mercoledì 9 maggio 2018

il manifesto 9.5.18
Trump straccia l’accordo con l’Iran e minaccia l’Europa
Irandeal. Stati uniti via dall’intesa: «Gli iraniani mentono». Nuove sanzioni anche a chi aiuta Teheran. Tusk «L’approccio europeo sia unito». Ha prevalso il pressing saudita e israeliano, dalle guerre in Siria e Yemen al «rapimento» di Hariri
di Chiara Cruciati


«Il regime iraniano è lo sponsor globale del terrorismo». Così il presidente Trump ha iniziato ieri il durissimo discorso con cui ha ritirato gli Stati uniti dall’accordo sul nucleare siglato dall’Iran e i paesi del 5+1 nel luglio 2015.
«Avrebbe dovuto proteggere gli Usa e i suoi alleati dalla follia di una bomba nucleare iraniana, ma ha permesso all’Iran di arricchire uranio». E seguendo la linea tracciata una settimana fa dal suo braccio destro, il premier israeliano Netanyahu (ovviamente citato), Trump ha accusato Teheran di aver mentito, travestendo da progetto civile la corsa alla bomba nucleare: «Al centro dell’accordo c’era un’enorme finzione: che un regime omicida desiderasse solo un programma nucleare energetico pacifico. Oggi abbiamo le prove che la promessa iraniana era una bugia».
Di prove però Trump non ne ha date, non gli servono: «Gli Usa si ritirano dal Jcpoa e firmo un decreto per la reintroduzione di sanzioni economiche di più alto livello. Ogni nazione che aiuterà l’Iran nella sua ricerca dell’arma nucleare potrà essere duramente sanzionata dagli Usa».
Sanzioni che non entreranno in vigore prima di 90 giorni e che richiedono il voto del Congresso. Solo allora Washington potrà dirsi fuori dall’intesa, sebbene il nuovo consigliere alla sicurezza nazionale Bolton ieri smussasse gli angoli: gli Usa, ha detto, «sono pronti ad aprire un dialogo con l’Iran per nuovo accordo».
Ma la minaccia all’Europa e alla Russia è insita: le previsioni si sono rivelate fallaci, Trump non intende lasciare campo libero a Bruxelles e Mosca. La risposta iraniana arriva a stretto giro: «Invece di un accordo con sei paesi, ora abbiamo un accordo con cinque. Non consentiremo a Trump di vincere questa guerra psicologica», ha detto il presidente Rouhani. Per poi far sapere di aver «ordinato all’Organizzazione per l’energia atomica di star pronta a iniziare l’arricchimento dell’uranio a livelli industriali».
L’annuncio di Trump era stato anticipato pochi minuti prima dal vicepresidente Pence: uscita dall’Irandeal e reintroduzione delle sanzioni congelate dopo luglio 2015, quando il Jcpoa fu firmato dal ministro degli Esteri iraniano Zarif e i paesi del 5+1. A nulla è valso il lavoro diplomatico degli altri firmatari: la Casa bianca non ha cambiato idea, lo storico accordo (il principale successo in politica estera del predecessore Obama, insieme al disgelo con Cuba) resta per l’attuale inquilino della Casa bianca «folle».
Perché pone un limite temporale (il 2030) e perché non tiene conto del programma di missili balistici della Repubblica Islamica. Che, verrebbe da dire, potrebbe essere considerata una normale forma di difesa visti i venti di guerra che proprio Washington, insieme a Tel Aviv e Riyadh, fanno spirare sull’Iran da anni.
A nulla è valso nemmeno il monitoraggio dell’Agenzia internazionale per l’Energia Atmica che ripete a ogni piè sospinto che Teheran sta rispettando i termini dell’intesa.
Né ha avuto effetti il pressing europeo, proseguito per tutta la giornata di ieri dopo le visite di Macron e della cancelliera tedesca Merkel a Washington il mese scorso: Unione europea e singoli paesi firmatari del Jcpoa (Francia, Germania e Gran Bretagna) hanno incontrato ieri la delegazione iraniana a Bruxelles. La voce è unica: «Sostegno all’attuazione dell’accordo da parte di tutti».
Ieri Macron, dopo il discorso di Trump, dava per primo voce alle paure comuni: «Francia, Germania e Gran Bretagna si rammaricano della decisione Usa. Il regime di non proliferazione nucleare è a rischio», ha scritto su Twitter annunciando un’intesa «nuova e più ampia». Da Bruxelles hanno parlato l’Alto rappresentante agli Esteri, Mogherini, che ha ribadito «l’impegno della Ue per il rispetto dell’intesa», e il presidente del Consiglio Tusk che ha fatto appello «a un approccio europeo unito» da discutere la prossima settimana.
L’Europa teme un’escalation delle tensioni tra Washington e Teheran, alimentate fin dall’inizio della presidenza Trump e infiammate dalle pressioni saudite e israeliane. Sotto forma di conflitti bellici, quello siriano e yemenita, e di interventi indiretti, dal «rapimento» saudita del premier libanese Hariri allo show del primo ministro Netanyahu che voleva dimostrare – senza prove – presunte bugie iraniane sul programma nucleare.
I timori europei si concentrano tanto su possibili sbocchi militari della rottura quanto sui danni alle imprese del Vecchio Continente che dopo l’entrata in vigore dell’Irandeal si sono gettate su un mercato enorme (80 milioni di persone pronte ad aprirsi al mondo dopo quattro decenni di isolamento). Per poi restare al palo
. La mancata sospensione delle sanzioni alle banche iraniane impedisce il trasferimento di denaro e molti progetti miliardari fin qui siglati dai giganti europei restano in sospeso, come i memorandum firmati dai governi. E poi Peugeot, Renault, Ferrovie dello Stato (5 miliardi di dollari per l’alta velocità tra Arak e Qom e tra Teheran e Hamadan), Eni, Enel, Finmeccanica, Total impegnata nello sviluppo del giacimento South Pars (335 miliardi di m3 di gas naturale e 290 milioni di barili di condensati), la giapponese Tokyo Engineering, la russa Gazprom.

