lì, a una manciata di chilometri, dietro gli alberi che costeggiano il fiume Evros, la frontiera naturale che segna il confine tra la Grecia e la Turchia. Sono le cinque, comincia ad albeggiare e vicino alle rotaie, nel passaggio a livello del paesino di Marasia, appaiono i segni di chi è passato da qui. Un paio di scarpe da tennis femminili, una maglietta.
Il fiume-confine
Questo è uno dei punti da cui negli ultimi mesi migliaia di persone sono entrate dalla Turchia in Europa. La vecchia e pericolosa rotta dell’Evros sembra essersi riaperta. Ad aprile, secondo i dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), sono passate da qui circa 3000 persone, più di quante ne siano arrivate sulle coste delle isole dell’Egeo settentrionale e metà di quelle registrate su questa frontiera in tutto il 2017.
Il primo rifugio
La caffetteria di Popi Katrivessi si trova a pochi metri dalla linea di confine. Dalla terrazza si vedono i binari del treno che costeggiano il fiume e poco dopo il cartello rosso che indica in greco e in inglese il divieto d’accesso. «Arrivano qui. Si cambiano nel bagno e cerchiamo di aiutarli come possiamo», racconta la proprietaria del bar, stringendosi nelle spalle. Tra tutte le persone che sono passate nell’ultimo periodo, Katrivessi ricorda una famiglia di siriani, padre, madre e quattro figli a cui hanno offerto del tè prima di vederli riprendere il cammino. Ad arrivare sono soprattutto famiglie con bambini dalla Siria, dall’Iraq e dall’Afghanistan ma negli ultimi mesi anche cittadini turchi. «Passano anche molti giovani ben vestiti. Uno di loro, un poliziotto, ha detto che scappava dalla dittatura di Erdogan e ha lasciato il suo tesserino a mia figlia», racconta Katrivessi , prima di ricordare le centinaia di cadaveri che negli anni sono stati ritrovati nel fiume.
La fuga da Afrin
L’aumento degli arrivi negli ultimi mesi è anche coinciso con l’offensiva turca nell’enclave curda in Siria di Afrin. Da lì viene Amman. Agli agenti che pattugliano la stazione di Orestiada, la cittadina più grande della zona, mostra il documento che gli permette di rimanere temporaneamente in Grecia. L’orologio della stazione è fermo all’una meno venti, ma sono le 9 del mattino. «Oggi non si è visto nessuno», dice uno dei poliziotti. A pochi metri, dentro a dei vecchi vagoni arrugginiti fermi sui binari ci sono i segni dei recenti arrivi: due zaini e due giubbini seminuovi in mezzo ad altri vestiti impolverati.
Amman chiede informazioni per il treno per Salonicco ma il servizio sulla linea è sospeso. In sostituzione c’è un autobus che costa 40 euro a persona. A lui, che viaggia con la moglie e un bambino di 2 anni, in tasca ne sono rimasti 50. Sono arrivati un mese fa e sono stati prima ad Atene e poi a Salonicco. «Ma tutto è pieno», dice. «Siamo tornati qui perché era l’unico posto che conoscevano ma ora vorremmo tornare a Salonicco», aggiunge Amman, che ad Afrin lavorava in una fabbrica tessile.
Strutture al limite
Ma a Salonicco le strutture di accoglienza sono al limite. «Per questo chiediamo alle autorità di fare qualcosa per aumentare la capacità di accoglienza», spiega Liene Veide, della delegazione dell’Alto Commissariato. Nelle ultime settimane c’è stato chi, tra gli ultimi arrivati nella seconda città della Grecia, è stato costretto a passare almeno una o due notti all’aperto. «Chi arriva dall’Evros o rimane in strada o è ospitato da famiglie che già hanno una sistemazione grazie al programma dell’Unhcr o va verso i campi, senza essere registrati e senza i servizi previsti per gli altri che sì lo sono», afferma Eleni Stamatoukou, dell’organizzazione Solidarity Now.
«Negli ultimi giorni gli arrivi sembrano diminuiti. La situazione cambia di giorno in giorno», aggiunge la portavoce di Unhcr a Salonicco. Nel centro di accoglienza e identificazione di Fylakio, vicino al confine con la Turchia, giovedì c’erano 250 persone per una capienza di 240, e 110 erano minori non accompagnati. Da fuori, oltre le due barriere di ferro e filo spinato che circondano il campo, si vedono bambini correre tra i prefabbricati.
Il sole è già alto e inizia a fare caldo. Sulle strade sterrate che attraversano i campi dei paesini che si snodano lungo la frontiera, non si avvista nessuno. Ma i segni degli arrivi degli ultimi giorni sono lì, in un vecchio magazzino con le saracinesche mezze alzate e i vetri delle finestre rotti, a pochi metri dalla stazione di Didimotiko, uno dei punti di arrivo più a sud: zaini, coperte, scarpe, pantaloni, magliette ,mutande, calzini, due piumini da bambino, uno verde e uno azzurro e una sciarpa blu a poca distanza sembrano essere stati lasciati lì da poco.
Chi arriva, dopo aver attraversato il fiume a piedi nei punti in cui l’acqua lo permette o su piccoli gommoni, lascia i vestiti zuppi e si cambia per poter continuare il cammino lasciandosi alle spalle questa porta orientale dell’Europa.
La Stampa 20.5.18
Più rimpatri e asili
Così Atene prova a fermare i nuovi migranti
Migliaia di arrivi malgrado l’accordo con la Turchia Si sblocca la rotta balcanica, centri sull’Egeo in crisi
di Niccolò Zancan
Considerati i sei miliardi di euro pagati al presidente Recep Tayyip Erdogan per fermare i migranti in Turchia, nessuno immaginava di trovarsi adesso in questa situazione. Martedì il parlamento greco ha approvato una legge per sveltire le domande di asilo e protezione internazionale. Ci sarà un aumento del personale al lavoro: meno attesa, meno burocrazia. Ma anche tempi più brevi per fare appello. Più respingimenti. Più rimpatri. E la possibilità di estendere le limitazioni di viaggio sul territorio nazionale a tutti i rifugiati in attesa di risposta: non vogliono che si avvicinino alle frontiere. La legge è contestata dalle organizzazioni umanitarie. Ma è il tentativo messo in campo del governo di Alexis Tsipras per fronteggiare la nuova emergenza che sta prendendo forma alla frontiera Sud-Est d’Europa.
La pressione sulle isole
I centri di identificazione sulle isole del Mar Egeo scoppiano. Quello di Lesbo arriva a contenere 6 mila persone in una struttura da 1800 posti. Dentro le gabbie, le code per il cibo si allungano ogni giorno. Ci sono tende ormai su tutta la collina, le condizioni igieniche sono disastrose e le tensioni sono sfociate in devastazioni e proteste. Ci sono state anche, nella notte fra il 23 e il 24 aprile, rappresaglie di gruppi neonazisti. Sbarcati apposta per dare fuoco alle tende di alcuni ragazzi afghani. E gridare slogan di morte.
Accoglienza al collasso
Il fatto è che tutte le strutture della Grecia continentale sono piene. Le persone ristagnano per anni senza fare passi avanti. Sono 65 mila i migranti rimasti intrappolati dopo l’accordo siglato dall’Unione europea con la Turchia a marzo 2016. Questo era il piano: i profughi dovevano essere fermati dall’altra parte del mare. E chi era già in Grecia, doveva restarci. Ma altre persone stanno arrivando. Nuovi migranti si aggiungono ai vecchi, e i posti sono finiti. Sono famiglie siriane scappate da Afrin e Kobane, ragazzi pachistani e afghani giovanissimi. Molti iraniani e iracheni. Persino gruppi di nordafricani, algerini soprattutto, che tagliano fuori la Libia e l’Italia per provare a passare da qui.
L’Ungheria fa paura
Non sono numeri comparabili con il grande esodo del 2015, quando più di un milione di esseri umani percorse con ogni mezzo le strade della rotta balcanica. Ma 10.420 migranti dall’inizio dell’anno sono un numero sufficiente per mettere in allarme l’Europa in vista dell’estate. E poi, è comparsa quella tendopoli nel centro di Sarajevo: dove nessuno si aspettava di trovarla. Il governo croato ha immediatamente lanciato l’allarme sul possibile arrivo di 60 mila profughi alle sue frontiere. Cosa è successo? Cosa sta cambiando?
«Quello che sappiamo tutti è che non bisogna passare dall’Ungheria» dice Naimal Bari, 24 anni, partito dal Pakistan due mesi fa. «Hanno muri, cani addestrati, guardie che sparano e leggi spaventose. Molti di noi sono stati presi a bastonate su quel confine. Oppure arrestati, e tenuti in carcere per anni. Sappiamo che dobbiamo cercare altre strade. Piccoli valichi di montagna. Io tenterò fra qualche giorno». Il ragazzo migrante Naimal Bari adesso si trova in Bosnia a Velika Kladusa, 4 chilometri dal confine croato. «Proveremo di notte, seguendo i sentieri».
Non è molto diverso da quanto sta accadendo a Bardonecchia sul Colle della Scala, al confine fra Italia e Francia. Ma quella è una frontiera interna. Passare dalla Bosnia alla Croazia significherebbe, invece, riuscire ad entrare in Europa. Come era già Europa la Grecia. Solo che Naimal Bari, come tutti i dannati della rotta balcanica, sta lottando per raggiungere il Nord Europa. È quella la meta sognata. Non vogliono fermarsi. «Io vorrei arrivare in Svezia, e finora sta andando bene. Dalla Turchia sono passato in Grecia all’altezza del fiume Evros: abbiamo comprato un canotto nella città turca di Edirne. Poi in treno siamo arrivati a Salonicco. Dopo un po’ di riposo, abbiamo fatto il passaggio in Macedonia comminando di notte: abbiamo tagliato una rete metallica. Quindi, siamo sbucati in Serbia, e i serbi ci hanno dirottati in Bosnia».
Accampati a Sarajevo
La tendopoli di Sarajevo è stata smantellata tre giorni fa. Oggi è in programma proprio la visita del presidente turco Erdogan. Non sarebbe stato un bello spettacolo.
I profughi adesso sono al confine Nord, come Naimal Bari. Oppure al confine Sud con la Croazia, nella piccola città di Bihac. Lì, all’interno di un vecchio campus universitario distrutto durante la guerra dei Balcani, circa 500 persone sono in attesa. Tenteranno. Perché né i nuovi muri ai confini d’Europa, né i miliardi pagati al presidente turco, sono ancora riusciti ad estinguere la loro voglia di lottare per un’altra vita.
gli amici dei miei amici...
La Stampa 20.5.18
“Israele e Arabia più vicini, così cambia il mondo”
di Lionel Barber
è direttore del Financial Times dal 2005 e ha contribuito a trasformarlo in un’agenzia di comunicazione globale e multicanale
«È il giornale della globalizzazione. Offre una prospettiva globale su politica, economia, finanza e affari. Abbiamo 568 giornalisti. La sede è a Londra, nella City ma abbiamo una rete mondiale di oltre 100 corrispondenti».
Il FT va bene?
«Abbiamo circa 1 milione di lettori a pagamento, due terzi nel Regno Unito e negli Usa, 20 % in Europa, e il resto in Asia. Il gruppo Nikkei, il nostro nuovo proprietario giapponese, è un investitore a lungo termine e ci garantisce un’assoluta libertà editoriale. Siamo molto soddisfatti»
Il mondo sta andando come dovrebbe secondo il FT?
«Il presidente Trump è il Distruttore in capo. Sta mettendo in discussione non solo l’eredità del suo predecessore Obama, ma persino i fondamenti basilari dell’ordine liberale del dopoguerra. Dice che le alleanze sono scomode e vuole arrivare a un aggressivo bilateralismo. Non sono i nostri valori. Fondamentalmente è una sfida all’approccio europeo verso il mondo ed è anche molto diverso da ciò che disse un anno fa, quando esprimeva totale adesione ai valori della Nato».
Cosa è cambiato?
«È entrato nel ruolo, ritiene di agire per il meglio, e ha cambiato squadra. I globalisti, come Gary Cohn e H.R. McMaster se ne sono andati e adesso è circondato da gente che crede nel bilateralismo più feroce. E pensa che il suo approccio fortemente transazionale si dimostrerà vincente. Un anno fa sono andato alla Casa Bianca a intervistarlo e c’era il caos più totale, sembrava un set cinematografico, gente che andava e veniva . Riuscii perfino a mettere il telefono sulla sua scrivania, un’evidente falla nella sicurezza. A settembre quando sono tornato tutto era stato risolto. Tuttavia, come ho scritto in aprile “c’è un po’ più di metodo nella follia di quanto non appaia a prima vista”. Non c’è ancora una vera procedura, perché Trump non crede nelle procedure e gli piace tenere tutti in bilico»
È più professionale?
«No, per nulla; si diverte a infrangere le regole, a essere imprevedibile. La prima domanda per me è: in cosa crede veramente? E la seconda è: quanto del suo atteggiamento, i tweet, il voler essere al centro dell’attenzione, è in realtà solo una gigantesca distrazione da ciò che davvero accade? Ho chiesto a Bannon: “State facendo impazzire la gente, ma in realtà ci distraete?” E lui ha detto: “Sì. In Marina lo definivamo un tiro diversivo”».
