il manifesto 9.5.18
L’escalation dell’asse Usa-Israele coinvolge l’Europa
Irandeal.
A regime i giacimenti iraniani di South Pars avrebbero una produzione
sufficiente a garantire i consumi annuali europei. Questo gas, nei piani
Usa e dei loro alleati, non deve arrivare sulle coste del Mediterraneo.
Chi decide le nostri sorti strategiche nel medio-lungo periodo sta a
Washington e Tel Aviv, non a Bruxelles e a Mosca
di Alberto Negri
Preceduta
dalla show atomico del premier israeliano Netanyahu, avversario
dell’Iran e della Mezzaluna sciita insieme ai sauditi, è arrivata la
decisione di Trump di ritirarsi dall’accordo sul nucleare con l’Iran
firmato da Obama con il Cinque più Uno nel luglio 2015.
La
premessa è questa: i primi a non rispettare l’intesa sono stati proprio
gli Stati Uniti, che hanno continuato a imporre sanzioni secondarie alle
banche europee e occidentali che erogavano crediti all’Iran. Gli Usa
hanno impedito che in Iran affluissero i capitali attesi dal governo del
moderato Hassan Rohani.
Già nel mirino dei falchi del regime, il
presidente Rohani sentirà ancora di più le pressioni dell’ala più
radicale. Inoltre, come scrive il Financial Times, con nuove e probabili
sanzioni Usa, verrà colpita ulteriormente l’industria energetica
iraniana, quarto Paese al mondo per produzione di petrolio, al secondo
posto per le riserve di gas.
A regime i giacimenti iraniani di
South Pars avrebbero una produzione sufficiente a garantire i consumi
annuali europei. Questo gas, nei piani Usa e dei loro alleati, non deve
arrivare sulle coste del Mediterraneo.
Chi decide le nostri sorti
strategiche nel medio-lungo periodo sta a Washington e Tel Aviv, non a
Bruxelles e a Mosca e non ancora a Pechino dove, come a Pyongyang e
Seul, soppeseranno con attenzione gli effetti di questa decisione Usa
sul prossimo vertice tra Trump e Kim Jong-un. A prima vista non è un
messaggio incoraggiante.
Come previsto è fallita la missione in
Usa di Macron e Merkel di convincere Trump a mantenere l’intesa con
Teheran. Potrebbe essere un risvolto positivo. L’Unione europea resterà
così insieme a Russia e Cina nella posizione di poter negoziare con il
regime degli ayatollah. La stessa mossa americana di annullare l’accordo
lascia ancora una volta gli Usa in posizione di difficoltà: Washington
soddisfa gli alleati israeliani e sauditi ma rischia di regalare a Mosca
un’altra carta diplomatica. Il presidente russo Putin è in fondo
l’unico leader che nella regione parla con tutti, dai siriani agli
israeliani, ai sauditi, dai turchi agli iraniani.
Tutto questo
ragionamento, un po’ consolatorio, è valido se non se non si allarga il
conflitto siriano. Siamo al nocciolo della questione. La guerra
all’Iran, sarà un mix di azioni militari e diplomazia punitiva, cioè di
accerchiamento economico. Ma l’Europa, con Francia e Gran Bretagna, è
già entrata, sia pure indirettamente, in guerra con l’Iran attuando con
gli Usa i raid dimostrativi che hanno colpito le basi siriane – evitando
accuratamente quelle russe – per punire Assad dell’uso presunto di armi
chimiche (di cui per altro non parla più nessuno). In caso di
escalation è difficile immaginare che Paesi come la Germania e l’Italia,
soprattutto, non sarebbero coinvolte.
Questo è stato il vero
successo di Trump: creare un asse atlantico-israeliano, cui noi abbiamo
dato una bella mano propagandistica con il Giro d’Italia in Israele. Il
naso di Bartali, canta Paolo Conte, “è triste come una salita”.
In
sintesi, si è combattuto per sette anni sulla pelle dei siriani una
guerra per procura contro Teheran iniziata nel 1979 con l’ascesa di
Khomeini, la presa degli ostaggi nell’ambasciata Usa il 4 novembre dello
stesso anno, poi sfociata nel più sanguinoso conflitto del Medio
Oriente quando Saddam Hussein, sostenuto dall’Occidente e dalle della
monarchie arabe sunnite, attaccò la repubblica islamica sciita il 22
settembre del 1980.
L’era della destabilizzazione, cominciata
allora, è tornata oggi al punto di partenza mentre venivano disgregati
gli stati arabi in competizione con Israele, come l’Iraq nel 2003 e la
Siria nel 2011. E adesso tocca all’Iran che non ha mai voluto rinunciare
a proclamare la propria sovranità e indipendenza.
Nella partita
entrano anche il Libano, la Palestina e lo Yemen, altra guerra per
procura tra sauditi, americani e iraniani. In Libano, dove si è appena
votato dopo nove anni per le parlamentari, Hezbollah, alleato di
Teheran, ha rafforzato le sue posizioni e si prepara ad affrontare un
nuovo scontro con Israele dopo quello del 2006: qui l’Italia ha il
comando del settore ovest dell’Unifil con la presenza di oltre 1.100
alpini della Julia.
La maggior parte di un elettorato disorientato
da una labile classe dirigente ignora probabilmente la presenza dei
soldati italiani. E ancora di più ignora che in Iran le imprese
italiane, minacciate da nuove sanzioni, hanno in essere commesse per
circa 25-30 miliardi di euro: posti di lavoro decisi dagli americani e
da Israele, non da Roma.
Così vanno le cose in Medio Oriente. Tra
guerre in atto e anniversari in corso (il 70° dalla nascita di Israele e
della Nakba palestinese), accordi stracciati e provocazioni militari,
si prepara a grandinare. Aprite l’ombrello se ne avete uno.