il manifesto 9.5.18
Trump regala a Netanyahu passaggio a Gerusalemme ambasciata Usa
Usa/Israele. Dopo l'uscita degli Usa dall'accordo internazionale sul programma nucleare iraniano, lunedì prossimo Washington trasferirà la sede diplomatica Usa da Tel Aviv a Gerusalemme. Palestinesi pronti a reagire
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Sono giorni decisivi per le strategie del governo israeliano. ‎Benyamin Netanyahu è riuscito, dopo dieci anni, a trovare ‎un’Amministrazione Usa pronta ad adottare in pieno la narrazione ‎israeliana del quadro mediorientale e a disconoscere il diritto ‎all’autodeterminazione per i palestinesi. Donald Trump ieri è uscito ‎dall’accordo sul nucleare con l’Iran e ha imposto di nuovo pesanti ‎sanzioni contro Tehran. E lunedì prossimo, dando seguito al ‎riconoscimento che ha fatto lo scorso 6 dicembre di Gerusalemme ‎come capitale dello Stato ebraico, regalerà al premier israeliano il ‎tanto desiderato trasferimento dell’ambasciata americana da Tel ‎Aviv alla città santa. Resta incerta la presenza del presidente Usa ‎alla cerimonia di inaugurazione della sede diplomatica prevista il ‎pomeriggio del 14 maggio ma i preparativi vanno avanti senza ‎sosta. In un prima fase l’ambasciata Usa si trasferirà solo in minima ‎parte a Gerusalemme. Saranno messi a disposizione ‎dell’ambasciatore David Friedman, un amico dichiarato dal ‎movimento dei coloni israeliani e della destra estrema, alcuni locali ‎nel consolato americano ad Arnona, nella zona sud-est occupata di ‎Gerusalemme.‎
 Alla cerimonia di inaugurazione saranno presenti centinaia di ‎rappresentanti americani, tra i quali parlamentari, esponenti politici, ‎uomini d’affari, il Segretario al tesoro Steven Mnuchin, la figlia del ‎presidente Ivanka Trump e il marito e inviato Usa per il Medio ‎Oriente Jared Kushner. Nella lista dei presenti diffusa ‎dell’ambasciata americana manca proprio Trump ma le voci dicono ‎che il presidente Usa potrebbe arrivare all’ultimo momento facendo ‎a Netanyahu un altro regalo, la sua presenza nel 70esimo ‎anniversario della fondazione dello Stato di Israele. Da parte ‎israeliana oltre a Netanyahu e al capo dello stato Reuven Rivlin ci ‎saranno ministri e deputati, della maggioranza e dell’opposizione , ‎ad eccezione di quelli della Lista araba unita che contestano il passo ‎fatto da Trump. Tra i più attivi in questi giorni c’è il sindaco ‎israeliano di Gerusalemme che, tra le altre cose, lunedì si è fatto ‎fotografare mentre attacca i cartelli stradali con le indicazioni per ‎l’ambasciata Usa ad Arnona. Flebili proteste si sono levate da settori ‎marginali della società israeliana, da qualche attivista anti-sionista e ‎dal movimento “Peace Now” che esorta a proclamare Gerusalemme ‎capitale anche di uno Stato palestinese.
 Proprio i palestinesi non hanno alcuna intenzione di restare a ‎guardare i festeggiamenti di Usa e Israele. Sono annunciate per ‎lunedì manifestazioni e proteste popolari in tutta la Cisgiordania e a ‎Gerusalemme est. Il segretario generale dell’Olp, Saeb Erekat, ha ‎ammonito i rappresentanti diplomatici dei vari Paesi dal violare il ‎diritto internazionale dando appoggio – con la presenza di loro ‎rappresentanti alla cerimonia di lunedì a Gerusalemme – al ‎riconoscimento fatto da Trump. L’Ue non ci sarà ma crea imbarazzo ‎la posizione della premier rumena Viorica Dancila a favore del ‎trasferimento dell’ambasciata che però incontra l’opposizione del ‎capo dello stato Iohannis. In casa palestinese tuttavia sanno che il ‎muro della fermezza si sta poco alla volta sgretolando – Netanyahu ‎parla di una mezza dozzina di Paesi pronti a portare la propria ‎ambasciata a Gerusalemme – e non è passato inosservato il silenzio ‎di re Abdallah di Giordania. Secondo la stampa israeliana avrebbe ‎chinato la testa di fronte al passo di Trump in cambio ‎dell’assicurazione americana che la Giordania continuerà ad essere ‎la “custode” della Spianata della moschee. Il presidente Abu Mazen ‎durante un incontro con il leader venezuelano Nicolas Maduro a ‎Caracas ha espresso l’auspicio che i Paesi del centro e del sud ‎America non seguiranno la strada degli Usa ma il Guatemala ha già ‎annunciato che sposterà la sua sede diplomatica a Gerusalemme ‎entro la fine di maggio. E il Paraguay dovrebbe fare altrettanto. Il ‎ministro degli esteri di Asuncion, Eladio Loizaga, ha confermato ‎che sono state intraprese delle iniziative per trasferire l’ambasciata e ‎il presidente Cartes potrebbe assistere all’inaugurazione della nuova ‎sede diplomatica il 21 o 22 maggio. ‎
 A Gaza i palestinesi si preparano a contestare in massa il ‎trasferimento dell’ambasciata Usa. Lunedì mentre a Gerusalemme si ‎svolgerà la cerimonia con israeliani e americani, a Gaza decine di ‎migliaia di persone scenderanno in strada a manifestare contro ‎Washington, anche nella fascia orientale a ridosso delle linee di ‎demarcazione con Israele. Lì il giorno successivo, 15 maggio, sono ‎attese altre migliaia di dimostranti della “Grande Marcia del ‎Ritorno” che, forse, tenteranno di superare le barriere di separazione ‎per marcare il 70esimo anniversario della Nakba palestinese

il manifesto 9.5.18
L’escalation dell’asse Usa-Israele coinvolge l’Europa
Irandeal. A regime i giacimenti iraniani di South Pars avrebbero una produzione sufficiente a garantire i consumi annuali europei. Questo gas, nei piani Usa e dei loro alleati, non deve arrivare sulle coste del Mediterraneo. Chi decide le nostri sorti strategiche nel medio-lungo periodo sta a Washington e Tel Aviv, non a Bruxelles e a Mosca
di Alberto Negri


Preceduta dalla show atomico del premier israeliano Netanyahu, avversario dell’Iran e della Mezzaluna sciita insieme ai sauditi, è arrivata la decisione di Trump di ritirarsi dall’accordo sul nucleare con l’Iran firmato da Obama con il Cinque più Uno nel luglio 2015.
La premessa è questa: i primi a non rispettare l’intesa sono stati proprio gli Stati Uniti, che hanno continuato a imporre sanzioni secondarie alle banche europee e occidentali che erogavano crediti all’Iran. Gli Usa hanno impedito che in Iran affluissero i capitali attesi dal governo del moderato Hassan Rohani.
Già nel mirino dei falchi del regime, il presidente Rohani sentirà ancora di più le pressioni dell’ala più radicale. Inoltre, come scrive il Financial Times, con nuove e probabili sanzioni Usa, verrà colpita ulteriormente l’industria energetica iraniana, quarto Paese al mondo per produzione di petrolio, al secondo posto per le riserve di gas.
A regime i giacimenti iraniani di South Pars avrebbero una produzione sufficiente a garantire i consumi annuali europei. Questo gas, nei piani Usa e dei loro alleati, non deve arrivare sulle coste del Mediterraneo.
Chi decide le nostri sorti strategiche nel medio-lungo periodo sta a Washington e Tel Aviv, non a Bruxelles e a Mosca e non ancora a Pechino dove, come a Pyongyang e Seul, soppeseranno con attenzione gli effetti di questa decisione Usa sul prossimo vertice tra Trump e Kim Jong-un. A prima vista non è un messaggio incoraggiante.
Come previsto è fallita la missione in Usa di Macron e Merkel di convincere Trump a mantenere l’intesa con Teheran. Potrebbe essere un risvolto positivo. L’Unione europea resterà così insieme a Russia e Cina nella posizione di poter negoziare con il regime degli ayatollah. La stessa mossa americana di annullare l’accordo lascia ancora una volta gli Usa in posizione di difficoltà: Washington soddisfa gli alleati israeliani e sauditi ma rischia di regalare a Mosca un’altra carta diplomatica. Il presidente russo Putin è in fondo l’unico leader che nella regione parla con tutti, dai siriani agli israeliani, ai sauditi, dai turchi agli iraniani.
Tutto questo ragionamento, un po’ consolatorio, è valido se non se non si allarga il conflitto siriano. Siamo al nocciolo della questione. La guerra all’Iran, sarà un mix di azioni militari e diplomazia punitiva, cioè di accerchiamento economico. Ma l’Europa, con Francia e Gran Bretagna, è già entrata, sia pure indirettamente, in guerra con l’Iran attuando con gli Usa i raid dimostrativi che hanno colpito le basi siriane – evitando accuratamente quelle russe – per punire Assad dell’uso presunto di armi chimiche (di cui per altro non parla più nessuno). In caso di escalation è difficile immaginare che Paesi come la Germania e l’Italia, soprattutto, non sarebbero coinvolte.
Questo è stato il vero successo di Trump: creare un asse atlantico-israeliano, cui noi abbiamo dato una bella mano propagandistica con il Giro d’Italia in Israele. Il naso di Bartali, canta Paolo Conte, “è triste come una salita”.
In sintesi, si è combattuto per sette anni sulla pelle dei siriani una guerra per procura contro Teheran iniziata nel 1979 con l’ascesa di Khomeini, la presa degli ostaggi nell’ambasciata Usa il 4 novembre dello stesso anno, poi sfociata nel più sanguinoso conflitto del Medio Oriente quando Saddam Hussein, sostenuto dall’Occidente e dalle della monarchie arabe sunnite, attaccò la repubblica islamica sciita il 22 settembre del 1980.
L’era della destabilizzazione, cominciata allora, è tornata oggi al punto di partenza mentre venivano disgregati gli stati arabi in competizione con Israele, come l’Iraq nel 2003 e la Siria nel 2011. E adesso tocca all’Iran che non ha mai voluto rinunciare a proclamare la propria sovranità e indipendenza.
Nella partita entrano anche il Libano, la Palestina e lo Yemen, altra guerra per procura tra sauditi, americani e iraniani. In Libano, dove si è appena votato dopo nove anni per le parlamentari, Hezbollah, alleato di Teheran, ha rafforzato le sue posizioni e si prepara ad affrontare un nuovo scontro con Israele dopo quello del 2006: qui l’Italia ha il comando del settore ovest dell’Unifil con la presenza di oltre 1.100 alpini della Julia.
La maggior parte di un elettorato disorientato da una labile classe dirigente ignora probabilmente la presenza dei soldati italiani. E ancora di più ignora che in Iran le imprese italiane, minacciate da nuove sanzioni, hanno in essere commesse per circa 25-30 miliardi di euro: posti di lavoro decisi dagli americani e da Israele, non da Roma.
Così vanno le cose in Medio Oriente. Tra guerre in atto e anniversari in corso (il 70° dalla nascita di Israele e della Nakba palestinese), accordi stracciati e provocazioni militari, si prepara a grandinare. Aprite l’ombrello se ne avete uno.