In che cosa crede Trump?
«Fondamentalmente, nel potere americano. Crede che l’America abbia combattuto troppe guerre oltreoceano. Se si pensa al costo dell’ Iraq e dell’Afghanistan, 2,3 trilioni di dollari, si vede come nasce questa convinzione. Ed è anche convinto che il potere americano debba occuparsi delle minacce nucleari, in particolare del Nord Corea».
E le sue idee sul riassetto economico dell’America?
«Ha una visione Anni 50 di ciò che ha reso grande l’America, basata sulla produzione manifatturiera. Pensa, secondo me a torto, che l’America non abbia beneficiato della liberalizzazione del commercio globale. E pensa anche che sia stata superata da altre nazioni, in particolare dalla Cina».
Ma le sue azioni hanno provocato un’immediata reazione da parte della Cina, no?
«Normalmente, durante un negoziato, i presidenti calcolano il prezzo richiesto e finché sono disposti a negoziare. Trump inizia chiedendo il 99% e poi si ritira e aspetta di vedere fino a dove scende l’altro. Il suo stile di negoziazione è progettato per intimidire. Probabilmente ha capito che i cinesi si sarebbero vendicati, ma per lui sono solo affari».
Trump ha rotto l’accordo con l’Iran. Cosa ne pensa?
«Che era prevedibile; l’ha detto che era il peggiore affare di sempre. Il paradosso è che se l’Iran riprende i suoi programmi nucleari, l’Arabia Saudita diventerà un’altra potenza nucleare. Il che potenzialmente è molto allarmante».
E che mi dice di Israele?
«Trump è amico di Israele. I sauditi non saliranno sulle barricate per i palestinesi e nemmeno faranno storie per l’ambasciata Usa a Gerusalemme. L’avvicinamento tra Arabia Saudita e Israele dà la misura di come stia cambiando il mondo. Non è un caso che Trump abbia scelto l’Arabia Saudita come meta del suo primo viaggio all’estero».
Il bombardamento in Siria è una mossa contro la Russia?
«No, è stato prima concordato con la Russia, non è stata assolutamente una mossa antirussa. Partiva dal presupposto che chi usa armi chimiche va incontro a una risposta militare. Io lo definisco un approccio Abo (Anything But Obama - tutto tranne quel che ha fatto Obama) alla politica estera».
Trump è contro l’Europa?
«No, ma è influenzato da persone come Nigel Farage, che lui considera un grande rivoluzionario. Per Bannon è un eroe. Per loro la Brexit è una liberazione».
L’ Europa si rimpicciolisce?
«L’Ue parla ma non agisce. Al vertice di Lisbona del 2000 si discusse di come rendere competitiva l’economia europea entro il 2010, ma non è andata così. Al momento siamo schiacciati tra l’America e il potere emergente della Cina. Merkel, Macron e Tony Blair dicono di aspettare che passi la tempesta, ma ora come ora sullo scacchiere geopolitico noi siamo forse alfieri, certo non re, né regine o torri».
Traduzione di Carla Reschia
il manifesto 20.5.18
La «passione» nazista dello stragista texano
Stati Uniti. Dimitrios Pagourtzis, uno studente di 17 anni, è entrato a scuola con un fucile e un revolver calibro 38 e ha aperto il fuoco, uccidendo nove compagni e un professore, ferendo 12 persone tra cui una guardia armata
di Marina Catucci
NEW YORK Questa volta è accaduto a Santa Fe, in Texas: Dimitrios Pagourtzis, uno studente di 17 anni, è entrato a scuola con un fucile e un revolver calibro 38 e ha aperto il fuoco, uccidendo nove compagni e un professore, ferendo 12 persone tra cui una guardia armata. Dispositivi esplosivi rudimentali sono stati successivamente ritrovati nell’edificio scolastico e nelle sue vicinanze. «Pensavo che alla fine sarebbe successo, sta accadendo ovunque», ha dichiarato alle telecamere di Nbc Paige Curry, studente della Santa Fe High School, poco dopo la sparatoria, quando i ragazzi erano tutti fuori dall’edificio, i network nazionali erano già arrivati, e il governatore del Texas, il repubblicano Greg Abbott, era in conferenza stampa per fornire i dettagli dell’ennesimo massacro di ragazzi americani.
PAGOURTZIS si era procurato le armi prendendole al padre che le possedeva legalmente, le analisi degli account social del ragazzo rivelavano una persona ossessionata dalla violenza, con una passione per il nazismo e per il musicista elettronico James Kent, professionalmente noto come Perturbator, la cui musica è stata adottata dagli affiliati dei gruppi neonazisti e dall’Alt-right. Il piano doveva essere quello di sparare e poi suicidarsi ma alla fine
Pagourtzis non ha puntato le armi verso di sé e si è arreso; ora è in custodia presso la polizia, ha chiesto un avvocato e per lui ci sarà un prevedibile percorso legale; per la comunità rurale di 13.000 anime di Santa Fe ci saranno veglie e l’elaborazione del lutto. E per una parte sempre più corposa d’America, la rabbia e la determinazione a non fare più accadere queste morti inutili. I ragazzi del liceo di Parkland, in Florida, che a febbraio, a seguito di una sparatoria simile accaduta nella loro scuola hanno dato vita al movimento NeverAgain, per il controllo delle armi, hanno rinnovato le loro richieste di risposte politiche; proteste spontanee sono nate un po’ ovunque negli Usa, un gruppo di studenti delle scuole superiori di Washington si è recato nella sede dell’ufficio del leader della maggioranza repubblicana alla Camera, Paul Ryan, chiedendo non preghiere, ma leggi sul controllo delle armi ricordando che molti di loro saranno presto maggiorenni e andranno a votare per le elezioni di midterm.
TRUMP HA DICHIARATO che «Questo va avanti da troppo tempo. La mia amministrazione è determinata a fare tutto quel che è in suo potere per proteggere i nostri studenti, rendere sicure le nostre scuole, mantenere le armi fuori dalle mani di chi costituisce minaccia per sé e per gli altri«; per ora ha convocato la commissione sulla sicurezza delle armi creata dopo la sparatoria di Parkland e dovrebbe incontrarla la prossima settimana.
I POLITICI ATTIVI nel movimento per il controllo delle armi hanno rinnovato la pressione su i colleghi repubblicani che non credono che limitare le armi limiterebbe questi eventi sanguinosi, Andrew Cuomo, governatore di New York ha mandato una lettera pubblica a Trump ed al congresso, poche righe che finiscono con una frase tutta in maiuscolo, «do something», «fate qualcosa«.
Dal canto suo il conduttore radiofonico e vice governatore del Texas, Dan Patrick, ha dichiarato in pieno stile Johnny Stecchino, che il problema non sono le armi, ma le porte, spiegando che ci sono troppe entrate e uscite nelle scuole, ed è per questo che le sparatorie possono accadere: «Se ci fosse stata una sola entrata possibile per gli studenti, forse tutto questo non sarebbe accaduto».
il manifesto 20.5.18
Maduro non ha rivali, ma l’astensione peserà
Elezioni in Venezuela. Opposizione mai così screditata e debole, ha chiesto per mesi le urne e oggi le boicotta. L’attenzione è puntata sul livello di partecipazione che risulterà decisivo per misurare la legittimità del processo elettorale
di Claudia Fanti
Il conto alla rovescia è finito: oggi, per il popolo venezuelano, è il giorno delle elezioni più commentate, discusse e avversate (dagli Stati uniti, dai loro vassalli del Gruppo di Lima, dall’Unione Europea) nella storia recente dell’America Latina. Ma anche, di contro, energicamente difese dai movimenti popolari di tutto il continente e non solo e dai governi amici dell’Alba, della Russia e della Cina.
Data quasi per scontata la vittoria di Maduro – che dovrebbe superare con ampio margine il suo principale avversario, l’ex governatore dello Stato di Lara Henri Falcón – l’attenzione è puntata sul livello di partecipazione, che, a fronte della dichiarata astensione dei principali partiti di destra, risulterà decisivo per misurare la legittimità del processo elettorale.
Stando ai sondaggi, però, il richiamo di quella «bella rivoluzione» che aveva portato il Venezuela al quinto posto nella classifica dei Paesi considerati più felici dai propri abitanti appare ancora forte, malgrado le denunce esistenti sull’abbandono del percorso rivoluzionario avviato da Chávez e rimasto incompiuto. E malgrado, soprattutto, la quotidiana fatica della sopravvivenza sopportata dalla popolazione, tra scarsità di beni di prima necessità, iperinflazione e un criminale embargo finanziario.
Sotto accusa, in particolare, è l’incapacità del governo di offrire spiegazioni convincenti riguardo alla crisi economica e alle vie per superarla, al di là della grande scommessa sul Petro, la criptovaluta lanciata a febbraio, inefficace tuttavia a contrastare il collasso dei servizi pubblici, il contrabbando, la carenza di investimenti produttivi.
Ma il principale aiuto a Maduro viene proprio dall’opposizione, mai così debole e screditata. Da un’opposizione, cioè, che, dopo aver rivendicato per mesi la convocazione di elezioni anticipate, ha poi deciso – e neppure in maniera unanime – di boicottarle. Con ciò affidando tutte le sue chance di riconquista del potere alla speranza di un risolutivo intervento esterno, meglio se nascosto dietro l’apertura di un canale umanitario, o all’attesa di un collasso interno per effetto di sempre più dure sanzioni internazionali.
Repubblica 20.5.18
La nuova Arabia Saudita
Perché Riad ha arrestato (all’improvviso) le tre eroine delle donne al volante
di Francesca Caferri
Di essere arrestate se lo aspettavano da mesi. Ma che il provvedimento sarebbe arrivato ora, a poco più di un mese dalla giornata che avrebbe segnato la loro vittoria, probabilmente no. Con una mossa a sorpresa, che ha fatto in poche ore il giro del mondo, l’Arabia Saudita ha arrestato nella notte fra martedì e mercoledì tre delle più importanti attiviste per i diritti umani del Paese che per anni avevano fatto campagna per abolire il divieto di guida per le donne: gli arresti arrivano alla vigilia della fine del divieto, prevista per il 24 giugno. Le tre sono parte di un gruppo di sei attivisti — due uomini e quattro donne — che vengono ora accusati di tradimento e di aver tenuto contatti e cospirato con potenze straniere per danneggiare il Paese: accusa che potrebbe tradursi in anni di carcere.
Il fermo di Loujain al Hathloul, Eman El Nafjan e Aziza Yousef sottolinea tutti i limiti della politica di apertura e di riforme che il principe Mohammed Bin Salman — erede al trono, ma di fatto già massima autorità del Paese — proclama di voler seguire. Mettere a tacere la voce degli attivisti serve ad attribuire tutti i meriti del processo di apertura alla corona e invia un messaggio chiarissimo a tutti quelli che da anni si battono per il cambiamento: le uniche riforme ammissibili sono quelle volute dalla corte reale e la corte reale non accetta interferenze nel processo di apertura del Paese. «È uno sviluppo estremamente preoccupante. Queste tattiche di intimidazione sono del tutto inaccettabili», ha detto in un comunicato Samah Hadid coordinatore delle campagne di Amnesty International per il Medio Oriente.
Loujain al Hathloul, Eman El Nafjan e Aziza Yousef sapevano da tempo di essere nel mirino: nei mesi scorsi, quando la fine del divieto di guida per le donne stava per essere annunciata, avevano tutte ricevuto telefonate in cui il ministero degli Interni intimava loro di non parlare con la stampa, in modo da lasciare alla sola corona il merito della svolta. Ma non solo: Al Hathoul ha già passato più di 70 giorni in prigione nel 2015 dopo aver guidato la sua auto dagli Emirati arabi uniti al confine saudita. El Nafjan è stata più volte interrogata e minacciata per la sua attività di blogger.
Yousef ha visto la sua licenza lavorativa revocata per motivi che lei stessa ha sempre attribuito alla sua attività politica. Tutto questo le ha rese estremamente prudenti ma non le hai mai fermate: «Non importa quanti annunci clamorosi arrivino: nulla cambierà davvero in Arabia Saudita finché le persone non si sentiranno abbastanza tranquille da poter dire ciò che pensano», dicevano qualche mese fa protette dall’anonimato nel salotto di casa di una di loro a Riad. L’arresto di queste donne segna un passo indietro clamoroso per un Paese che si proclama desideroso di aprirsi al futuro.
Il Fatto 20.5.18
Pedofilia, tutta la Chiesa ha i problemi del Cile
Il Papa ha ammesso di aver sottovalutato il caso e ha fatto dimettere i vescovi. Ma le omertà in diocesi e nei seminari sono la norma
di Marco Marzano
La decisione dei vescovi cileni di rassegnare in blocco le dimissioni dai loro incarichi al papa è clamorosa. Segnala la consapevolezza di una responsabilità collettiva dell’episcopato cileno per i gravi crimini commessi da membri della Chiesa in quel Paese. Il gesto giunge dopo decenni di insabbiamenti ed è la conseguenza di un drastico cambiamento di linea di Francesco nel contrasto alla pedofilia clericale in Cile.
