il maniifesto 18.5.18
Quando in Parlamento si parlava anche la lingua delle donne
Quarant'anni
fa. L’aborto è stato il mio battesimo parlamentare. In Commissione
Sanità eravamo oppresse da deputati-medici maschi che cercavano di
assumere il controllo del problema
di Luciana Castellina
L’aborto
è stato il mio battesimo parlamentare. L’argomento si impose infatti
dal primo giorno nella VII legislatura (quella che aveva portato lo
sparuto drappello della nuova sinistra alla Camera dei Deputati, sei
“onorevoli”, uno di Lotta Continua, due di Avanguardia operaia, tre del
Pdup). La precedente era infatti stata sciolta anzitempo proprio in
virtù della grande mobilitazione suscitata dal movimento delle donne che
aveva di fatto impedito al Pci di approvare – come aveva
precedentemente accettato di fare – un arretratissimo compromesso.
Adesso si ricominciava a discutere su un testo più avanzato, ma il
confronto mi apparve subito dominato dalla preoccupazione di non
incrinare l’ambiguo schieramento che sosteneva il governo della così
detta «astensione costruttiva».
In Commissione Sanità, dove si
trattava il problema, potei così scoprire quante e quali manovre
relative agli equilibri istituzionali si intrecciavano con la IVG, come
fu chiamato il progetto di legge sull’«Interruzione Volontaria della
Gravidanza», quanto lontana quella discussione fosse dal sentire delle
donne. Intervenendo in aula, dove il progetto di legge era finalmente
arrivato nel dicembre ’76 ( ma ci volle un altro anno e mezzo per
arrivare al voto finale ) iniziai rilevando proprio questa siderale
lontananza, che aveva per altro prodotto il paradosso: attivissimo negli
anni precedenti, ora che si era arrivati al dunque il movimento
risultava assente. «Questa assenza, questo relativo silenzio – dissi (
mi rileggo negli atti parlamentari ) – non sono la conseguenza di una
crisi del movimento, che anzi cresce… Il fatto è che il movimento ha
preso coscienza dei limiti estremi di questa come di ogni legge, magari
migliore di questa.
Perché quel che aveva mosso il movimento sin
dall’inizio non era solo l’obiettivo pratico dell’abrogazione delle
norme del codice Rocco ma la liberazione delle donne da quel complesso
di peccato, di vergogna, di reato che aveva circondato la loro
sessualità. Solo chi all’aborto ha pensato negli angusti termini di un
diritto civile può meravigliarsi per il fatto che quel primo passo di
liberazione sia stato solo il momento iniziale di una riflessione
collettiva ben più profonda, una premessa per riappropriarsi della
propria sessualità negata; ed anche e soprattutto, della maternità,
finalmente trasformata da processo biologico che cresce nel proprio
corpo al di fuori della propria volontà, in scelta umana, e perciò
libera e responsabile. Questa maternità, e non la vostra maternità
deterministica, colleghi democristiani, è quanto oggi appassiona,
aggroviglia, turba il movimento delle donne».
E tuttavia,
rileggendo a quarant’anni di distanza gli atti di quel dibattito
parlamentare, mi sorprendo a trovarvi un confronto per niente banale.
(Rispetto all’attuale battibecco, spesso persino volgare, sembra
appartenere ad un altro pianeta).
L’aver spostato l’attenzione,
come era logico, dall’aborto al senso della maternità, al perché della
procreazione, consentì di portare in parlamento l’eco della riflessione
femminista (l’on.Maria Eletta Martini, la più sensibile delle deputate
Dc, cita persino un convegno di Pestum!).
Per questo occorreva
denunciare la pretesa di lasciare nella legge una casistica che la donna
doveva rispettare per poter praticare l’aborto così come l’obbligo di
sottoporsi al controllo di un medico-magistrato. Misure certo ormai solo
formali, e tali, dunque, da lasciar di fatto libera la donna di
scegliere. E però proprio per questo tali da rendere anche più evidente
il loro significato ideologico: riaffermare che il ruolo coatto della
donna è la procreazione, sicché chi decide di sottrarvisi deve esser
bollata come deviante.
In qualche modo si riuscì ad imporre al
Parlamento una discussione che rese chiaro come tutta l’insistenza nel
voler mantenere una serie di ostacoli puramente formali all’interruzione
volontaria della gravidanza non avesse alcuna motivazione morale o
religiosa, ma solo il timore che sollevava il processo di liberazione
della donna. Proprio per questo apparvero così filistei i suggerimenti
dei tanti “buonsensai” laici che suggerivano di lasciar perdere ogni
opposizione visto che il procedimento imposto alla donna prima di poter
accedere all’aborto non le avrebbe nei fatti impedito una libera scelta.
Erano
i tempi in cui fra gli slogan ironici e beffardi del movimento delle
donne grande spazio aveva «tremate tremate le streghe sono tornate», e
quell’arbitrario inserimento autoritario del medico da visitare prima di
poter abortire ci ricordava che la medicina aveva storicamente oppresso
o ignorato le donne, e che per liberarsene bisognava combattere la
mistificazione, proprio dai medici alimentata, secondo cui la dipendenza
delle donne sarebbe stata determinata da un dato biologico, e non, come
invece è, da un fattore sociale. (In Commissione sanità, dove il
progetto di legge è stato a lungo in discussione, eravamo oppresse da
una quantità di maschi-medici-deputati che cercavano di assumere il
controllo del problema, come se fosse di loro esclusiva competenza).
Votammo
comunque «Sì» una prima volta alla Camera, anche per evitare che
finisse per prevaler l’ipotesi del Partito radicale: un referendum
abrogativo della penalizzazione che lasciava però le donne senza alcuna
tutela, soprattutto senza la possibilità di ricorrere al sistema
sanitario nazionale per interrompere la gravidanza. Ma all’ultimo voto,
nel maggio del 1978, il progetto di legge era stato pesantemente
peggiorato, per via di un emendamento Dc (passato grazie all’inattesa
astensione del Pci e del Psi, per di più giustificata con il clima di
tensione in cui si viveva per via del rapimento Moro), inteso a mettere
sotto più pesante tutela le minorenni. Questo era troppo e, sia pure con
preoccupazione, decidemmo di dire no a tutto il progetto.
Ci
battemmo tuttavia poco tempo dopo in difesa di questa 194 che pure non
ci soddisfaceva quando l’ala più clericale della Dc la sottopose al
referendum abrogativo. Credo sia stata giusta l’una e l’altra scelta
apparentemente contraddittorie: era giusto riaffermare i principi per
cui si batteva il movimento delle donne; ma era giusto anche impedire
che si perdesse quanto eravamo riuscite a strappare con anni di fatica
con questa legge che sul piano pratico risultò una delle più avanzate
d’Europa. Anche il Pci, del resto, votò contro lo Statuto dei Lavoratori
nel 1970, mentre oggi siamo impegnati a difendere l’articolo18 e non
solo. Così noi la 194 minacciata.
Quando dico che è stato giusto
votare contro e però poi difendere queste leggi è perché in una
democrazia sono necessarie le mediazioni, basta non approvare anche i
compromessi perdenti. Oggi la democrazia è così impoverita che non si dà
più nemmeno dialogo.