il manifesto 9.5.18
Stavolta gli iraniani se la legheranno al dito
Irandeal. La decisione del presidente Trump avrà conseguenze non irrilevanti nel paese: i falchi di Teheran avranno gioco facile nel criticare Rohani e i suoi ministri e le minacce militari all’integrità nazionale daranno mano libera ai pasdaran
di Farian Sabahi


In questi due anni e mezzo gli americani non hanno rispettato l’accordo sul nucleare iraniano firmato a Vienna il 14 luglio 2015. A sottoscriverlo, dopo lunghissime trattative diplomatiche, erano stati i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina) e la Germania.
Ora, la firma del waiver delle sanzioni contro l’Iran da parte del presidente americano Donald Trump è una questione tutta interna agli Stati Uniti. Per gli iraniani, conta poco: non rispettando l’accordo, lasciando in essere le sanzioni finanziarie del Tesoro americano, le imprese occidentali non sono riuscite a lavorare con l’Iran perché la maggior parte delle banche europee si rifiuta di accettare pagamenti da Teheran e di aprire lettere di credito per il timore di ripercussioni oltreoceano.
In questi due anni e mezzo, l’economia iraniana non si è risollevata. Al contrario, la valuta locale (il rial) si è svalutata rispetto al dollaro e ci si attende un aumento dell’inflazione. Il governo del presidente Hassan Rohani ne ha risentito, perché sono stati i suoi uomini a firmare l’accordo di Vienna – rinunciando alla sovranità nucleare – senza avere granché in cambio.
Ora lo sapete, la ratifica del waiver alle sanzioni iraniane da parte di Trump conta poco: in Iran non ci sono molte imprese occidentali a fare business, quelle che si erano avventurate cercano di uscire da quel mercato. Eppure, nonostante questo, la decisione del presidente statunitense avrà conseguenze non irrilevanti all’interno dell’Iran: i falchi di Teheran avranno gioco facile nel criticare Rohani e i suoi ministri; le minacce militari all’integrità nazionale daranno mano libera ai pasdaran, le Guardie rivoluzionarie; ma, soprattutto, gli iraniani se la legheranno al dito.
Sono un popolo orgoglioso, con tremila anni di storia e una cultura che non ha pari nel resto del Medio Oriente, basti pensare ai successi della letteratura e del cinema persiano. Hanno ceduto sul nucleare e sognato uno sdoganamento del loro paese, non solo dal punto di vista economico e finanziario ma anche in termini di immagine, ne hanno fin sopra i capelli di essere considerati dei cattivi ragazzi.
L’obiettivo di Trump e dei suoi alleati (Israele e Arabia Saudita) non è mandare a monte l’accordo nucleare (scopo già conseguito), ma annientare l’Iran come potenza regionale.
Il primo passo è stato compiuto: gli israeliani stanno attaccando le basi militari iraniane in Siria, dove i pasdaran sono presenti, non solo per fare man forte al presidente Bashar al-Assad ma anche per contrastare l’Isis (un favore che l’Europa non dovrebbe dimenticare).
E gli americani stanno affiancando i sauditi nella guerra in Yemen, dove i ribelli sciiti Huthi avevano preso il potere dopo la primavera araba e la conferenza del dialogo nazionale. Ora che Hezbollah ha vinto le elezioni parlamentari in Libano, non si escludono nuovi attacchi da parte delle forze armate dello Stato ebraico su Beirut.
Il secondo passo di Trump e compagni sarà prendere di mira il programma missilistico che Teheran persegue nella sua politica di deterrenza. Difficile dare torto agli ayatollah, dopo che il regime iracheno di Saddam Hussein e quello dei Talebani in Afghanistan sono stati eliminati dalle coalizioni guidate dagli americani. Il terzo passo è la destabilizzazione dell’Iran, per arrivare a una frammentazione in piccoli stati etnici di quello che oggi è una nazione grande cinque volta e mezza l’Italia. Per fare questo, gli americani e i loro alleati stanno finanziando i gruppi separatisti in diverse parti dell’Iran, dal Curdistan al Khuzestan e al Balucistan.
Quarto passo, ambizioso, è il cambio di regime: difficile portarlo avanti, l’opposizione in esilio ha sempre grande copertura mediatica ma non conta nulla in Iran, tanto meno i Mojaheddin del Popolo che nel 1980 avevano preso le parti di Saddam Hussein che aveva invaso l’Iran. Per eliminare la Repubblica islamica, i nemici dell’Iran sperano nella continuazione delle proteste scoppiate a inizio anno in quasi ottanta città e motivate in buona parte dalle preoccupazioni economiche.
Ora, per far fronte al dissenso interno, gli ayatollah hanno deciso di mettere fuori legge Telegram, per sostituirlo con altre app made in Iran. Una di queste si chiama Soroush, ha gli emoji con il chador, lanciano invettive contro l’America, Israele e la massoneria.
A usare l’app sono già cinque milioni di utenti, scherzano dicendo che le freccine che diventano blu alla lettura sono tre anziché due: la terza è visibile quando i servizi segreti hanno letto il tuo messaggio. La goccia che potrebbe far traboccare il vaso, tra gli iraniani esasperati dalla crisi economica e dall’inimicizia con l’Occidente, potrebbe non essere il waiver di Trump ma questa terza freccina.

Il Sole 9.5.18
Russia vero arbitro di pace o di guerra
di Antonella Scott


Il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano trova sorprendentemente Mosca, come scrive Vladimir Frolov sul Moscow Times, «dalla parte giusta della storia». A sostegno delle intese del 2015, insieme a Cina e Ue: in questi tempi di tensioni tra l’Occidente e il Cremlino, vedere la Russia vicina alle posizioni europee è cosa rara.
Ieri, a poche ore dall’annuncio di Donald Trump, il viceministro degli Esteri Serghej Rjabkov aveva aperto una possibilità alla soluzione proposta da Emmanuel Macron: negoziare un accordo aggiuntivo, più rigido verso l’Iran, che accolga le preoccupazioni americane. «Non possiamo dire che respingiamo l’idea a priori», ha detto Rjabkov.
Il nodo iraniano rende decisivo il ruolo diplomatico a tutto campo di Mosca, cosa che non può non far piacere a Vladimir Putin. Che oggi incontra il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ma è anche l’alleato più vicino agli iraniani, e combatte sullo stesso fronte in Siria. Ora Putin ha la possibilità di convincere gli iraniani, che non sembrano voler abbandonare a loro volta l’accordo, a mantenere canali aperti con russi, europei e cinesi. Rafforzando anzi i legami: considerando in particolare l’energia (e l’export di petrolio iraniano), se ci sarà un vuoto le compagnie russe sono pronte a riempirlo.
«Per noi il fronte economico potrebbe diventare più favorevole - ha detto Vladimir Yermakov, capo del dipartimento non proliferazione e controllo degli armamenti al ministero degli Esteri russo - non avremmo limiti alla cooperazione economica con l’Iran. Potremmo sviluppare relazioni bilaterali in ogni settore». Dovranno essere gli Stati Uniti a pagare le conseguenze, secondo Yermakov: «Né l’Iran, né la Cina, né la Russia né gli Stati europei dovranno perderci».