Sino al gennaio di quest’anno e cioè al suo viaggio nel Paese andino, Francesco non sembrava scontento di come andavano le cose nella chiesa cilena. Nel 2015, aveva promosso, nominandolo vescovo, Juan Barros, un “allievo” e amico del pedofilo abusatore Don Fernando Karadima. Quando Francesco lo ha nominato vescovo sul capo di Barros pendeva già l’accusa di aver assistito impassibile alle violenze che Karadima infliggeva ai minori.
Proprio durante quel viaggio, Francesco aveva reagito con fastidio alla domanda di chi gli aveva chiesto conto del suo sostegno a Barros rispondendo che della complicità di quel vescovo con i crimini di don Karadima non c’erano riscontri certi e quindi, fino a prova contraria, quelle contro di lui erano calunnie. Quelle parole parvero l’ennesima manifestazione della complicità vaticana con gli abusatori e suscitarono la reazione indignata di molta parte dell’opinione pubblica, non solo cilena.
È a quel punto che il papa fece mostra di esser pronto a cambiar linea, ammise di essersi sbagliato nel giudicare la situazione cilena, dichiarò di essere stato male informato e di voler andare finalmente a fondo della questione. Mandò un Cile un suo investigatore che acquisì nuove informazioni, poi convocò i dirigenti cileni a Roma e ottenne le loro dimissioni. Adesso gli toccherà procedere alle necessarie epurazioni, cioè al licenziamento di massa dei vescovi cileni. Se ciò non avvenisse, se il papa prendesse tempo e nel frattempo la vicenda venisse dimenticata dai media, ci troveremmo dinanzi a una sceneggiata sulla pelle delle vittime. In una lettera indirizzata ai vescovi cileni che doveva rimanere riservata (e di cui alcuni giornali hanno pubblicato stralci) Francesco ammette che i problemi in Cile vanno ben al di là del caso Karadima-Barros, che nella chiesa cilena si sono verificati nel tempo abusi e mancanze di tutti i generi, che sono stati distrutti documenti che compromettevano alcuni preti, coperti e protetti o trasferiti precipitosamente da una parrocchia all’altra e subito incaricati di occuparsi di altri minori. Le accuse hanno riguardato anche le istituzioni formative, i seminari, colpevoli di non aver arrestato la carriera di preti che già da studenti mostravano chiari segni di un comportamento patologico nella sfera sessuale e affettiva. Il problema è “il sistema” ha concluso il papa.
Ed è verissimo. Il punto è: quale sistema? A meno di non voler credere che la chiesa cilena abbia sviluppato patologie tutte peculiari, che fosse una sorta di associazione a delinquere fuori controllo e a meno di negare che fenomeni identici a quelli descritti dal papa nella sua lettera si sono verificati ovunque nel mondo bisogna ammettere che il sistema è la chiesa stessa nella sua attuale forma organizzativa. Il problema è cioè un’organizzazione strutturata intorno alla supremazia di una casta clericale tutta maschile e celibe formata intorno ai valori della fedeltà assoluta e della disciplina di corpo all’interno di istituzioni totali e claustrofobiche come i seminari e poi investita del monopolio assoluto nella gestione del sacro, della competenza esclusiva di tutti gli aspetti cruciali della vita dell’istituzione.
Se il pontefice vuole davvero combattere fino in fondo il sistema e debellarlo, perché non prende tutti in contropiede e assume l’iniziativa di avviare una grande riflessione collettiva e pubblica, eventualmente attraverso un sinodo straordinario, sul tema della responsabilità dei funzionari e delle istituzioni cattoliche nei tantissimi casi di abusi sui minori commessi dai membri della Chiesa nella sua storia recente? E perché non invita a farne parte anche quegli studiosi che da anni sostengono che il problema degli abusi sessuali da parte del clero cattolico va affrontato mettendo in conto l’eventualità di dover smantellare la tradizionale strutturale clericale che da secoli, e senza alcuna discontinuità sino al presente, governa la Chiesa ai quattro angoli della terra? Questo sì che sarebbe l’inizio della rivoluzione.
Corriere 20.5.18
Scuola, che errore: sta per sparire la storia dell’arte
di Vincenzo Trione
«Reintrodurremo la storia dell’arte nella scuola italiana!»: era, questo,
uno degli slogan degli esponenti del Pd al tempo dell’approvazione della cosiddetta Buona Scuola. Intenzioni smentite dalle successive decisioni politiche. Con una nota del 19 aprile, il Miur ha comunicato i nuovi quadri orari del primo biennio degli istituti professionali con le relative classi di concorso, nei quali non c’è traccia della storia dell’arte: neanche in indirizzi dove questa disciplina appare indispensabile. È l’approdo di un grave e pericoloso «smantellamento» che aveva trovato uno snodo decisivo nella riforma Gelmini, la quale ha soppresso o drasticamente tagliato gli insegnamenti di disegno e storia dell’arte nelle scuole superiori di diverso tipo. Il fine sotteso a queste scelte: portare avanti un sistematico attacco alle humanities, prediligendo un realismo tecnocratico, d’impronta tardo-positivista.
Tra qualche giorno conosceremo il nome del prossimo ministro della Pubblica istruzione. Ci piacerebbe che egli avesse il coraggio di avviare un serio ripensamento del ruolo e della funzione nei programmi scolastici della storia dell’arte. Che va intesa come sapere non «a circuito interno», di tipo meramente specialistico o tecnico, ma trasversale, capace di disegnare i confini all’interno dei quali storia, letteratura, filosofia, cinema, scienze e religione entrano in dialogo. Forma alta di educazione civica, in grado di rendere le nuove generazioni di italiani davvero consapevoli dell’identità della nostra nazione, della nostra cultura, della nostra civiltà, del nostro paesaggio. Dunque, una presenza insostituibile.
Anche per tali ragioni riteniamo che la storia dell’arte non possa più essere messa in una posizione marginale o ancillare nella scuola 2.0, ma reclami quella centralità già assegnatele da Giovanni Gentile nel 1923. Perché essa, scriveva un grande studioso come Giuliano Briganti, «ci riguarda direttamente tutti: uno specchio in cui si riflettono i motivi più vivi e inquieti del nostro tempo».
Corriere La Lettura 20.5.18
Ci rivediamo tra cent’anni
I viaggi nel tempo affascinano da secoli l’immaginazione umana suggerendo percorsi circolari attraverso la curvatura dello spazio-tempo
conversazione di Giulio Giorello con Jim Al-Khalili
Nel presentare i saggi che compongono il volume, Il futuro che verrà (dal 24 maggio in libreria per Bollati Boringhieri), Jim Al-Khalili, fisico teorico nonché apprezzato comunicatore scientifico, inizia così: «Secondo la teoria della relatività il futuro è sotto i nostri occhi, pronto ad attenderci: tutti i tempi lo sono — passato, presente, futuro — preesistenti e permanenti in uno statico spaziotempo a quattro dimensioni, e tuttavia la nostra coscienza è inchiodata a un oggi in continuo mutamento». Sicché «non riusciamo mai a vedere ciò che sta davanti a noi». Eppure, questa non è una ragione per dichiarare persa la partita e non tener conto delle previsioni formulate da esponenti del mondo scientifico provvisti di notevole competenza. Dice Al-Khalili: «Un libro dedicato al futuro della scienza come potrebbe non parlare dei viaggi nel tempo?».
GIULIO GIORELLO — La questione affascina l’immaginazione umana da secoli, anche se con tutta probabilità concerne, come lei dice, «un futuro enormemente distante da noi». Nel saggio che conclude il volume, lei sottolinea come nel contesto della relatività generale la possibilità dei viaggi nel tempo sia suggerita da quelle che sono chiamate «curve di tipo tempo chiuse»: percorsi circolari attraverso la curvatura dello spaziotempo in cui il tempo si ripiega ad arco su sé stesso. Se viaggiassimo lungo una linea del genere, percepiremmo il tempo scorrere in avanti, come di consueto; però, alla fine, ci ritroveremmo nello stesso punto dello spazio da cui eravamo partiti, prima ancora di muoverci.
JIM AL-KHALILI — Il modo con cui noi stiamo parlando di questi «anelli temporali» è semplice e interessante. La difficoltà non sta nel descrivere tali anelli, ma piuttosto nella natura paradossale della realtà che essi implicano. Se io ritorno al mio punto di partenza prima di averlo lasciato, finirò con l’incontrare… me stesso. E questi noi due possono ripetere l’operazione e ritornare allo stesso punto da cui sono partiti; e allora, alla fine del circuito temporale, ci sono quattro di noi… Io posso così creare multiple versioni di me stesso, anche se tutti i miei amici direbbero che non è esattamente una buona idea: un solo Jim basta e avanza! Ed ecco un paradosso forse ancora più semplice: io procedo sempre lungo una curva di tipo tempo chiusa, e arrivo prima di dove sono partito; rapidamente distruggo i mezzi con i quali ho viaggiato prima di essere arrivato ove mi ero diretto. Ma se non sono più in grado di fare il mio viaggio, com’è possibile che io possa andare indietro nel tempo? L’unico modo di aggirare questi paradossi del viaggio nel tempo è postulare l’esistenza di realtà multiple (i cosiddetti universi paralleli); questo apre, però, una marea di questioni.
GIULIO GIORELLO — Lei ricorda anche la vicenda di Albert Einstein che nel 1949 rimase sconcertato da uno scenario ipotetico che gli aveva sottoposto il logico Kurt Gödel: era uno scenario concepito entro la relatività generale che ammetteva anelli temporali. Lei sottolinea pure come moltissimi fisici ritengano che i paradossi logici connessi con i viaggi nel tempo passato costituiscano una ragione sufficiente a escluderne la possibilità. Che dire se vado indietro nel tempo e uccido mia nonna materna prima che metta al mondo mia madre? Immediatamente dovrebbero scomparire la mia esistenza e tutti gli eventi correlati. Sarebbe davvero un universo «non logico»? E potremmo mai determinare dove finiscono le catene di eventi correlati alla mia esistenza?
JIM AL-KHALILI — Sarebbe senza dubbio un universo non logico! Se ho ucciso mia nonna materna prima che io sia nato, allora chi ha ucciso davvero la nonna? Non posso essere stato io: dopotutto, non c’ero ancora e non avrei potuto nemmeno crescere fino a diventare un assassino che viaggia nel tempo, e da cui le nonne dovrebbero guardarsi. In un universo in cui mia nonna è stata assassinata, non avrei mai visto la luce, quindi non sarei potuto ritornare indietro nel tempo a ucciderla; la nonna non sarebbe stata affatto assassinata, ma allora io sarei davvero nato, fino a diventare un viaggiatore del tempo che avrebbe potuto uccidere la nonna... Insomma, un insensato circolo vizioso, senza fine.
GIULIO GIORELLO — In un altro volume da lei curato (Alieni, Bollati Boringhieri, 2017) viene discussa l’eventuale esistenza di intelligenza extraterrestre nell’universo. Mi viene in mente la celebre battuta di Enrico Fermi: se l’intelligenza degli alieni è così tecnologicamente avanzata — ben più della nostra — come mai non sono già qui? Analogamente, se i viaggi nel tempo sono possibili, perché i nostri lontani discendenti non sono già arrivati qui da quel lontano futuro? Perché non si sono spinti più indietro nel passato, per osservare grandi eventi storici, come l’assassinio di Giulio Cesare o la morte di Hitler? Eppure, non abbiamo ancora incontrato alcun «curioso» che provenga dal «futuro remoto»...
JIM AL-KHALILI — Spesso espongo il paradosso di Fermi in qualche conferenza o in qualche lezione, e chiedo a chi mi sta a sentire che soluzione si sentirebbe di dare. Se noi potessimo viaggiare nel passato, i nostri corpi sarebbero allora parte di quello spaziotempo e dovremmo essere in grado di interagire con quel mondo. Non saremmo dei semplici fantasmi, che solo osservano, ma rimarrebbero inosservati. Per vedere gli eventi, dei fotoni (cioè luce) dovrebbero entrare nei nostri occhi e così i nostri corpi finirebbero per interagire con il mondo fisico di quel tempo, dovrebbero diventarne parte. Le ipotesi circa il perché noi non siamo mai stati consapevoli di questo o quel viaggiatore nel tempo possono essere le seguenti: a) forse i viaggiatori nel tempo sono tra noi già ora, ma si guardano bene dal segnalare la loro presenza; b) forse non desiderano visitare questo nostro inizio di XXI secolo (magari ci sono periodi migliori per loro per venirci a dare un’occhiata); c) forse qualche legge della fisica, non ancora scoperta, vieta addirittura di viaggiare nel tempo. Per me c’è una risposta ancora più semplice. Se volessimo darci da fare a costruire una macchina del tempo, noi dovremmo collegare due differenti tempi. Al tempo iniziale noi potremmo viaggiare all’indietro fino al momento in cui la macchina del tempo è stata accesa: tutti i tempi precedenti sono preclusi. E dunque, perché non ci sono adesso dei viaggiatori nel tempo che vengono dal futuro? La risposta è immediata: perché noi non abbiamo ancora costruito una macchina del tempo! Se noi ne costruiamo una e l’accendiamo, poniamo nell’anno 2050, dopo i viaggiatori saranno capaci di usarla per tornare al 2050, ma non al 2049 o prima...