La Stampa 9.5.18
“Ispirandomi a Basaglia ho salvato 60 mila malati psichici in Africa”
Arriva in Italia l'attivista famoso in tutto il mondo “Così libero le vittime di stregoni e falsi profeti”
di Domenico Agasso Jr


Kouakou era incatenato a terra. Si trovava in un villaggio a 40 chilometri da Bouaké, in Costa d’Avorio. Chissà da quanto tempo aveva braccia e gambe bloccate da un fil di ferro. Carne e ferro erano una massa indistinguibile. Quando Grégoire lo vide, si precipitò a tagliare i fili di ferro. Ma la setticemia era ormai troppo avanzata. Il ragazzo morì poco dopo. Riuscì ancora a dire grazie al suo liberatore. E a chiedersi: «Non capisco perché i miei genitori mi hanno fatto questo, io non sono cattivo». Lo hanno fatto perché era considerato «pazzo».
Da quel giorno del 1994, Grégoire Ahongbonon gira l’Africa, villaggio per villaggio, alla ricerca di malati mentali «curati» con violenze o tenuti in catene, metodo «ancora usato per “trattare” i malati psichici», ci spiega. Li cerca per liberarli, perciò ha sempre con sè gli «attrezzi del mestiere»: cesoie, seghetto, mazza e martello. E per accoglierli nei suoi centri. Per questo Grégoire è considerato il «Basaglia d’Africa» (nel 1998 ha anche ricevuto il Premio internazionale intitolato al neurologo italiano), o l’«Angelo dei matti».
È in Italia per raccontare la sua storia, raccolta da Rodolfo Casadei nel libro «Grégoire. Quando la fede spezza le catene» (Emi). Ha un sorriso e una voce coinvolgenti, non ha perso la voglia di scherzare nonostante i drammi che incontra ogni giorno. È nato nel 1953 a Ketoukpe, in Benin. Nel 1971 va a Bouaké per lavorare come gommista. Poi apre un’agenzia di taxi che in poco tempo lo fa diventare ricco. Ma altrettanto velocemente si ritrova sul lastrico. Pensa anche al suicidio.
Dopo una crisi religiosa, nel 1982, vive un’esperienza di conversione in un pellegrinaggio in Terrasanta, dove nasce il suo desiderio di servire «gli ultimi tra gli ultimi, come indica Gesù Cristo». Tornato in patria, fonda l’Associazione San Camillo de Lellis, che nel 1992 aprirà il suo primo centro. Il denaro arriva «con la Provvidenza», attraverso benefattori.
Dunque da oltre 25 anni, senza preparazione medica e tantomeno psichiatrica, si occupa di malati mentali in Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio e Togo. La sfida da vincere è evitare che le persone con problemi mentali vengano trattate come indemoniate, legate con catene, lasciate sole, diventando larve umane. Oppure «vittime di sedicenti profeti, che li tormentano in campi di preghiera». Lo disgusta il modo di operare «di queste sette: gente che usa il nome di Dio per incatenare i malati, bastonarli, privarli di acqua e cibo col pretesto che sono posseduti e che bisogna far soffrire il corpo per farne uscire il demonio. Combattere questa gente è la nostra lotta principale!».
Più di 60.000 persone sono state accolte; 25.000 sono attualmente ospitate in otto Centri di cura, 28 centri di consultazione medica, 13 di reinserimento. E più di mille sono le persone liberate dalle catene. Il triste record è di una donna, «Janine, tenuta prigioniera nei pressi di un immondezzaio, con un braccio bloccato in un tronco. È rimasta incatenata 36 anni».
La cura dell’ex manager di taxi è formata da «medicinali a prezzi economici, un approccio profondamente umano e uno staff di ex pazienti». Spiega lo psichiatra Eugenio Borgna: «Sono stimolate le loro attitudini al lavoro. Non ci sono psichiatri, ma ci sono molte visite di psichiatri occidentali». Una storia per tutte è quella di Janvier, rientrato al suo villaggio dopo la cura-Grégoire: ha imparato a usare una macchina che estrae l’olio di palma dalle noci della pianta. Lo avevano tenuto incatenato per 7 anni. Adesso è sposato e ha quattro figli. E, con il suo lavoro, è diventato uno dei più ricchi del villaggio.

La Stampa 9.5.18
Il Sessantotto è morto, viva il Sessantotto
Immagini per rivivere il mito
“Dreamers” al Museo di Roma: la storia multimediale di un’utopia
di Flavia Amabile


I Dreamers sono i sognatori: Bob Kennedy che accusa il pil di non riuscire a misurare la gioia dei bambini che giocano, Martin Luther King che marcia per i diritti civili, Pier Paolo Pasolini che simpatizza con i poliziotti e non con gli studenti dopo gli scontri di Valle Giulia. I sognatori sono morti ammazzati, ma i loro sogni sono ancora ben presenti fra noi nonostante sia trascorso mezzo secolo: ne è zeppo il libro delle firme della mostra «Dreamers» sul Sessantotto, inaugurata il 5 maggio al Museo di Roma in Trastevere e aperta fino al 2 settembre 2018, curata a cura dell’Agi-Agenzia Italia. In questi primi giorni è stata presa d’assalto da centinaia di persone, i famigerati sessantottini, ma non solo: tutti lasciano un ricordo trasformando le pagine bianche all’ingresso del museo in una mostra nella mostra, il sogno dei sognatori.
È l’effetto del Sessantotto, uno degli anni più incredibili, iniziato con il terremoto del Belice, proseguito con le università occupate, gli scontri, i cortei, le morti di Robert Kennedy e di Luther King, con la preparazione dello sbarco sulla Luna, e l’unica vittoria della Nazionale di calcio agli Europei. È l’effetto di questa mostra che non è solo una mostra, è un insieme di oggetti, voci, immagini, cifre, parole che provano a raccontare le storie di rivoluzionari, visionari, e ostinati cacciatori di utopie ma anche di mettere in ordine cronologico, in stile giornalistico, gli eventi del 1968 che segnarono per sempre la storia, il costume e la cultura del mondo intero.
Alla fine si tratta di un viaggio attraverso 178 immagini, tra le quali più di 60 inedite; 19 archivi setacciati in Italia e all’estero; 15 filmati originali che ricostruiscono più di 210 minuti della nostra storia di cui 12 minuti inediti; 40 prime pagine di quotidiani e riviste riprese dalle più importanti testate nazionali, La Stampa compresa. E, inoltre, c’è una ricercata selezione di memorabilia: oltre al juke-box anche un ciclostile, una macchina da scrivere Valentine, la Coppa originale vinta dalla Nazionale italiana ai Campionati europei, la maglia della nazionale italiana indossata da Tarcisio Burgnich durante la finale con la Jugoslavia, la fiaccola delle Olimpiadi di Città del Messico.
L’idea di «Dreamers» è di Riccardo Luna, direttore dell’Agi e curata a quattro mani con Marco Pratellesi, condirettore dell’agenzia. L’obiettivo è riproporre un percorso cronologico attraverso gli eventi di quell’anno da raccontare attraverso immagini, video e suoni affrontando gli aspetti più politici ma anche quelli di società, dalla Dolce Vita al calcio.
«Questa non è una mostra sul passato ma sul futuro - avverte Riccardo Luna nel catalogo della mostra -. Sul futuro che sognava l’ultima generazione che non ha avuto paura di cambiare tutto per rendere il mondo migliore. Che si è emozionata e mobilitata per guerre lontane; che ha sentito come proprie ingiustizie subite da altri; che ha fatto errori, certo, ha sbagliato, si è illusa, è caduta, ma ha creduto, o meglio, ha capito che la vera felicità non può essere solo un fatto individuale ma collettivo, perché se il tuo vicino soffre non puoi non soffrire anche tu. Nessuno si salva da solo. Quello che ci ha colpito costruendo questa mostra, sfogliando le migliaia di foto che decine di agenzie e archivi ci hanno messo a disposizione con una generosità davvero stupefacente, come se tutti sentissero il dovere di contribuire alla ricostruzione di una storia che riguarda i nostri figli molto più che i nostri genitori».

Repubblica 9.5.18
L’arte del buon governo
Sapere e Potere nemici fraterni
di Massimo Cacciari


Per quanto in molti idiomi i termini che indicano il potere e il sapere sembrino indicare una comune radice, nessuna relazione si presenta in realtà meno facilmente districabile, più complessa. Ma come? Non accade proprio nell’età contemporanea che il sapere, in quanto scienza, raggiunge il massimo del proprio potere, determinando non solo la forma dei rapporti di produzione, ma quella della vita stessa? Una universale Intelligenza, un Intelletto Agente dispiegato sull’intero pianeta, va producendo da qualche secolo un’ininterrotta rivoluzione, che informa di sé ogni aspetto della nostra esistenza. E tuttavia questa formidabile Scienza è co- sciente, e proprio nei suoi esponenti più rappresentativi, che ciò che essa produce continua a non essere in suo potere, continua a trasformarsi in proprietà altrui. Quella libertà, senza di cui la Scienza mai avrebbe potuto o saputo conseguire i suoi formidabili successi, non sa di per sé diventare energia liberante per tutto il nostro genere. I suoi prodotti, di cui non dispone, tendono all’opposto a trasformarsi in fattori di asservimento e omologazione.
Il problema diviene allora quello del rapporto tra il sapere e il potere politico. E ne nascono le seguenti domande: sta nell’essenza del sapere rivolgersi al potere politico per informarlo di sé? Se la risposta è affermativa, il sapere avrebbe allora il dovere di impegnarsi politicamente, e cioè di provare a detenere un potere effettuale. Ma quale sapere? Quello propriamente scientifico? O un altro genere di sapere? Il paradigma di un sapere che si pretende epistemicamente fondato e che su tale fondamento intende edificare la Città, rimane quello platonico. Se la Città vuole stare, non ridursi a una navicella su cui sono imbarcate pecore senza pastore, o peggio mascherate tutte da nocchieri, è necessario che essa sia imitazione dell’anima bene educata, e cioè governata dalla sua parte razionale. La Scienza soltanto può unificare il molteplice, conferire ad ogni parte il suo significato e la sua missione, imporre la superiorità del Tutto sulle parti stesse. Nulla è più irragionevole di voler razionalizzare le umane vicissitudini – obbietterà Leopardi.
E in fondo già Aristotele l’aveva sostenuto: mai la Città sarà riducibile ad Uno; la sua forma è un divenire da governo a governo e all’interno di ciascuno la pace non può che essere armistizio. La politica è sì chiamata alla costituzione di un ordine, corrispondente alla stessa natura politica dell’animale uomo, ma quest’ordine non sarà mai quello dei principi e delle leggi che le proposizioni della Scienza sanno esprimere. Quello del Politico è il regno insicuro del per lo più, impotente ad accordare il governo ai principi universali e necessari del sapere. E quest’ultimo, a sua volta, impotente a edificare la Città a vera immagine della coerenza e consistenza del proprio discorso.
Così la virtù politica non andrà confusa con la bontà del vero sapiente. Un’arte della temperanza e della mediazione è richiesta al politico, un’arte che rimarrà sempre estranea alle forme e ai fini della scienza. La riflessione dell’Occidente sul Politico si orienterà sul realismo aristotelico, tuttavia senza mai dimenticare la “nostalgia” platonica per la Kallipolis, per la città bella- e- buona, perfettamente “in forma”.
Tale “nostalgia” si esprime in tutte le varianti della concezione dello Stato come suprema realizzazione della libertà individuale, della sovranità come accordo o sintesi degli interessi in conflitto, della società politica come immagine della civitas in interiore. Qui il sapere filosofico-scientifico vorrebbe ancora esprimere i principi che fondano la sicurezza dello Stato. È questo sapere soltanto che può trasformare l’ostinata ricerca del proprio privato interesse in quella del Bene comune.
Il sapere del Politico si è specializzato come ogni altro. Esso riguarda come acquisire il governo e come durare in esso. Quale sapere presuppone quest’arte? Analisi delle cose come sono e non come crediamo dovrebbero essere; conoscere perciò la insocievole socievolezza della natura umana, che rende necessario lo Stato in quanto misura coercitiva; in base alle regolarità che emergono dallo studio dei cicli politici, saper prevenire i pericoli che corre l’esercizio del potere e prevederne gli sviluppi. Si tratta di un sapere probabilistico e congetturale.
Gli ordini che riesce a costruire saranno sempre più deboli della Fortuna. Questo il solo sapere necessario al governante! E a questo sapere vorrebbe educarlo colui che sa! Ma ecco che il potente lo respinge, lo esilia. Eppure si tratta di un sapere affatto ragionevole nei suoi limiti, del tutto disincantato.
Non induce ad alcuna Magia (magia significa Potenza); è ben cosciente che il Prospero della Tempesta è tanto imbelle al governo, quanto a redimere la cattiveria dei suoi simili. Perché allora il potente non lo ascolta? Forse perché nessun sapere riesce a intendere la natura irrimediabilmente doppia del potere. Non è l’analisi del vero effettuale a costituirne l’essenza, bensì la decisione. La decisione rivolta a qualcosa di soltanto possibile, indistricabilmente connesso al dover-essere.
Ma per “convertire” al dover-essere è necessario qualcosa di tutt’altro genere rispetto al sapere. È necessaria fede nei propri fini; è necessario convincere ad essa chi ascolta. Anche per edificare l’ordine contingente del governo politico risulta dunque necessario il rimando a un ordine di idee che ne trascende il limite. Il sapere sembra arrestarsi di fronte all’intima tragicità dell’agire politico. La pallida ombra del pensiero, la cui dimensione è quella del metodico dubbio, che solo l’evidenza razionale risolve, arresterebbe o ritarderebbe la decisione politica. Il tempo del Politico non è quello del sapere – e però neppure possono astrattamente separarsi, poiché entrambe le professioni, quella del politico e quella dello scienziato, intendono scoprire o scovare ordini possibili nel mescolarsi e rimescolarsi incessante dei casi della vita. Al di là di ogni salvifica magia, così come di ogni sterile amletismo, ci sia cara la loro fraterna inimicizia.

Repubblica 9.5.18
Amore sacro e amor profano
“Carne e salvezza” E l’Uomo creò la Dea Madre
di Silvia Ronchey