GIULIO GIORELLO — Riprendendo un’idea di Frank Tipler (1974), che lei menziona nel saggio, sarebbe solo una questione di tecnologia, e potremmo costruire una tale macchina usando dei «cilindri rotanti»: è come se salissimo una scala elicoidale, scoprendo dopo ogni giro che si è arrivati a un livello inferiore al precedente! A me viene in mente la bizzarra geometria escogitata da Maurits Cornelis Escher. Però, lei ipotizza che i cilindri di Tipler potrebbero essere già presenti in natura...
JIM AL-KHALILI — Era davvero una reminiscenza dell’illusione ottica della scalinata di Escher. Quanto all’idea che sia anche una caratteristica fisica del nostro universo, è qualcosa che parecchi fisici non prendono sul serio. Però, è una soluzione possibile della teoria della relatività generale, detta anche stringa cosmica, e poiché la relatività ha dato prova di saper offrire una spiegazione precisa del nostro universo, perché non tenerne conto? Personalmente ci ragiono un po’ su; tuttavia, se fossi uno scommettitore, io stesso non punterei nemmeno una monetina sulla possibilità che tale stringa cosmica sia davvero una realtà fisica!
GIULIO GIORELLO — Lei sembra preferire in conclusione l’idea dei cosiddetti cunicoli come mezzi più praticabili per i viaggi nel tempo. Si tratta di strutture dello spaziotempo possibili in base alla relatività generale. Così li definisce: «Scorciatoie nello spaziotempo, che collegano due regioni differenti dello spazio tramite un percorso che si trova in una dimensione diversa da quella dell’universo stesso. Ma le due estremità del cunicolo possono anche collegare due tempi differenti, dei quali uno rappresenta il passato dell’altro». Procedere attraverso un cunicolo equivarrebbe a viaggiare nel tempo verso il futuro o verso il passato, a seconda della direzione che abbiamo preso. Tuttavia, i cunicoli oggi sono nozioni puramente teoriche. È lecito immaginare una tecnologia che ci permetta di individuarli ed eventualmente sfruttarli ai nostri scopi?
JIM AL-KHALILI — Una tecnologia del genere possiamo già intuirla; ma è lontanissima dall’essere realizzata. Creare un cunicolo sufficientemente stabile, che possa venire tramutato in una macchina del tempo, richiede una forma di materia ed energia che può esistere solo se scendiamo alla scala subatomica. Ed è l’aspetto più sconcertante: dovremmo mantenere il cunicolo aperto con una massa negativa. Sembra una follia pensare che qualcosa abbia una massa minore di zero! Anche se ciò non viola le leggi della fisica come le conosciamo, può darsi che noi non comprendiamo tali leggi ancora bene.
GIULIO GIORELLO — Comunque sia, i cunicoli potrebbero suggerire una connessione tra i viaggi nel tempo e un’altra questione della fisica attuale, il teletrasporto. Come è noto, uno dei problemi della fisica quantistica è quello del cosiddetto entanglement. Due particelle dopo aver interagito sembrano ancora influenzarsi reciprocamente a grandissima distanza: non è anche questo uno scandalo intellettuale? Lei allora ipotizza che tali particelle potrebbero comunicare l’una con l’altra attraverso un cunicolo…
JIM AL-KHALILI — Quest’ultima è un’idea affascinante, che alcuni fisici teorici, come Leonard Susskind (Stanford University) e Juan Maldacena (Princeton), prendono piuttosto sul serio. A lungo ci ha impressionato l’idea che due distinte particelle possano restare «intrecciate» (entangled), ovvero in comunicazione istantanea l’una con l’altra attraverso lo spazio! Un modo di spiegare tutto ciò è immaginare che le due separate regioni dello spazio siano collegate a livello quantistico l’un l’altra da un cunicolo: una sorta di cordone ombelicale che legherebbe le due particelle in una dimensione superiore. Sembra quasi fantascienza, ma spero che sia una convinzione corretta, perché è assai elegante.
GIULIO GIORELLO — Comunque vadano le cose, lei alla fine si congeda dai lettori ammonendoli che tutti noi dovremmo sempre «usare con saggezza le nostre nuove conoscenze». Però, la storia della fisica del XX secolo non rende un po’ precario questo appello alla saggezza? Pensiamo all’uso militare del nucleare...
JIM AL-KHALILI — Ha ragione, ma resto ottimista. La mia più profonda convinzione è che la conoscenza scientifica e i progressi tecnologici, in sé, non siano né buoni né cattivi. Quello che conta è come li usiamo. Così è stato in tutta la storia. E non possiamo bloccare il progresso e nemmeno l’acquisizione di nuovi lumi. Dobbiamo lavorare perché la società comprenda rischi e conseguenze...
GIULIO GIORELLO — Lei accenna al fatto che i viaggi nel tempo e il teletrasporto prendono vita non solo nelle nostre equazioni ma nella fantascienza. E il premio Nobel Kip Thorne, quando collaborava alla sceneggiatura del film Interstellar, diceva che gli piaceva costruirne la trama basandola sulle equazioni delle nostre migliori teorie fisiche. Non potrebbe valere anche l’inverso? Non si potrebbe usare la fantascienza per «avvicinarsi alla saggezza»?
JIM AL-KHALILI — Spesso gli scrittori di fantascienza sono stati capaci di predire non solo le conquiste scientifiche e le loro applicazioni, ma anche le risposte dell’umanità. Sono favorevole al doppio scambio tra scienza e fantascienza. E aggiungo che gli scrittori di fantascienza possono avere un ruolo rilevante nel focalizzare le opportunità e i pericoli delle nuove tecnologie.
GIULIO GIORELLO — Anche questa sarebbe una buona forma di Illuminismo.
Corriere La Lettura 20.5.18
Il razzismo uccide il welfare
Quale destino per lo Stato sociale?
I partiti xenofobi sono una minaccia: difendono in modo cieco uno status quo che non può durare
conversazione di Maurizio Ferrera con Ellen Immergut
Negli ultimi quattro anni Ellen Immergut ha coordinato il progetto di ricerca europeo forse più ampio e ambizioso sul welfare. Il titolo è Welfare State Futures e in un certo senso contiene già un messaggio: gli scenari possibili sono tanti, nessuno è predeterminato, ci sono margini di scelta. Le chiediamo innanzitutto se tra i futuri possibili c’è anche la fine del welfare, o quanto meno l’estinzione dell’impegno pubblico su questo fronte.
ELLEN IMMERGUT — Il welfare state è una delle istituzioni chiave per la promozione della solidarietà. Le sue politiche hanno praticamente eliminato la povertà fra gli anziani. Le persone tendono a dimenticare com’era la situazione negli anni Trenta e Quaranta. In tutta Europa, l’assistenza sanitaria è ormai universale e di buona qualità. Esistono ovunque reti di sicurezza di base per disoccupazione, invalidità, indigenza estrema. Il punto di partenza deve quindi essere il riconoscimento di un grande successo europeo. E la stragrande maggioranza degli europei concorda (molto più che gli americani o i giapponesi) sul fatto che sia compito dello Stato occuparsi degli anziani e delle persone malate o invalide. Oggi però tendiamo a dare le realizzazioni del welfare per scontate. Così le persone iniziano a chiedersi: perché ce l’abbiamo? Ne vale la pena? Perché dovremmo pagare così tanto? Non sono solo i vincoli economici a minacciare le realizzazioni dello Stato sociale, ma anche una certa erosione del sostegno dei cittadini. È a questo processo che dobbiamo guardare, se ci sta a cuore l’impegno pubblico per il welfare.
MAURIZIO FERRERA — In una società che invecchia bisogna certo proteggere le persone fragili, ma al tempo stesso assicurare che vi siano abbastanza persone attive e produttive proprio per pagare i costi del welfare. Senza crescita, lavoro e gettito fiscale, non potremo più permetterci gli attuali livelli di protezione. Con il calo della natalità, le dimensioni delle forze di lavoro si stanno rapidamente riducendo, mentre aumenta il numero degli anziani. Possiamo davvero aspettarci che i lavoratori più giovani siano disposti a versare contributi e tasse inevitabilmente crescenti?
ELLEN IMMERGUT — È chiaro che in regime di democrazia il futuro dello Stato sociale dipenderà da quanto gli elettori sono disposti a pagare e da quali prestazioni esattamente verranno considerate meritevoli di essere erogate. Per mantenere un po’ di equilibrio fra popolazione attiva e anziana bisogna puntare di più su giovani e immigrati, facendo molta attenzione alla quantità e qualità degli investimenti che facciamo (in particolare creando servizi) per sviluppare, consolidare e incrementare nel tempo il loro capitale umano. Peraltro i servizi sociali creano lavoro e aumentano le entrate fiscali. Sappiamo che la diseguaglianza inizia ancor prima della nascita, e questo è esattamente ciò che gli investimenti sociali (ad esempio per l’istruzione e la cura della prima infanzia fra 1 e 3 anni) possono combattere.
MAURIZIO FERRERA — Da un paio di decenni le disuguaglianze stanno crescendo ovunque e la grande recessione ha esacerbato questa tendenza. È un noto paradosso della politica il fatto che, al crescere delle diseguaglianze, tende a diminuire il sostegno per la redistribuzione, a erodersi l’ethos della solidarietà.
ELLEN IMMERGUT — Le nostre ricerche confermano che ciò che le persone sostengono non è la redistribuzione, ma la condivisione dei rischi. Ciò che si desidera e si apprezza è l’assicurazione contro l’insorgenza di bisogni a cui non potremmo far fronte da soli nel corso della vita. Di conseguenza, più grande è la platea di persone che sentono di condividere dei rischi considerati come «comuni», più forte è l’impegno per la solidarietà e più forte il sostegno allo Stato sociale. Se i rischi diventano parcellizzati, allora il supporto cala. La crescita delle diseguaglianze non ha riguardato solo il reddito, ma anche la distribuzione dei rischi fra i vari strati sociali, rendendo alcuni di questi ceti potenzialmente più autosufficienti, altri molto più vulnerabili.
MAURIZIO FERRERA — Uno dei settori in cui la parcellizzazione dei rischi e delle coperture è stata più marcata è forse la salute. Da un lato è aumentato il divario in termini di speranza (e qualità) di vita fra poveri e ricchi. Dall’altro, questi ultimi hanno le risorse per acquistare polizze private che consentono loro di accedere alle terapie più costose e sofisticate, senza liste d’attesa. Avete trovato evidenza che queste dinamiche erodano il senso di solidarietà e il sostegno per l’universalismo?
ELLEN IMMERGUT — Abbiamo osservato che cosa succede quando le persone passano dalla copertura pubblica a quella privata o aderiscono a schemi complementari. In effetti si nota un certo declino nella disponibilità a sostenere lo Stato sociale e una minore propensione alla solidarietà. È importante sottolineare, tuttavia, che la sanità universale non deve necessariamente essere gestita per intero dallo Stato. Anzi, il sostegno per l’uguaglianza sanitaria è leggermente più alto nei sistemi basati su assicurazione obbligatoria (pubblica o su base occupazionale) rispetto ai sistemi universalistici puri. Il punto chiave è che la solidarietà viene incoraggiata quando le persone si considerano parte di un insieme comune di istituzioni: tutti partecipano ai costi e tutti ricevono uguale trattamento.
MAURIZIO FERRERA — Fammi capire. In Italia, come in Gran Bretagna o nei Paesi nordici, abbiamo un servizio sanitario pubblico universale finanziato dalle imposte. I cittadini/utenti non sanno bene quanto pagano e sono consapevoli che molti contribuenti evadono le tasse o non pagano il giusto. La tendenza degli ultimi decenni è stata semmai quella di aumentare i ticket (le compartecipazioni). Questo disegno non rischia di alimentare un senso di sfiducia e persino di ingiustizia? Come fanno i Paesi nordici a conciliare sostenibilità, universalismo, solidarietà, in un contesto dove gli utenti sono comunque abituati a pagare ticket anche per le visite del medico pubblico o per i ricoveri ospedalieri?
ELLEN IMMERGUT — Si tratta di questioni complesse, nessun sistema è immune da rischi di insostenibilità, delegittimazione e de-solidarizzazione. Però, ripeto: quanto più estesa e omogenea è la copertura, tanto più elevato il potenziale di solidarietà. Le compartecipazioni finanziarie da parte degli utenti più abbienti sono la regola in tutti i servizi sanitari finanziati tramite imposte. Così come un po’ ovunque si stanno diffondendo forme di copertura integrative, a volte incentivate dallo Stato per le categorie più deboli (come sta avvenendo in Francia). Ciò che conta è evitare la dualizzazione, ossia l’uscita dal sistema pubblico di intere categorie sociali che si assicurano e si curano solo nella medicina privata. Poi contano le tradizioni culturali (gli inglesi sono tradizionalmente molto fieri e gelosi del Nhs), le campagne dei media (i norvegesi si lamentano perché i Vip ricevono trattamenti speciali), il grado di corruzione (che erode il sostegno alla solidarietà pubblica in alcuni Paesi dell’Est europeo). La solidarietà sanitaria non è solo collegata a fattori organizzativi o regolativi, ma va costantemente coltivata sul piano politico e comunicativo.
MAURIZIO FERRERA — E veniamo a un altro tema scottante: l’immigrazione. Hai detto che, anche per contrastare l’invecchiamento demografico, le società europee devono non solo accogliere, ma anche investire sugli immigrati, soprattutto i più giovani. Si tratta però di una sfida piuttosto delicata, anche sul piano politico.
ELLEN IMMERGUT — Certo. Ma ormai gli immigrati regolari rappresentano quote vicine al 10% della popolazione, di più se consideriamo solo la popolazione adulta. La domanda che ci dobbiamo porre non è solo quanti immigrati in più possiamo o dobbiamo accogliere, ma quali sono gli orientamenti di coloro che già sono fra noi, soprattutto quelli che votano o voteranno. In base alle nostre ricerche, i migranti non richiedono né usufruiscono di prestazioni sociali in misura maggiore dei nativi. Non sono tuttavia un gruppo omogeneo e i loro orientamenti sono strettamente correlati alla cultura dei Paesi d’origine. In generale, i livelli di sostegno alla spesa per pensioni di vecchiaia e per l’assistenza sanitaria sono inferiori rispetto ai livelli dei nativi. Se vogliamo assicurare la sostenibilità del welfare, dobbiamo puntare all’integrazione sociale e culturale dei migranti, in modo che accettino di fare la propria parte per sostenere le pensioni dei nativi anziani. L’interesse verso le politiche di investimento sociale a favore di donne e bambini dipende poi molto dalla cultura e dai valori dei contesti di provenienza, specie per quanto riguarda i rapporti di genere: anche questo è un fattore da considerare.
MAURIZIO FERRERA — Resta comunque il problema dell’accoglienza. In tutta Europa si è alzato il vento del populismo sovranista e a volte anche xenofobo.
ELLEN IMMERGUT — Il populismo è in parte il risultato dell’incapacità dei partiti tradizionali di governo di spiegare e giustificare le politiche di austerità e la gestione dei flussi migratori. Il contraccolpo populista non è arrivato quando abbiamo toccato il culmine dell’austerità, della grande recessione, della crisi migratoria. È arrivato con un certo ritardo, quando i nuovi leader populisti sono riusciti a mobilitare gli elettori più vulnerabili, più colpiti dalla crisi, più arrabbiati per aver fatto sacrifici senza che vi fosse adeguato riconoscimento dei loro problemi e difficoltà. E anche una distribuzione equa dei costi della recessione, visto che alcune categorie si sono addirittura arricchite.
MAURIZIO FERRERA — Quali spazi esistono oggi per le politiche di investimento sociale che sembrano indispensabili per assicurare il futuro del welfare?
ELLEN IMMERGUT — I nostri dati suggeriscono che la minaccia maggiore è collegata al populismo di destra. Dove il populismo sovranista è più debole, i partiti di centrosinistra e persino di centrodestra sono più propensi a promuovere gli investimenti sociali. In presenza di sfidanti di destra populista, invece, anche partiti tradizionali si concentrano sulla difesa dello status quo. Questo effetto è chiaramente connesso alla competizione per il voto della classe operaia culturalmente conservatrice, che preferisce mantenere le cose come stanno.
MAURIZIO FERRERA — Dunque le chiavi per i diversi possibili futuri del welfare sono nelle mani della politica. E l’ascesa dei populisti non lascia ben sperare: in questo senso ciò che accadrà in Italia nei prossimi mesi potrebbe essere una cartina di tornasole per tutta l’Europa. A proposito, non credi che la Ue abbia una certa responsabilità in ciò che è successo? E che, d’altra parte, l’uscita dall’impasse populista non possa che passare da una riforma dell’Unione?
ELLEN IMMERGUT — L’Europa ha un grave problema di legittimità e l’istituzione chiave che promuove la solidarietà e la legittimità, ossia lo Stato sociale, è uscita seriamente danneggiata dalla crisi. A mio parere, alcune recenti iniziative della Ue vanno nella giusta direzione. Pensiamo all’attenzione per gli investimenti sociali entro il patto di stabilità e all’istituzione di un pilastro europeo dei diritti sociali. Tuttavia, bisogna passare dalle dichiarazioni solenni alla realtà pratica. E soprattutto, abbiamo bisogno di una «filosofia pubblica europea». Un insieme di princìpi, di regole condivise ma certe di mutua collaborazione, nonché di pratiche comunicative che rendano l’azione delle autorità pubbliche — a cominciare da quelle Ue — eticamente plausibili e difendibili. In Europa abbiamo molte regole, ma anche molte esenzioni da queste regole. Ciò ferisce la legittimità dell’Unione. Il pilastro sociale europeo deve trasformarsi in un piano chiaro ed efficace. Questo è ciò che i pubblici democratici europei si aspettano e si meritano.
Corriere La Lettura 20.5.18
Gli Sforza , magnifici parvenu
Dopo l’estinzione dei Visconti conquistarono il ducato con le armi ma non furono amati dalla città
di Paolo Grillo
Il 5 settembre del 1395, Gian Galeazzo Visconti fu proclamato duca di Milano. Sembrava che il potere dei Visconti fosse giunto al culmine, ma in realtà la carica si rivelò una camicia di forza che finì col soffocare la dinastia. Dopo il 1395, infatti, un solo ramo della famiglia poté assicurare una successione legittima al titolo e così, quando nel 1447 il figlio di Gian Galeazzo, Filippo Maria Visconti, morì senza fratelli viventi e senza eredi maschi, il ducato rimase vacante. Mentre i grandi sovrani europei — dal re di Francia ad Alfonso di Aragona, all’imperatore eletto — rivendicavano il titolo ducale e i veneziani avanzavano in armi, sperando di impadronirsi della città, i maggiorenti milanesi assunsero il potere, rinnovando il Comune: un ordinamento poi conosciuto col nome di Repubblica Ambrosiana. Con un enorme sforzo finanziario, la Repubblica arruolò i migliori condottieri dell’epoca e colse vittorie su tutti i fronti. Particolarmente importante fu la sconfitta inflitta ai veneziani nella battaglia di Caravaggio, il 15 settembre 1448, ad opera della compagnia di Francesco Sforza. Il grande successo, però, si volse a danno per la Repubblica, dato che lo Sforza decise di approfittarne per conquistare il governo di Milano.
Nato nel 1401, Francesco era figlio del romagnolo Muzio Attendolo Sforza, uno dei primi grandi condottieri italiani, comandante di una compagnia di mercenari che fu al servizio dei principali Stati italiani dell’epoca. Alla morte del padre, nel 1424, Francesco gli subentrò alla guida dell’unità e in breve si conquistò una fama di abile comandante e sottile diplomatico, che portò con sé contratti sempre più lauti e importanti con le maggiori potenze della penisola. Nel 1441, per assicurarsene i servigi, Filippo Maria Visconti gli diede in moglie la figlia naturale, Bianca Maria, accompagnata, come dote, dalla città di Cremona. Insomma, egli aveva già importanti interessi in Lombardia e la parentela con Filippo Maria gli permetteva di rivendicare il titolo ducale. Lo Sforza marciò quindi in armi contro Milano: per tutto il 1449 si combatté e alla fine la cittadinanza, stremata dal lungo conflitto, accettò di sottomettersi al condottiero, il 26 febbraio 1450.
La situazione però non era favorevole. Francesco, come illustra Carlo Maria Lomartire nel libro Gli Sforza (Mondadori), era entrato a Milano imponendosi con la forza delle armi e il suo consenso fra la popolazione era minimo, dato che anche agli occhi più benevoli restava un parvenu forestiero. Grave era anche il problema del titolo ducale. Nel Trecento impadronirsi del potere con le armi era pratica comune. A metà Quattrocento tutto era più complicato: per i potenti europei, Milano doveva continuare ad avere un duca, ma lo Sforza non aveva reali diritti di successione e gli imperatori si rifiutarono per decenni di mettere in regola la sua posizione e quella dei discendenti.
Il condottiero, però, era anche un politico assai abile e riuscì a trasformare queste due debolezze in elementi di forza. Con una mossa molto ardita, ribaltò completamente il senso della carica ducale: se Gian Galeazzo Visconti l’aveva utilizzata per fondare il suo potere sull’Impero e non sul popolo di Milano, ora Francesco decise di ignorare l’imperatore e di proclamarsi duca per volontà della cittadinanza. Inoltre, egli concluse con Milano e con le altre città del dominio dettagliati patti di sottomissione, che regolavano diritti e doveri delle parti e davano un fondamento contrattuale al potere del duca, limitandone le possibilità di agire ad arbitrio.
Un’attenta politica di sostegno alle attività produttive e la lunga stagione di tranquillità seguita alla pace di Lodi (1454) fra le maggiori potenze italiane contribuirono a creare un certo consenso attorno al nuovo signore. Questo venne però in gran parte cancellato dai suoi eredi: il figlio Galeazzo Maria intraprese una politica sempre più dispotica e accentratrice, tanto da finire assassinato da una congiura nel 1476. Gli succedette il bambino Gian Galeazzo Maria, che però non governò mai, sottoposto alla reggenza della madre prima e dello zio Ludovico il Moro poi. Quest’ultimo divenne duca nel 1494, alla morte del nipote, e il suo governo si distinse per la magnificenza della corte, ma anche per il pesante fiscalismo, necessario per sostenerne le ambizioni politiche.
Lo sforzo di legittimazione della dinastia sforzesca passò anche attraverso la politica culturale, che rappresentò sicuramente la sua più grande eredità. Attorno a Francesco si raccolse un gruppo di intellettuali umanisti, fra cui l’architetto Filarete, che per il duca progettò il grande e innovativo Ospedale maggiore. Dal 1463 venne edificato l’imponente convento domenicano di Santa Maria delle Grazie, al cui finanziamento parteciparono largamente gli Sforza. Nel 1477 giunse a Milano il Bramante, che lavorò a diverse chiese cittadine, ma l’apogeo si ebbe sotto il governo di Ludovico il Moro, che fu per quasi un ventennio il mecenate di Leonardo da Vinci. Leonardo lavorò per lo Sforza come pittore, architetto, musicista e organizzatore di feste.
Ma il rapporto degli Sforza con i milanesi non fu mai del tutto risolto. Fra i monumenti dell’età sforzesca non bisogna dimenticare il grande castello di Porta Giovia (noto appunto come Castello Sforzesco), completamente ricostruito e ampliato fra il 1452 e il 1476. Ancora oggi si vede bene come le più possenti fortificazioni — le due grandi torri rotonde — siano rivolte contro Milano e non a sua difesa. La rocca rimase simbolo di un potere che desiderava l’appoggio dei cittadini, ma che in fondo ne diffidava e li teneva sotto controllo con la forza. La dinastia, come è noto, fu travolta dalle guerre d’Italia seguite all’ingresso nella penisola del re di Francia Carlo VIII, senza trovare soccorso nella popolazione di Milano e delle altre città soggette. Il Castello Sforzesco si rivelò nei fatti dannoso per gli Sforza, dato che per un principe, come ammoniva Niccolò Machiavelli, «la migliore fortezza che sia è non essere odiato da’ popoli».
Corriere La Lettura 20.5.18
Islamisti e neonazi, i gemelli diversi
di Danilo Taino
Logica vorrebbe che due terroristi, uno d’estrema destra e xenofobo, uno islamista e anti-occidentale, messi nella stessa stanza mirassero alle rispettive giugulari. Non è scontato. Potrebbero benissimo scambiarsi opinioni su complotti globali giudaico-massonici, bestemmiare contro gli Usa e la Ue, sostenersi a vicenda nell’odio contro la società liberale. Julia Ebner studia da più di 3 anni entrambi i mondi popolati da questi estremisti: li ha incontrati, ci ha parlato, è andata con loro alle manifestazioni, li ha seguiti sui social. La sua conclusione è che hanno straordinari punti di contatto e, anche se apparentemente armati uno contro l’altro, si alimentano a vicenda.
Ebner è una ricercatrice non ancora trentenne del britannico Institute for Strategic Dialogue. L’anno scorso ha pubblicato il risultato del suo lavoro sul campo, da infiltrata, The Rage, che è appena stato tradotto in italiano da NR Edizioni (in ebook ma anche stampabile via Amazon) col titolo La Rabbia. Connessioni tra estrema destra e fondamentalismo islamista. Inizia così: «Bere sidro con militanti di estrema destra non fa parte del mio ideale di come passare una domenica mattina rilassante. Discutere della formazione di un califfato nel Regno Unito non fa parte di come trascorro normalmente il sabato sera. Nonostante questo, il 5 novembre 2016, ho interrotto la mia routine e, nel giro di 20 ore, mi sono tuffata in due mondi estremisti radicalmente opposti che, avrei presto realizzato, sono le due facce della stessa medaglia».