A maggio si celebrano Maria e tutte le mamme Una festa che deriva dal culto più ancestrale: quello che, da Iside a Venere fino alla madre di Gesù, spinge il mondo (maschile) a invocare divinità femminili
Uomini turbati dalla musica quando sentono una calda voce femminile nera cantare un blues.
Uomini rapiti dalla scrittura che non sanno dare altro nome al simulacro di donna che li ispira se non quello di “musa”. Poeti, come Keats e Leopardi, che dialogano con il volto triforme della luna. Uomini che attraversano ogni giorno una folla muta di madri divine dal capo velato che li guardano nei musei, ai trivi delle strade, rinserrate nelle edicole sacre, calamitate sui cruscotti delle auto. Uomini che dialogano con altri uomini in una seduta psicoanalitica mentre aleggia su di loro la presenza costante di un complesso di natura femminile. Chi sono questi fantasmi di donne che popolano la vita dei maschi? Sono tanti e diversi? Oppure è uno solo, quello della Madre Eterna?
Considerata l’esperienza degli esseri viventi di questa terra, dov’è nell’animale femmina che fisicamente si forma la vita, credere in un principio creatore non maschile, com’è il dio del cristianesimo e già dei giudaismo e poi dell’islam, ma femminile, è stato in origine più immediato, più intuitivo. Anziché a un Dio Padre, l’umanità è stata a lungo devota a una Dea Madre.
Nei miti delle culture da cui nasce la nostra — mesopotamica, egizia, greca, italica, romana — il volto mutevole di questa dea emerge in diverse personificazioni e prende molti nomi: Ishtar-Astarte-Afrodite–Venere; Ecate triforme, come tre sono le fasi della vita e tre quelle della luna; Demetra-Cerere e Persefone-Proserpina; Cibele, Artemide-Diana. «Progenitrice della natura, signora degli elementi, / germoglio dell’inizio di tutti i tempi, somma potenza, / regina dei Mani, prima tra i celesti, / unico volto di tutti gli dèi e di tutte le dee, / che col cenno del suo capo comanda / alle luminose sommità dei cieli, / ai freschi venti del mare / e al fecondo silenzio sotterraneo: / la sua unica volontà venera in molti modi, / secondo differenti usanze e molti nomi, / tutta la terra».
Non è una preghiera rivolta a una delle divinità femminili pagane elencate sopra, ma un brano tratto da una liturgia mariana medievale.
Perché se il cristianesimo impernia il suo credo su un unico Dio Padre, è anche l’unica tra le religioni del libro a lasciare sopravvivere, nella sua versione ortodossa e cattolica, la grande e ancestrale tradizione della divinità femminile. Nella figura della Madre di Dio — la Theotokos bizantina, su cui i primi concili ecumenici hanno tanto dibattuto — convergono molti tratti della Grande Madre e delle varie divinità femminili in cui si è espresso il suo culto. È un culto principalmente lunare. Perché nel grande ricamo astrale in cui tutte le antiche religioni dispiegano i loro miti e i loro dèi la divinità femminile in cui convergono tutte le altre è la Luna: La Dea Bianca di Robert Graves, la Casta Diva «che inargenta queste sacre antiche piante» della Norma di Bellini. Poiché il ciclo naturale delle messi implica la morte e la rinascita del seme, la Grande Dea è sempre connessa a culti legati al ciclo morte-rinascita, e questo ciclo è simboleggiato dalla Luna fin da tempi antichissimi. In seguito con la divinità lunare si identificheranno principalmente Diana, la dea che reca la falce di luna in fronte nell’iconografia classica come ancora nei quadri rinascimentali e barocchi, e una divinità di origine egizia, Iside, che diventerà la Madre Nostra per eccellenza della grande e unificata cultura mistico-religiosa, ma anche filosofica, poetica e letteraria, dell’impero romano. A lei Lucio Apuleio, al termine de Le metamorfosi, dedicherà la sua preghiera: «Regina del cielo — che tu sia Cerere la ristoratrice madre delle messi, o che tu sia invece Venere celeste, che ai primi esordi delle cose ha composto la discrepanza dei sessi creando Amore; o che tu sia Artemide, la sorella di Febo Apollo; o che tu sia la tremenda per notturne grida Proserpina, che con il triforme aspetto reprime le sortite degli spettri e tiene serrati i battenti degli inferi — Tu che con la tua luce femminile illumini tutte le mura e con i tuoi raggi umidi nutri i lieti semi e in rivoluzioni solitarie dispensi la tua fioca luce, con qualunque nome, con qualunque rito, sotto qualunque aspetto sia lecito invocarti, assistimi nelle mie sventure».
Erano già propri di Iside gli epiteti che lungo i secoli sono stati attribuiti alla Madonna: “Santa Vergine”, “Regina del Cielo”, “Dispensatrice di Grazie”, “Regina del Mare”, “Stella Mattutina”, “Salvatrice”, “Madre Misericordiosa che ascolta le preghiere”. E ricorda da vicino l’iconografia della Madonna la descrizione visiva che Apuleio dà dell’epifania di Iside, con i lunghi capelli e il manto fluente disseminato di stelle. Gli studiosi di icone bizantine hanno ricollegato la rappresentazione di Iside lactans, ossia di Iside che allatta Horus, a una tra le più diffuse tipologie delle icone mariane, quella della Vergine Galaktotrophousa, che allatta al seno il Bambino Divino.
Ad accomunare il culto della Madonna a quello delle figure che nella religione classica ha assunto la Grande Dea è quindi l’adorazione di una coppia sacra madre-figlio, come nel caso di Iside, o anche madre-figlia, come nel caso di Demetra e Proserpina. È lo status di Mater Dolorosa, che accomuna sia Demetra in lutto per la figlia rapita nell’Ade - che periodicamente risorge insieme alle messi nella stagione primaverile (un mistero al cuore dei misteri eleusini) - sia Iside (il cui mito stringe in un unico nodo simbolico la coppia sposa/sposo e quella madre/figlio). A strutturare la figura della divinità femminile è questo ulteriore e saliente attributo: il compianto per il figlio perduto, il mistero della sua resurrezione.
Il fatto che il cristianesimo faccia sopravvivere nella figura della Madre di Dio la grande tradizione della divinità femminile, e il fatto che nella Madonna convergano i tratti della Grande Madre e delle varie divinità in cui si è espresso il suo culto, non fa che dare spessore e profondità di significati alla figura della Vergine, ai suoi attributi, alla sua iconografia, alla sua storia devozionale: ci aiuta a decrittarla.
Ma certo non implica che la Madre di Dio cristiana sia semplicemente una delle ipòstasi della Grande Madre. Qualcosa di molto singolare si è aggiunto, e molti hanno cercato di descrivere cosa sia, in termini teologici, filosofici, letterari, poetici. In un testo che risale al VII secolo bizantino, l’Akathistos, quello che i teologi considerano il più bell’inno mariano dell’antichità, la Grande Madre è invocata come «Madre dell’Astro che non tramonta, colonna di fuoco che guida chi è nella tenebra, roccia che disseta chi ha sete di vita, albero dai lunghi rami che dà ombra a migliaia, amore soverchiante ogni desiderio, iniziatrice di nuova forma razionale, raggio del sole intellettuale, freccia di luce inoffuscabile, tesoro di vita indissipabile, terapia della carne, salvezza dell’anima», ma soprattutto, ricorrentemente, come «sposa non sposa».
Nel mondo ortodosso l’Akathistos si canta spesso, ma è particolarmente commovente ascoltarlo in un qualsiasi monastero maschile greco la notte tra il 14 e il 15 agosto, in occasione della festa dell’assunzione in cielo della Vergine — un vero asterismos, simile a quelli della tradizione classica — quando scure e melodiose voci di uomini soli invocano la Theotokos affiancando quell’accento di pura metafisica che contraddistingue la teologia bizantina all’invocazione struggente di una Madre lontana.
La perturbazione ancestrale prodotta nella psiche maschile dalla Grande Madre è insopprimibile proprio perché sotterranea, universale perché collettiva e popolare.
La preminenza femminile, la potenza della donna, nella tutto sommato non lunga storia del mondo patriarcale possono essere state rimosse in termini sociali, economici, politici, perfino programmaticamente negate in termini culturali, ma la struttura psicologica, che si riflette in quella religiosa, permane anche e soprattutto nel maschio.
Donna, domna, domina: signora.
Il nome che si dà oggi all’individuo umano femmina, ancora per molti aspetti subalterno, è già etimologicamente, nel suo affiorare alla lingua, un appellativo sacrale.

Repubblica 9.5.18
Con Recalcati il lessico non è solo antitelevisivo
di Antonio Dipollina


Un pezzo di tv lunare, nel nome della madre, del padre, del figlio e della scuola. Massimo Recalcati divide in quattro puntate per Rai 3 ( Lessico famigliare, il lunedì in seconda serata) una vera lezione universitaria, con domande finali degli studenti: e si mantiene alto, come si usa dire, non concede alcunché al senso comune televisivo ma nemmeno si nega riferimenti esterni, purché non corrivi: e parla di famiglia nel Gran Torino di Clint Eastwood, mentre gli inserti filmati vanno da Bergman a incredibili corti della Rai negli anni 60, oppure c’è una eccellente Anna Bonaiuto che legge il passo biblico di Re Salomone. Resta il fatto che si tratta di una lezione universitaria: con una sfida-sberleffo a chi in tutto questo vede solo pura antitelevisione. Recalcati, psicoanalista e divulgatore al piano più alto, potrebbe giocare molto più facile: il fatto che non voglia e che il suo Lessico televisivo sia pressoché scandaloso e soprattutto, ohibò, difficile, ma davvero, rende tutto una scommessa pregiata. E poi il tema, che azzera il chiacchiericcio circostante e richiama il centro delle cose: madre, padre, figlio, scuola. E pazienza per chi si appassiona con altro.

Repubblica 9.5.18
Aldo Moro. Cronache di un sequestro / 10
l’ultimo viaggio nel buio
Via Caetani: una strada di Roma poco distante dalla sede del Pci e della Dc, che proprio questa mattina ha riunito la direzione con l’ormai unico ordine del giorno, la sorte del presidente del partito Il cui corpo è qui, nel bagagliaio di una Renault 4 rossa parcheggiata tra il civico 32 e il 33 La scelta del luogo in cui si conclude la tragedia politica italiana è l’ultimo messaggio simbolico Da quell’automobile si scatenano i demoni di un terrorismo avviatosi verso l’autodistruzione, di una classe dirigente stremata e di un Paese che si vede riflesso nel cadavere di una vittima sacrificale
di Ezio Mauro


 Un uomo col cane è l’unico inconsapevole testimone che vede spuntare in via Montalcini la “R4” rossa appena uscita dal “covo”, poco dopo le 7 del mattino. È targata Roma N56786, l’hanno rubata a marzo, hanno cambiato la targa, pochi giorni fa l’hanno scelta per l’ultima missione. La guida Mario Moretti, Germano Maccari è al suo fianco. Non sanno che nel bagagliaio, sotto la coperta, Moro sta ancora agonizzando, incosciente. Hanno pensato a tutto, dal calibro della pistola per non bucare la carrozzeria dell’auto, ai fazzoletti di carta sulle ferite per tamponare il sangue, alla cerata stesa sotto il corpo. Ma non hanno controllato che il condannato fosse morto. Come se le due raffiche riassumessero in sé tutta la vicenda drammatica di quei 55 giorni, la esaurissero, e poi non restasse più nulla, nemmeno una verifica, neanche per sicurezza: neppure per pietà. Nessuno dei dodici colpi ha centrato il cuore. Moro muore dissanguato in quindici minuti, mentre l’auto lascia villa Bonelli, prende via della Magliana, gira a sinistra, arriva in piazzale della Radio, passa sotto il cavalcavia verso Porta Portese e sbuca sul Lungotevere. Lentamente, in mezzo al traffico delle scuole e degli uffici, la “R4” sta portando la tragedia italiana verso il suo indirizzo finale.
È un martedì febbricitante, sonnambulo, stremato. Alle 10 e mezza a piazza del Gesù si riunirà la direzione della Dc, che dovrebbe convocare il Consiglio Nazionale per discutere la linea da tenere sul caso Moro, come ha chiesto con insistenza dal carcere nei giorni scorsi il prigioniero. A casa, prima di passare dal Viminale, il ministro degli Interni Cossiga sta scrivendo la lettera di dimissioni che si porterà in tasca alla riunione democristiana, pronto a consegnarla se il partito decide di cambiare posizione e aprire alla trattativa, come ha fatto capire alla moglie di Moro e al socialista Signorile il presidente del Senato Fanfani: molti oggi attendono una sua parola ufficiale.
Anna Laura Braghetti ha chiuso il box del delitto, è uscita in strada a controllare che tutto fosse tranquillo ed è tornata nel “covo”. Da solo, Prospero Gallinari sta portando fuori dalla cella la branda, il comodino, il water da campo, i cuscini, arrotola il tubo di 2 metri e mezzo che passando attraverso un buco nella porta ha fatto arrivare per quasi due mesi l’aria dal grande ventilatore esterno. Poi, col ritorno di Maccari, smantelleranno la parete di cartongesso insonorizzata e in due giorni della prigione resterà solo un foro sul pavimento, il buco del cardine su cui girava la libreria che mascherava la porta. Nessun’altra traccia del sequestro.
La falsa casa, comprata dai brigatisti per diventare prigione, entra nella sua terza stagione, quella di covo numero 1 delle Br a Roma. Braghetti guarda la prigione senza quel prigioniero con cui ha convissuto 55 giorni senza che lui la vedesse mai, mentre lei lo osservava dalla spioncino nelle ore in cui dormiva, quando pregava, appoggiato a due cuscini ogni volta che scriveva, negli ultimi giorni con la testa tra le mani, seduto sul bordo del letto. Nel registratore Philips a pile c’è ancora la cassetta con la messa di domenica scorsa, Santa Flavia, due giorni prima dell’omicidio, vicino ai nastri con la musica che ascoltavano i brigatisti, Guccini, Lucio Dalla, Aznavour. Oggi pomeriggio Gallinari taglierà a strisce lo stendardo con la stella a cinque punte che stava appeso al muro della cella dietro il prigioniero, e lo brucerà pezzo per pezzo, senza pensare che nel grande incendio politico che il sequestro Moro ha appiccato al Paese sta intanto andando in cenere anche la vicenda delle Brigate Rosse.
Dall’altra parte di Roma, nella casa di via del Forte Trionfale la famiglia di Moro si sente precipitare nell’oscurità delle ultime ore. L’associazione di cui fa parte Giovanni, “Febbraio ’74”, cerca di far scendere in campo la Croce Rossa come possibile soggetto terzo per cercare il filo di un dialogo ormai quasi impossibile tra i sequestratori e lo Stato, ma Andreotti non appoggia l’iniziativa, che si arena. Eleonora Moro ha aspettato per tre ore nella sede romana della Caritas, insieme con Corrado Guerzoni, una misteriosa chiamata telefonica rispondendo alla quale avrebbe potuto parlare col marito, ma era una falsa indicazione. «Quell’uomo – dice a Nicola Rana – io a questo punto non so se lo rivedremo ». Ha ricevuto le ultime lettere del prigioniero da don Antonello Mennini, giovane viceparroco di Santa Lucia, amico e confessore di Moro che lo ha scelto come intermediario finale per gli addii. Le ha lette coi figli, le ha rilette coi collaboratori del marito, nello strazio delle parole dell’abbandono: «Vorrei avere la fede che avete tu e la nonna per immaginare i cori degli angeli che mi conducano dalla terra al cielo. Ma io sono molto più rozzo». «Credo non sarà facile imparare a parlare con Dio. Ma c’è speranza diversa da questa?». «Ci rivedremo. Ci ritroveremo. Ci riameremo».
La moglie ha telefonato alle 11 di sera a Fanfani, scongiurandolo di fare qualcosa, ha chiamato al Quirinale il presidente Leone. Poco per volta nella casa prendono forma e peso le disposizioni che Moro dissemina nelle lettere per il dopo. Ha scritto i testamenti il 5 di aprile, li ha riscritti il 10. Ma ha dei piccoli lasciti di cui vuole essere sicuro: la biro nella vestaglia per Luca, il posacenere e il pennarello marrone nel comò per Giovanni, per Anna un topolino di metallo che lei da piccola gli aveva regalato per non far correre troppo gli aerei quando era in viaggio. Poi i richiami ripetuti alla tomba di famiglia a Torrita Tiberina: «Per la tomba c’è rischio di sicurezza. Forse converrebbe allogarmi altrove», «non disturbarti per la tomba, fa’ come vuoi», «se vedi che non potete venire a Torrita, tienimi piuttosto a Roma». Quindi preoccupazioni minori («non mancare di fare la vaccinazione antiinfluenzale», «non mi disperdere le cose da vestire», «prego lasciare unite le mie cose», «credo ci sia una buonuscita dall’Università», «sono state recuperate le borse in macchina?»). E ancora vere e proprie indicazioni quasi perentorie:  «Tutto sia calmo. Le sole reazioni polemiche contro la Dc. Luca no al funerale ». «Non mi so immaginare onorato da chi mi ha condannato». «Io non desidero intorno a me gli uomini del potere, ma coloro che mi hanno amato davvero». «Mi è stato promesso che restituiranno il corpo e alcuni ricordi. Spero che si possa».
Quel corpo adesso viaggia nel bagagliaio della Renault, rannicchiato su se stesso, coperto, con qualche traccia di catrame quasi fresco e misterioso sulla suola delle scarpe, lo stesso che macchia i parafanghi e le gomme della macchina. Terriccio sulle calze. Nella tasca sinistra del cappotto qualche spighetta, nell’altra un paio di guanti di pelle scura. Sulla cerata stesa sopra il pianale, sabbia, un piccolo cardo con gli aculei. Sopra il cappotto scuro, la custodia di un misuratore di pressione, presa da una borsa dell’ostaggio, contiene gli oggetti che Moro aveva con sé al momento del sequestro: ci sono la fiaschetta di whisky, un rosario di legno dentro una custodia di lana, un paio di occhiali da sole e tre da vista, due orologi, un accendino, un pettine, una medaglia della Madonna, un foglio bianco con scritto “Per papà”, tre mazzi di chiavi, la fede matrimoniale, tre assegni, seicentodieci lire in monete. Manca quella mezza pagina del
l’ultimo saluto d’affetto per il prigioniero e che lui aveva tenuto da parte «perché volevo portarla sul petto, così per farmi compagnia, all’atto di morire». Ma è andata perduta durante le pulizie della cella da parte di Gallinari, per distrazione.
L’auto entra nelle strade del ghetto, dove c’è l’appuntamento con la macchina-staffetta, una “Simca” verde guidata da Bruno Seghetti, con a fianco Valerio Morucci. La sera prima dell’esecuzione, nell’ultima riunione nell’“ufficio” di via Chiabrera, dopo che Adriana Faranda si era ancora una volta schierata contro l’assassinio di Moro, Mario Moretti aveva deciso che proprio lei avrebbe dovuto guidare il piccolo corteo per portare il corpo del condannato all’ultima sua destinazione. È la logica dei gruppi terroristici, che punta a coinvolgere in un’azione i più contrari, per impegnarli fino a comprometterli: «Lo faccio, ma solo per disciplina», aveva detto Faranda, andandosene dalla stanza. Morucci si offre al suo posto, convincendo gli altri che la sua compagna non è nelle condizioni di garantire la sicurezza che richiede l’ultimo atto di un’operazione terroristica nelle strade presidiate del centro.
È lui che vede arrivare la “R4” rossa a piazza Monte Savello, punto stabilito per il contatto. Adesso le due auto devono compiere un percorso breve, ma pericoloso, perché pieno di luoghi presidiati dalla polizia. Ecco la Sinagoga, poi il ministero di Grazia e Giustizia in via Arenula, quindi il portone e il balcone della sede comunista in via delle Botteghe Oscure, proprio dietro la sede della Dc dove stanno per arrivare tutti i leader del partito. Ma la “Simca” mette la freccia seguita dalla “Renault”, svolta a destra, poi prosegue, finché la targa d’angolo sul muro indica: via Michelangelo Caetani.
Qui l’organizzazione terroristica, ossessionata dai simboli, si è preoccupata di riservarsi il posto più emblematico dalla sera prima. Qualcuno ha posteggiato un’auto delle Br nel luogo giusto, in una via poco frequentata ma in pieno centro, dunque nel recinto del potere e della sorveglianza poliziesca, anzi a pochi passi da due santuari politici, la sede della Dc e del Pci. Lo aveva detto Gallinari, al momento di scegliere il posto per l’ultimo atto: «L’elemento simbolico diventa un modo politico di concludere l’operazione, perché ribadisce la natura dell’attacco ed è una prova di forza. Riconsegniamo il cadavere ai piedi del Palazzo ».
Per il momento si vede solo l’auto, quella “R4” che diventerà per sempre un’icona italiana del terrore. È a metà della strada nella tranquillità delle otto di mattina, tra il civico 32 e il 33, sul lato sinistro venendo da via delle Botteghe Oscure. Sul pianale davanti ci sono due  bossoli di pistola, con la capsula esplosa, una foglia verde. Bisognerebbe avvicinarsi al lunotto posteriore, guardare dentro, per notare quel plaid rossastro nel bagagliaio, che sembra coprire qualcosa. Ma a quest’ora non c’è quasi nessuno. I brigatisti chiudono il finestrino, controllano di non aver lasciato nulla a bordo, scendono, se ne vanno a piedi, con la “Simca” e con l’auto-civetta che Morucci ha spostato dal parcheggio, portando con sé la borsa con il mitra. Ognuno va alla sua destinazione, l’“operazione Fritz” è quasi conclusa, manca ancora un capitolo, ma l’operatività è finita. Domani al processo di Torino Curcio potrà rivendicare l’esecuzione, citando Lenin: «La morte di un nemico di classe è il più alto atto di umanità possibile in una società divisa in classi ». Ma adesso bisogna disperdersi. Riattraversano il centro, dopo aver lasciato nel cuore della città il corpo dell’uomo che tutta l’Italia cerca da due mesi, con 6.296 posti di blocco nella sola capitale, 6.933 perquisizioni domiciliari, con più di 167mila persone controllate: tutto a vuoto, tutto inutile.
Il posto scelto per l’appuntamento tra Morucci e Faranda è la Piramide. Lui arriva in autobus, vede lei che lo sta già aspettando. I due “postini” delle Br devono trasmettere l’ultimo messaggio, quello della morte del condannato. Devono annunciare l’esecuzione e rivendicarla, avvertendo dov’è il corpo, per guidare il ritrovamento. Moro ha chiesto soltanto un’ultima cosa a Moretti: dopo che tutto è compiuto, venga avvertita per prima la famiglia. Devono farlo in fretta, prima che qualcuno scopra per caso il contenuto di quell’auto in via Caetani. Ma devono stare attenti di non essere individuati mentre telefonano. Vanno ancora una volta – l’ultima – alla stazione Termini, contando sulla confusione, sulla folla, sul numero di cabine. Individuano quella con la posizione più defilata, con la visuale più ampia per il controllo di copertura, che tocca a Faranda.
Moretti ha preso due numeri dall’agenda di Moro, nella prigione, li ha passati ai “postini”. Sono due assistenti universitari, forse i loro telefoni non sono intercettati, soprattutto il primo, quello del professor Fortuna. Ma il numero non risponde, non c’è nessuno in casa. Morucci esce dalla cabina, camminano un po’, tornano indietro, lui riprova: niente. Dopo mezz’ora un ultimo tentativo, a vuoto. Sta passando troppo tempo, si deve affrettare il ritrovamento, bisogna passare al secondo numero in agenda. «È lei il professor Franco Tritto?». «Chi parla?». «Il dottor Niccolai». «Chi? Voglio sapere chi parla». «Brigate Rosse»: silenzio. «Dovrebbe dire questa cosa alla famiglia, dovrebbe andare personalmente e dire questo: adempiamo alle ultime volontà del presidente comunicando alla famiglia dove potrà ritrovare il corpo dell’onorevole Aldo Moro». «No, se può ripetere, per cortesia…». «Non posso ripetere, guardi. Allora, lei deve comunicare alla famiglia che troveranno il corpo dell’onorevole Aldo Moro in via Caetani, che è la seconda traversa a destra di via delle Botteghe Oscure. Lì c’è una “Renault” rossa, i primi numeri di targa sono N5».
Tritto piange, si sente la voce che si spezza al telefono, passa la cornetta a suo padre. Morucci ripete il messaggio, si assicura che sia stato inteso bene, che l’assistente porti la comunicazione a casa Moro, poi saluta: «Arrivederci». Tritto va in via del Forte Trionfale, dove Moro era uscito per l’ultima volta di casa il 16 marzo, e dove adesso arriva la notizia della morte, 55 giorni dopo. Ma il numero del professore era sotto controllo, la telefonata è registrata, appena finito l’ascolto parte l’allarme alla polizia e ai carabinieri. Le pattuglie svoltano in via Cateani, una dietro l’altra, i curiosi guardano dentro quella strada anonima del centro, attraversata dai lampeggianti. Gli agenti vedono la macchina rossa, controllano la sigla della targa: è quella.
Poco lontano, sta incominciando la riunione della direzione Dc, con l’intervento del segretario Zaccagnini, poi la sfilata dei leader al microfono nella grande stanza dove tra poco arriverà la notizia che fulminerà il partito e il Paese, sussurrata dal capo ufficio stampa Cavina all’orecchio del segretario. Ma non è ancora il momento, tutti ascoltano le parole di Fanfani, ma nel lessico democristiano del presidente del Senato non arriva nessuna apertura. Nella prigione smontata di via Montalcini la televisione non è accesa, non c’è più niente da capire. Precauzioni, cancellazioni, sostituzioni mascherano via via le tracce di due mesi di sequestro. Braghetti regala a sua zia Gabriella la grande cesta di vimini che ha trasportato Moro dal “covo” al garage. Le armi sono in una sacca da tennis e il manico svuotato di una racchetta avvolge e nasconde la canna di un fucile. Un caricatore è mimetizzato dentro un pacchetto regalo. Solo il ciclostile resiste, nascosto dietro la porta sempre chiusa del bagno di servizio. Adesso l’ultimo gesto: Prospero Gallinari brucia in casa l’agenda telefonica di Moro, utilizzata dai “postini” per chiamare i destinatari delle lettere, foglio per foglio. Deve sparire.
In via Caetani arriva Antonio Cornacchia, che comanda il nucleo investigativo dei carabinieri, e ha ricevuto l’allarme dalla radio dell’auto. Scende, si avvicina, controlla: è davanti alla “Renault”. Avverte il comando via radio, gli dicono di aspettare l’arrivo degli artificieri. Ma Cornacchia gira intorno alla macchina, guarda dentro, vede quel plaid dietro, gli sembra che copra qualcosa. Aspetta, guarda ancora, poi decide. Prende dalla sua auto un piede di porco, e fa saltare la chiusura. Alza il portellone posteriore, con una mano muove la coperta. Appena spostata lo vede: Moro è lì dentro, nel bagagliaio, con gli stessi vestiti di quel mattino di marzo. Le gambe piegate indietro, la mano destra sul petto, la testa appoggiata alla ruota di scorta. La barba è cresciuta: come se il corpo del condannato volesse continuare a vivere.
10. Fine. Le altre puntate sono uscite il 9, il 16, il 23 e il 30 marzo; il 6, il 13, il 20 e 27 aprile e il 4 maggio