In che senso facce di una medaglia?
«Innanzitutto dal punto di vista della narrazione. Al loro interno raccontano le stesse storie, vedono gli stessi complotti internazionali. Su una serie di questioni hanno ideologie simili: antisemitismo, antiliberalismo, opposizione alla società multiculturale, ricerca della purezza. Dal punto di vista delle loro strategie, inoltre, sono complementari nell’obiettivo di dividere le società. Isis, Al Qaeda, neonazisti: cercano di polarizzare le società».
Non crede però che il lato religioso del terrorismo islamista segni un’importante differenza?
«Sicuramente la religione ha un ruolo maggiore tra gli islamisti. In realtà, anche gli estremisti della destra dicono spesso di avere riferimenti cristiani. In entrambi i casi, però, la religione è strumentale ad altro. Non è il cuore dell’ideologia e dell’attività di questi movimenti. Sia gli islamisti che gli estremisti di destra hanno come riferimento narrativo l’Armageddon, lo scontro finale, ma molti si radicalizzano non per le loro opinioni religiose. Più per motivi di identità, o per torti subiti, per il peso della globalizzazione. Certo, la religione ha un ruolo».
Il terrorismo islamista pare un movimento internazionale in qualche modo unificato. Quello di destra no.
«Questa è una differenza importante, una delle più significative. Il terrorismo islamista ha una maggiore coerenza complessiva. La destra è invece formata da diverse sottoculture, è più frammentata, divisa: coopera poi globalmente, attraverso internet, ma su obiettivi nazionali e in modo opportunistico, volta per volta».
Intende dire che l’estremismo di destra non ha obiettivi globali?
«Sì. Un’attività internazionale però l’ha. Durante la campagna per le elezioni italiane di marzo, per esempio, i movimenti estremisti di destra internazionali sono stati piuttosto attivi. Su Telegram ho potuto seguire americani che usavano lo stesso linguaggio della alt-right degli Stati Uniti e davano consigli politici agli attivisti italiani».
L’impressione è che le motivazioni degli islamisti siano di conquista, ad esempio di un califfato. Mentre quelle della destra sembrano difensive, a cominciare dall’opposizione a un’Europa islamizzata. Ciò che dovrebbe mettere i due estremismi in contrapposizione.
«In realtà sono tutti e due difensivi. Entrambe le narrative sottolineano l’oppressione a cui sarebbero sottoposti i loro popoli, le discriminazioni, le invasioni subite o temute. C’è la paura comune dell’influenza dello straniero che distrugge l’identità. Per entrambi si tratta di difendere per purificare o restare puri».
Lei ha conosciuto e frequentato molti islamisti e neonazi. Credono davvero alle storie che si raccontano tra loro?
«Certo. Non percepiscono sé stessi come estremisti. Sono membri attivi dei movimenti e sono assolutamente convinti della giustezza del proprio vittimismo o dell’indiscutibilità della cospirazione globale contro di loro. Questo giustifica anche le azioni estreme. È che vivono in un ambiente sociale che non mette mai in questione l’ideologia a cui fanno riferimento. Vivono tra loro, come in stanze insonorizzate, chiuse e isolate».
Islamisti e destra sono uniti anche dall’antisemitismo?
«Certamente. Da questo punto di vista molto spesso si sovrappongono. Le teorie cospirative con al centro gli ebrei sono diffusissime. Ci sono stati anche casi di cooperazione, ad esempio in Germania: assalti contro obiettivi ebraici e contro la sinistra condotti in collaborazione. Anche nel caso dell’attacco al supermercato ebraico a Montrouge, il giorno dopo la strage di “Charlie Hebdo”, a Parigi, si è scoperto che uno dei fratelli Coulibaly usò un kalashnikov che gli era stato procurato dall’estrema destra. Ci sono neonazisti diventati islamisti».
Ci sono altre ragioni di contatto?
«Si usano l’un l’altro per convincere la popolazione che è necessario radicalizzarsi e combattere. È un circolo di radicalizzazione che si autoalimenta, gli uni hanno bisogno degli altri. A Brema, in Germania, per esempio, nel settembre 2016, in occasione di una manifestazione organizzata dal predicatore islamico Pierre Vogel (Abu Hamza), si ritrovarono 300 salafiti, 150 militanti d’estrema destra, 200 attivisti d’estrema sinistra: ognuno marciava contro gli altri ma erano uniti nel voler creare divisione e polarizzazione. Questo è il circolo pericoloso: il rischio è che abbiano successo. Altro forte punto che li accomuna è l’essere contro società e democrazia liberali. Provocano per spingere a eccessi di reazione. Per minare i diritti civili e umani».
Vede legami ideologici e politici tra questi estremismi e i movimenti populisti in Europa e negli Stati Uniti?
«Il legame sta sempre nella narrazione. Quella degli estremisti islamici e di destra è spesso simile a quella dei populisti: i complotti, gli stranieri, il diverso, le storie ultra semplificate. L’ipersemplificazione è un grande amplificatore sia per i populisti che per gli estremisti».
Ambedue gli estremismi, con le loro ramificazioni terroriste, sono a suo avviso più il prodotto del disordine internazionale o una causa?
«Sono effetto e causa insieme. Il terrorismo islamista è certamente legato e incoraggiato dall’attività dell’Isis, di Al Qaeda. La strage dei giorni scorsi in tre chiese in Indonesia, a Surabaya, è stata condotta da un’intera famiglia, padre, madre e figli: segno che il modello di Boko Haram di utilizzo di donne e ragazzi in questo momento di crisi dell’Isis è attraente. L’atmosfera in cui si radicalizzano in Europa le destre ha invece origine nel risentimento contro i musulmani. Ma entrambi, poi, si ritrovano in un obiettivo comune che non è tanto di uccidere ma una strategia di lungo termine: creare un’atmosfera d’ostilità diffusa, di scontro».
Corriere La Lettura 20.5.18
Bisogni
Ciascuno vive il suo romanzo
Freud insegna: disertare fa bene
Ogni letteratura è di evasione
di Emanuele Trevi
Non c’è niente da fare: anche in culture e periodi storici disposti a riconoscere i diritti al principio del piacere e alle sue svariate esigenze, al concetto di «evasione» si accompagna, come un arcano e incontrollabile riflesso condizionato, una certa dose di riprovazione morale, tanto più insidiosa quanto più facilmente occultata dietro una maschera di benevola tolleranza. Nel campo della letteratura e in particolare del romanzo, la questione è bruciante ancora oggi, anche se è quasi scomparsa l’autorevolezza dei critici di una volta, con il loro minaccioso dito puntato a distinguere l’alto dal basso, il commerciale dall’autentico. Va bene, ma quale scrittore sarebbe soddisfatto nel sentirsi confinare nella sfera della «letteratura d’evasione»? Non si fa in tempo a pronunciare le parole, che già si spande nell’aria un odore inconfondibile di insulto e degnazione. Evasore sarà lei!
Non è una questione di generi narrativi, evidentemente. Che scriva saghe familiari o fantascienza, storie d’amore o gialli, in ogni scrittore agisce l’ambizione di creare un’immagine credibile del mondo. Qualunque cosa si intenda con questo termine così opinabile, è pur sempre la «realtà», o meglio una certa idea o fantasma della «realtà», la posta in gioco suprema dell’atto di immaginazione richiesto al lettore. E poco importa, in fin dei conti, che i cosiddetti piedi sulla terra posino su un terreno mutevole e inaffidabile, che si può considerare solido solo per la forza dell’abitudine e delle convenzioni. Tutto nella nostra educazione di occidentali concorre a metterci in sospetto contro ogni tentativo di fuga, considerato come una diserzione bella e buona: il primato della storia sul mito e dell’utile sul superfluo, la certezza di un progresso indefinito, l’idea stessa dell’uomo come animale politico. Sono idee potenti, tutt’altro che facili non dico da scalzare, ma da mettere in discussione. Potremmo chiuderci in biblioteca a studiare per anni i maestri indiani, affascinati dai concetti, così misteriosamente consolatori, dell’impermanenza e dell’illusorietà delle apparenze. Non avremmo certo perso tempo, ma le idee che leggiamo nei libri difficilmente hanno presa sulle nostre convinzioni profonde. Quanto più ci angoscia, tanto più la «realtà» esercita su di noi un potere ipnotico, come lo sguardo di una Medusa che possiamo sopportare solo perché i nostri simili sono lì a subirlo assieme a noi.
Eppure, il gregge umano ha una caratteristica che lo rende diverso da tutti gli altri, e incomparabilmente più complesso, imprevedibile, affascinante. Potremmo definirlo come un gregge composto di miliardi di pecorelle smarrite. La maggior parte degli individui si adegua, più o meno faticosamente, al piano collettivo della «realtà». Ma mai in maniera così completa da non nutrire, nel segreto inviolabile della sua coscienza e delle sue pulsioni profonde, un irrimediabile desiderio di assentarsi, disertare, tagliare la corda. E la lima che taglia le sbarre della prigione è proprio un’attività narrativa che ci trasforma tutti in romanzieri di noi stessi.
Con la sua straordinaria abilità a descrivere i processi mentali, Sigmund Freud fotografò alla perfezione il fenomeno in un breve saggio del 1909 intitolato Il romanzo familiare del nevrotico. È su queste pagine, pervase di un’umanissima ironia, che andrebbe fondato un possibile elogio dell’evasione. Freud ci introduce a un artigianato mentale che manipola senza sosta i dati dell’esperienza, trasformando, come per magia, le frustrazioni in vantaggi, i desideri più inconfessabili e impossibili in piaceri goduti. Un romanzo interminabile ci accompagna così lungo il sentiero impervio e sassoso della vita «reale»: è lì che finiamo sempre per vincere, sormontando le avversità; è lì che teniamo in mano il mondo come un’eredità e un oggetto magico. Probabilmente, colui che Freud definisce il «nevrotico» non è altro che l’essere umano, questo animale diviso a metà, lacerato tra la forza di gravità del qui e la leggerezza incorporea dell’altrove. Tutta la letteratura, da questo punto di vista, è letteratura d’evasione. Si trattasse anche solo di immaginare la prigione in cui è rinchiuso, per il prigioniero anche questa è una specie di libertà, una via di fuga.
Il Sole Domenica 20.5.18
Tradurre i classici: «la mite» di Dostoevskij
Maestro di eloquenti silenzi
di Serena Vitale
Il racconto «La mite» di Dostoevskij narra di un uomo la cui moglie, suicidatasi poco prima, è stesa davanti a lui. Il suo soliloquio, delirante e sconnesso, con esitazioni, ripetizioni, balbettii è stato tradotto per Adelphi (in libreria il 22 maggio) da Serena Vitale. Qui, scelti dalla stessa Vitale, anticipiamo stralci del testo di Dostoevskij e della curatrice
La scrittura sovversiva, disarmonica, «goffa» di Dostoevskij, la sua costante violazione delle norme (stilistiche, grammaticali, lessicali – d’ogni genere) suscitò fin dagli inizi giudizi severi. Persino parodie. (…) Da molti, anche in seguito, lo «stile» dostoevskiano fu accusato di prolissità, monotonia, enfasi, sentimentalismo, eccesso - di ripetizioni, epiteti altisonanti, prestiti dal parlato e dal linguaggio delle cancellerie, diminutivi, e così via. Tolstoj diceva: «Nonostante l’orrenda scrittura, in Dostoevskij si trovano pagine straordinarie», mentre Nabokov spiegava ai suoi studenti americani: «La fastidiosa ripetizione di parole e frasi, l’intonazione di chi è posseduto da un’idea ossessiva, l’assoluta banalità di ogni parola e la magniloquenza a buon mercato caratterizzano lo stile di Dostoevskij... ». Quanto al periodo sovietico, di ben più gravi colpe fu imputato lo scrittore «reazionario » che «predicava il cristianesimo e lottava contro l’ateismo, che rifiutava i metodi violenti della lotta rivoluzionaria », ecc.
Dopo la parziale riabilitazione, a sua discolpa si levò, fra altre, la voce dell’insigne accademico Dmitrij Licha?ëv; spiegò che la «sciatteria», le varie forme di consapevole e intenzionale «imprecisione» linguistica sono giustificate «dal desiderio di un’incompiutezza che stimoli il pensiero del lettore, che provochi le sue conclusioni, riflessioni...». Ma anche quella di Licha?ëv sembra soltanto una tiepida difesa d’ufficio che non risparmia al «grande sperimentatore » nuove, seppure benevole, rampogne: « “Liputin era un uomo inquieto e per di più di basso grado” ... Qual è il legame tra grado basso e inquietudine? ... “La stessa Marija Ivanovna era imbottita di romanzi sin dall'infanzia e li leggeva giorno e notte, nonostante il suo splendido carattere”... Per quale motivo, ci si chiede, uno splendido carattere dovrebbe impedire di leggere i romanzi giorno e notte?».
Per quale motivo, ci si chiede, pretendere «motivi», «legami » - logici, sensati, ragionevoli - dal più misconosciuto estro comico della letteratura russa, dal più abile genio guastatore della letteratura mondiale, capace di far saltare i ponti dei più solidi, apparentemente incrollabili, nessi causali?
Ho tradotto senza limare, ammorbidire, ingentilire («terzo grado di turpitudine nella trasmigrazione da lingua a lingua» secondo Nabokov) il soliloquio - tutto esitazioni, ripetizioni, contraddizioni, balbettii, ripensamenti - dell’uomo rimasto solo davanti al cadavere della moglie. Il concitato e torrenziale monologo del «maestro di silenzi eloquenti» (maestro, anche, di consapevole ignoranza: soltanto alla fine la «verità » continuamente nominata e sempre elusa gli si rivela, tremenda, e lo ammutolisce) non tollera grazia, eleganza.
Non ho attenuato la coloritura iperbolica degli avverbi; sfruttando una possibilità del russo colloquiale, per esempio, a «molto » Dostoevskij preferisce užasno (da užas, « terrore, orrore ») o strašno (da strach, « paura, terrore »): « tremendamente, terribilmente»... Mi sono permessa soltanto alcune variazioni («di colpo», «di punto in bianco», « d’un tratto », « a un tratto », ecc.) nel tradurre vdrug, « improvvisamente », che compare settantasei volte nell’originale. La sua alta, «sproporzionata» frequenza nell’opera di Dostoevskij (il record appartiene a Delitto e Castigo, con millecinquecentosessanta occorrenze) è stata spiegata con le numerose e brusche «transizioni» dei personaggi a un diverso stato psicologico (M. Slonimskij, V. Toporov), come prova dell’insubordinazione di parole o atti a quanto li precede e potrebbe esserne interpretato come causa (M. Bachtin), addirittura come una eco dell’occasionalismo filosofico di Malebranche, «dove nessun evento ha per sé altro motivo che l’“improvvisamente” sancito da Dio» (K. Baršt).
Per certo l’ossessivo ripetersi dell’apparentemente innocuo monosillabo contribuisce ad accelerare il tempo già spasmodico - misurabile in attimi, istanti, baleni - della narrazione, a tenere il lettore in un quasi doloroso stato di allarme. Per certo vdrug è la forma più elementare in cui si esprime la vocazione dostoevskiana a trasformare i più lievi e impercettibili moti dell’animo, i minimi casi della vita quotidiana, in imprevisti accadimenti romanzeschi, in subitanee catastrofi - in apocalissi. Non a caso «improvvisamente » scompare all’improvviso nell’ultimo capitolo della Mite, dove il tempo è ormai quello della Rivelazione: il sole è morto, dappertutto solo cadaveri ... Ma non ci sono angeli né libri né sigilli, e invece delle trombe si sente unicamente il battito di un insensibile pendolo... Non c’è più nulla, soltanto un paio di scarpine vuote.
Il Sole Domenica 20.5.18
Riletture
Le (dis)grazie di Foscolo
Ipertricotico, irruento, sfortunato, prometteva un suicidio a ogni sua fiamma: il poeta dei «Sepolcri» come non lo avete mai letto
di Ermanno Cavazzoni
Poveretto, Ugo Foscolo, viene da dire leggendo questo interessantissimo libro di Luigi Guarnieri sugli ultimi anni di Foscolo a Londra in esilio, dal 1816 al 1827. È un poeta che nella memoria non resta simpatico, un po’ perché molto scolasticizzato, I sepolcri a quanto ricordo erano un sistema di tortura, li so ancora a memoria, ma per il resto della vita li ho sempre evitati; un po’ per il suo petto peloso, l’irsuto petto di cui si vanta e di cui parla Gadda, anche un po’ più che irsuto, dice Gadda, quasi scimmiesco, come tutto l’aspetto, ipertricotico; e scimmiesco anche negli appetiti sessuali, irruenti, esagerati, rapidi, sospetti di una velocità e di un appagamento precoce (precox, si dice in psicopatologia); questo naturalmente non è argomento scolastico, su questo il professore sorvolava, anche se sarebbe stato istruttivo, sia il vanto del petto peloso, sia le orgasmiche lettere all’innamorata di turno. Però a Londra, negli ultimi anni, poveretto, gli va male tutto, amore, soldi, letteratura; lo fregano ripetutamente, specie i suoi improvvisati editori, e anche lui da parte sua tenta di dar loro delle fregature, con altisonanti promesse, vendendo i classici prodotti di lingua italiana, da Dante in avanti; ma nel bilancio totale sono molto maggiori le fregature che prende, gli inglesi a quel tempo sono senza pietà, sono un secolo più avanti di noi italiani, hanno un’avanzatissima mentalità commerciale, anche con i prodotti della poesia, se non si smercia non pagano, e lui di conseguenza resta ripetutamente senza una sterlina, per cui non paga il sarto, il macellaio eccetera, ossia non si fa trovare quando bussano, e bussano spesso; per cui vive nascosto, e non è una situazione che favorisca l’arte poetica, specie se non si è neppure pranzato, quindi è costretto a emettere cambiali false, ma gli inglesi sono più avvezzi, sono avanti cent’anni in fatto di commercio della poesia o di prodotti consimili, non vanno tanto per il sottile, come farebbero con una partita di mortadella e salumi, sì, grande rispetto per la lingua italiana e i grandi poeti italiani, ma se qualcuno come Foscolo deve vendere a tutti i costi se no non mangia, lo strozzano, nel senso che tirano al ribasso o non pagano, per cui avvocati, la giustizia a Londra funziona perfettamente, ma costa; su denuncia di un sarto suo creditore finisce anche in prigione, solo 15 giorni, per sua sfortuna, perché tutto sommato in carcere un pasto lo danno e ha un tetto gratis. Cerca un insegnamento di lingua italiana all’università, ma non è giudicato all’altezza. Di tutto questo si parla nel libro con ammirevole precisione. Tenta anche di sposare una ricca, Caroline Russell, ma non fa colpo, nonostante il suo metodo sperimentato di esaltazione precoce, che in genere in passato aveva dato discreti frutti, specie se seguito dalla prospettiva di un collasso cardiovascolare amoroso; ma la minaccia non riesce, forse anche per il reumatismo acuto a una gamba che lo fa zoppicare. Le inglesi non danno peso alle disperate lamentele di un poeta, italiano, povero, emigrato, forse troppo peloso per il gusto settentrionale, e inoltre sofferente di ascessi dentali, che probabilmente teneva nascosti; ma chissà che non mandasse anche cattivo odore, per l’alimentazione scarsa e nociva, poveretto, per gli acidi gastrici che danneggiavano il fiato. Povero Foscolo, a scuola non si studiano le sue disgrazie, perché non sono educative, i suoi debiti, le truffe, le malattie, le abitazioni malsane, niente amici, rovina morale e materiale, senza nessun elemento del romanticismo medio europeo, sembra già un maledetto fine ’800, in Inghilterra volenti o nolenti si è un secolo avanti. Sogna spesso di tornare in Grecia, nell’isola natale, comprare una vigna e guardare da un colle il mare Adriatico. Invece nel 1827, ultimo anno di vita, gli si gonfia la lingua, gli cadono i denti, gli si gonfia il torace; per sgonfiarlo gli cavano ripetutamente un secchio di liquidi. Per fortuna ha questa sua tardiva figlia, Floriana, dolce e delicata che lo assiste, quando è quasi in coma. «Come vi sentite?» gli chiedono l’8 settembre. «Muoio» risponde, ma senza lo spirito eroico del suo Jacopo Ortis. Muore il 10 settembre alle 8 e mezza di sera, 49 anni. Lascia tutti gli averi alla figlia, ma non si troverà una sterlina.
Io mi chiedo: come mai questo destino? C’è qualcosa nella vita delle persone che le fa scivolare in una direzione o in un’altra? Difficile rispondere. Certo che nel suo vasto epistolario alle femmine sedotte o in corso di seduzione, Foscolo per fare breccia prometteva se rifiutato il suo sfacelo, e poi lacrime eterne e il suicidio. Negli anni fortunati di gioventù lo prometteva un po’ a tutte. È come se alla fine queste promesse si fossero accumulate in una somma schiacciante. Erano frasi retoriche, certo! accompagnate forse da una parziale foga inguinale; però si vede che anche la retorica troppo insistita acquista peso e consistenza, e da dolore sublime si trasforma in acciacchi gravi, debiti e disgrazie, che schiacciano il disgraziato. Forse si muore quando i conti si sono azzerati e si è in pari. Il caso di Foscolo, comunque, poveretto, mi sembra così.
Luigi Guarnieri, Forsennatamente Mr Foscolo , La nave di Teseo, Milano, pagg. 205, € 17
Il Sole Domenica 20.5.18
Diritto & mito
Edipo e l’equilibrio di poteri
di Mauro Campus
Interrogare i classici per meglio interpretare la contemporaneità è uno degli esercizi cui ogni società matura dovrebbe rivolgersi costantemente. Il nostro rapporto con le radici del pensiero moderno dovrebbe essere automatico perché esse riflettono le caratteristiche delle comunità che nei secoli si sono fondate guardandole. Per i popoli che si sono culturalmente legittimati sul repertorio mitografico fluito dalle esperienze che i classici riassumono e riordinano, tale esercizio è saldato a basilari caratteri identitari. Da questa consapevolezza nasce l’esigenza di due giuristi come Marta Cartabia e Luciano Violante di misurarsi con Edipo, Antigone e Creonte. Com’è intuibile, l’analisi proposta, pur accarezzando a tratti l’approccio filologico, non ha alcuna pretesa di spiegare nuovamente l’enorme messe di riferimenti all’ordine sociale che i miti sintetizzano, si propone piuttosto di indagare le intersezioni fra quei riferimenti e la percezione contemporanea della giustizia e di un efficiente ordine sociale. Si tratta di un ragionamento la cui curvatura riflette la vita professionale dei due autori, i quali hanno sperimentato e sperimentano i dilemmi che un alto ufficio istituzionale pone.
Per quanto Cartabia e Violante riconducano l’analisi al piano giuridico presentissimo in Edipo Re e Antigone, il montaggio del loro ragionamento finisce per incrociare – seppur per allusione – l’attualità politica che, vista da quella prospettiva, richiama le evidenti incrinature dell’equilibrio dei poteri che connotano lo stato di salute della democrazia e della rappresentanza. Si tratta di temi che, sebbene i due saggi (Edipo Re di Cartabia, Antigone di Violante) si tengano correttamente lontani dall’oggi, lo descrivono però con perfezione adamantina. Ma il tentativo di non cadere nell’esplicitazione dei richiami al presente è in realtà limitato dall’universalità dei personaggi e delle vicende affrontate nelle due conversazioni. Il perimetro in cui si articola la riflessione parallela dei due autori è definito dal conflitto tra legge umana e legge divina, tra coscienza individuale e ragion di Stato. Questa è la quinta con cui i due testi stabiliscono una dialettica che guarda i modi attraverso i quali la società occidentale si è costruita, riconosciuta e, poi, è entrata in una crisi che pare a tratti irreversibile, specie quando ancora si confronta con la contrapposizione che dovrebbe immaginarsi superata: quella tra lex e ius. E se Antigone è da sempre un interlocutore privilegiato di chi ne ha osservato la dimensione giuridica, invece i riferimenti all’equilibrio dei poteri e ai dilemmi con i quali chi governa dovrebbe dialogare sono presentissimi in Edipo. Egli è un monarca posto dinanzi alla rovina della città che regge, Tebe, dopo l’assassinio del padre e l’incesto con la madre. È quel crimine che lo colloca al centro di un complesso gioco dei punti di vista, delle ottusità, degli arcani, delle riluttanze dei protagonisti. È il conflitto tra la legge degli avi e la nuova legge della città: un conflitto irrisolto nel V secolo a.C. che ricorda le linee di faglia che la crisi delle democrazie fa sperimentare agli evolutissimi regimi capitalisti contemporanei.
Con il tempo la tendenza a identificare ciò che è buono e giusto con ciò che è consentito dalla legge e ciò che è male con quello che la legge proibisce ha costruito l’identità dell’Occidente e ha alimentato la fiducia nelle virtù del sistema democratico. Un sistema che ha fatto superare la condizione di coro al popolo e lo ha reso cittadino e attore. Ed è da cittadini che ci sentiamo sollevati dalla responsabilità personale di decidere che cosa è buono e che cosa non lo è, ma è nell’esperienza della cittadinanza – pure così confortevolmente mediata – che torna centrale il dilemma tra ciò che è religione, ciò che è morale e quello che il diritto può regolare. Il limes tra queste realtà appare ancora incerto e problematizzato dall’assenza di entità divine capaci di comporre conflitti apparentemente insanabili. Comporre quelle distinzioni ed equilibrarle è però necessario alla civiltà. Sono gli uomini che ora devono – attraverso la mediazione – conciliare tendenze potenzialmente conflittuali e quindi interpretare (o reinventare) lo spirito con cui Atena convinse le Eumenidi a partecipare alla vita della città. Fu quello il modo per interrompere i loro incantesimi e garantire l’edificazione di un futuro florido.
Marta Cartabia, Luciano Violante, Giustizia e mito. Con Edipo, Antigone e Creonte , il Mulino, Bologna, pagg. 174, € 13
Il Sole Domenica 20.5.18
Sei lettere sull’Italia
La denuncia di Pareto
Nei testi ora in italiano, curati da Alberto Mingardi, l’economista documenta gli abusi di potere e il carattere illiberale dello Stato crispino
di Sabino Cassese
Com’era l’Italia in quello che Croce nel 1928 chiamò “periodo crispino” (1887 – 1896)? Può dirsi che fiorirono in quegli anni ideali liberali, perché larga parte della classe dirigente si proclamava liberale? Benedetto Croce, nella sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915, osservava che Crispi «non mai […] si propose o vagheggiò un governo autoritario» e che anzi durante il suo governo si avviò la «trasformazione liberale del socialismo». Abbiamo ora, per la prima volta tradotta in italiano, la testimonianza di un osservatore di eccezione, Vilfredo Pareto (raccolta e presentata con grande cura, dottrina e intelligenza da Alberto Mingardi,), che, in sei “lettere” scritte nel triennio 1888 – 1891 a una rivista americana, presenta l’Italia crispina come un regime statalista, protezionista, militarista, corruttore.
Lasciamo la parola a Pareto. Egli spiega ai suoi lettori d’oltre Atlantico che «la borghesia regna e governa in Italia senza che nessuno la contrasti; il suo potere è così solido che non ha nemmeno bisogno di ricorrere alla forza per mantenerlo». «La borghesia è al potere e ne abusa» perché i partiti popolari sono divisi. Non è solo per il «rispetto per l’autorità fortemente radicato nelle persone», che il governo ha un ruolo dominante, ma anche perché «gli interessi di tutti i cittadini italiani dipendono dallo Stato centrale». «Nei piccoli paesi il governo controlla completamente le elezioni». La legge non è rispettata, tanto che vengono istituite nuove tasse senza autorizzazione legislativa e arrestate persone per solo ordine della polizia, senza decisione dei giudici. I funzionari governativi non possono essere perseguiti, quando violano la legge, perché solo i ministri possono farlo, mentre «la magistratura è sostanzialmente dipendente dal potere esecutivo». «La maggioranza dei borghesi è indifferente […] fintanto che il numero dei posti pubblici messi annualmente a disposizione dei loro figli non diminuisce, fintanto che possono continuare ad arricchirsi grazie al protezionismo, a speculazioni il cui conto viene presentato a tutto il Paese, e a monopoli garantiti loro dal governo, e perché vengano date loro a spese dello Stato tutte le ferrovie che desiderano». Tra i sostenitori del governo e il governo «si stabilisce una sorta di scambio di favori: quest’ultimo lascia loro avere i denari dei contribuenti, mentre loro mettono al suo servizio la loro influenza in tutto il paese». Continua Pareto dicendo che Crispi non era stimato neppure dai suoi sostenitori: «costoro lo hanno sostenuto semplicemente perché era al potere e perché avevano bisogno di lui o per i propri affari privati o per difendere il partito conservatore contro i radicali».
Due delle sei “lettere” di Pareto riguardano la questione meridionale. Pareto osserva che «le condizioni sociali ed economiche della popolazione nella parte settentrionale della penisola sono molto diverse da quelle che prevalgono nella parte meridionale, incluse le isole, Sicilia e Sardegna». Un divario simile si trova solo in Irlanda. Il mezzogiorno è oppresso dalla borghesia, che pratica l’usura. L’unica opposizione è quella del brigantaggio, «fenomeno sociale, non politico». Milano, Genova, Torino hanno una classe lavoratrice che «sente e pensa come in Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti». Nel Sud, invece, «la borghesia e la nobiltà sono strapotenti».
Quando scrive questo violento atto di accusa contro l’autoritarismo crispino, Vilfredo Pareto è un quarantenne ingegnere (era nato nel 1848), lavorava a San Giovanni Valdano, dove era stato anche consigliere comunale dal 1876 al 1882, nonché candidato senza successo alla Camera dei deputati. Era direttore generale della Società ferriere italiane ed aveva stretto legami con l’ambiente intellettuale e politico fiorentino. Proprio negli anni in cui scrisse quelle lettere conobbe il grande economista Maffeo Pantaleoni, con il quale conserverà un rapporto stretto anche dopo, e nel 1893 si trasferirà a Losanna, dove iniziò la sua carriera più nota, dando contributi importanti sia all’economia e alla teoria economica, sia alla scienza politica e alla sociologia.
Le “lettere” paretiane (veri e propri lunghi articoli, da corrispondente estero), scritte nella lingua francese, quella che gli era più familiare, vennero tradotte in inglese dal direttore della rivista alla quale erano destinate o da suoi collaboratori, e vengono ora pubblicate per la prima volta in italiano grazie ad Alberto Mingardi, il quale le ha accuratamente presentate e annotate, ricostruendo l’ambiente di un gruppo individualista, anti-interventista e anti-statalista di Boston, allora il vero centro intellettuale degli Stati Uniti, un gruppo denominato “gli anarchici di Boston”, ispirato dall’azione di Benjamin Tucker, un attivissimo organizzatore di cultura. Tucker animò e diresse dal 1881 al 1908 la rivista «Liberty», alla quale erano destinate le lettere paretiane, oltre a pubblicare libri importanti, di politici e di scrittori, come Burke, Spencer, Wilde e Zola.
Su «Liberty» l’attenzione di Pareto era stata attirata da Sophie Raffalovich, autrice nel 1888 sul «Journal des Économistes» (al quale Pareto aveva collaborato) di un articolo intitolato «Gli anarchici di Boston» (ora in appendice a questo volume), nel quale spiegava che l’ideale del gruppo americano era la «distruzione dello Stato», per affermare la «sovranità individuale», un ideale manchesteriano in contrasto con quello dei socialisti. Evidentemente colpito dal resoconto della Raffalovich, Pareto si offrì di scrivere una serie di “lettere dall’Italia”.
Perché sono importanti questi scritti paretiani e perché è meritoria la presentazione che ne ha fatto Mingardi? Da un lato, perché queste lettere contengono le prime riflessioni di scienza politica di uno dei padri della teoria delle élite. In queste pagine Pareto fa riferimento a concetti che non erano certo comuni in quegli anni, come «classe dirigente» e «classe che regge il potere» e adopera costantemente un metodo comparativo. Dall’altro lato, perché le critiche di Pareto alla «borghesia funzionariale», all’«ignoranza del popolo» (dal quale fa dipendere «quasi tutti i mali della società»), allo statalismo crispino, al carattere illiberale dello Stato crispino, permettono di capire i motivi per cui il fascismo, trent’anni dopo, potette utilizzare tante istituzioni dell’Italia postunitaria, piegandole a sé e valendosi dei suoi funzionari. Gli anni 1901 – 1910, nei quali, secondo la ricostruzione crociana «si attua l’idea di un governo liberale», non furono sufficienti per mutare la natura dello Stato nato dall’unificazione. E la recente poderosa ricostruzione di Guido Melis (La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista, il Mulino) sta lì a dimostrare la disperata conclusione con la quale termina il saggio introduttivo di Mingardi sulla «corruzione e cialtroneria» come tratti costanti della classe dirigente italiana.
Vilfredo Pareto, L’ignoranza e il malgoverno. Lettere a “Liberty” , a cura di Alberto Mingardi, Liberilibri, Macerata, pagg. 112, € 17
Il Sole 20.5.18
Storie di confine
Gulag on the road
Viaggio nella regione più inospitale della Siberia lungo la strada costruita con il sangue dei deportati
di Antonio Armano
Tra i proverbiali mille mestieri fatti da Jacek Hugo-Bader prima di approdare alla scrittura c’è anche il pesatore di porci. Deve essere quello che più l’ha formato perché i suoi libri sono pieni di sostanza. Se i narratori del nouveau roman ci mettevano dieci pagine per descrivere una graffetta, il giornalista polacco riesce a scovare centinaia di storie senza concedersi di indugiare. Mai. Bisogna ripartire, macinare incontri. E dire che Hugo-Bader è stato assunto dalla Gazeta Wyborcza attraverso un annuncio e una prova che poteva traviarlo: descrivere la stanza insignificante in cui lo stavano ricevendo al giornale. In questa incredibile occasione sta la forza di un giornalismo come quello polacco, povero di risorse economiche, ma ricco di grandi cronisti letterari. Hugo-Bader è un Kapuscinski più ruvido e ironico, ma non meno potente e profondo.
Roberto Keller ha appena pubblicato I diari della Kolyma, viaggio in autostop da Magadan a Jakutsk, lungo la strada costruita col sangue dei deportati nella più inospitale regione siberiana. Una terra estrema dove d’estate si superano i trenta gradi, ma si può scendere sottozero a luglio, come quella volta che un gruppo di ragazzini è stato sepolto dalla neve improvvisa nella foresta. La presenza di falde aurifere illumina il libro di una mitologia alla Jack London tra le cupe vicende di gulag: «Benvenuti nella Kolyma, il cuore d’oro della Russia» dice un cartello all’aeroporto. Si scava per trovare il prezioso metallo, senza risparmiare i cimiteri degli zek, i deportati, che non interessano più a nessuno. Tre milioni sono le vittime delle repressioni. I villaggi costruiti vicino a falde aurifere esaurite vengono abbandonati: prima bruciano, poi congelano. Per dirla con Erofeev, che cosa non hanno visto gli occhi del popolo russo?
L’immenso Varlam Šalamov è un fantasma incombente e viene evocato anche alla fine: senza i suoi Racconti della Kolyma, le sue memorie del gulag, non si saprebbe niente di queste terre. Eppure in Russia l’hanno pubblicato solo dopo la morte, avvenuta nel 1982 in un ospizio. La Russia è una regione della letteratura, non sempre riconoscente ai suoi fondatori-autori. Oltre al gulag e all’oro, un elemento ricorrente nelle storie di Hugo-Bader è l’orso. C’è l’orso grande come un carrarmato che semina il terrore sui monti Verchojansk e cade finalmente in trappola. I cacciatori, un padre e due figli, si preparano un tè su un fuocherello, fumano una sigaretta. Il padre si prende la responsabilità di sparare. Impugna il fucile, prende la mira, ma colpisce il cavo che lega il cappio alla trappola. Dei tre cacciatori se ne salva solo uno. L’orso vagherà col cappio di acciaio al collo mietendo in tutto tredici vittime prima di essere abbattuto.
Per raccontare I diari della Kolyma, un libro denso di storie ai confini, non solo territoriali, dell’umanità, bisogna ignorare appunti e sottolineature, affidarsi alla selezione naturale della memoria. Le storie sono tante, troppe. Hugo-Bader ci poteva fare dieci libri. Il momento peggiore per attraversare i fiumi siberiani è quando non sono del tutto ghiacciati e trasportano lastroni che colpiscono le barche facendo un rumore spaventoso. Ma anche quando ghiacciano può accadere che si abbassino di colpo formando sacche d’aria. Le chiamano pustolëd (ghiaccio vuoto) e se ci cammini sopra vieni risucchiato a fondo. Due indigeni jukaghiri sono caduti in un pustolëd. Sono riusciti a uscirne, ma una volta fuori non potevano far altro che attendere la morte avendo perso l’equipaggiamento. Mentre un ingannevole tepore annunciava la fine della lotta per resistere all’assideramento, hanno sentito arrivare qualcuno. Avendo pregato promettendo di convertirsi al cristianesimo se fossero sopravvissuti, i due si sono battezzati. In chiesa hanno visto il ritratto dell’uomo che li aveva salvati. Era proprio lui! Ma chi era? San Nicola di Mira. Leggende di sincretismi siberiani.
Una delle parti più forti e belle del libro è l’incontro con la figlia di Nikolaj Ežov, il “nano” braccio destro di Stalin, negli anni del Terrore, l’amico-nemico di Isaak Babel’. Dopo la caduta in disgrazia e la fucilazione del padre, Natalija è diventata semplicemente «il bambino n. 144». Tutti la odiavano, si vendicavano come potevano. Di umiliazione in delusione, il bambino n. 144 è diventato donna, ma anche l’amore le era precluso e così se ne è andata il più lontano possibile: sempre più a Est, finendo nella Kolyma su una nave che portava il nome del padre. La maledizione è continuata fino allo sbarco. Solo in mezzo al nulla puoi tornare a essere nessuno. Semplicemente una fisarmonicista. Il viaggio di Hugo-Bader si conclude in Jakuzia, terra di gente chiusa e impenetrabile, di sciamani. Credere, non credere, ricredersi. Andrej, noto regista televisivo russo, si era dedicato per anni a smascherare superstizioni e raggiri magici. Una specie di Roberto Giacobbo al contrario. Stava preparando insieme alla giovane moglie Marina un film su un grande sciamano. Marina è finita inspiegabilmente con la macchina sui binari venendo travolta dal treno. Andrej ora teme persino di parlarne. E anche noi la finiamo qui. Essere superstiziosi è stupido, non esserlo porta male.
Jacek Hugo-Bader, I diari della Kolyma. Viaggio ai c onfini spettrali della Russia , Keller, Rovereto, pagg. 352, € 18