Corriere 9.5.18
L’intervista Giuliano Amato
«Per tentare di salvare Moro si poteva trattare con le Br»
L’ex premier: la linea delle fermezza fu scelta per la debolezza dello Stato
di Giovanni Bianconi


La notizia l’apprese dalla televisione: «Mi trovavo a casa, e un giovane Bruno Vespa annunciò che l’uomo trovato morto nella Renault 4 rossa era Aldo Moro. Una conclusione terribile, che cinquantacinque giorni prima non avemmo la lucidità nemmeno di immaginare». Era il 9 maggio 1978. Cinquantacinque giorni prima, il 16 marzo, Giuliano Amato — oggi giudice costituzionale dopo essere stato più volte ministro e presidente del Consiglio, all’epoca direttore del Dipartimento di studi giuridici della facoltà di Scienze politiche, alla Sapienza — era andato all’università dov’erano in programma gli esami di laurea; di alcune tesi era relatore Aldo Moro, professore di Diritto penale: «Appena arrivarono le prime informazioni, prima di un incidente e poi del rapimento, dicemmo ai suoi studenti che le loro discussioni erano rinviate a quando Moro fosse tornato. Ma non lo vedemmo mai più».
Lei all’epoca militava nel Psi guidato da Bettino Craxi, che da un certo momento tentò la strada della trattativa con i brigatisti, per provare a far tornare Moro a casa. Cosa ricorda di quei giorni?
«Fui interpellato una sola volta da Craxi, insieme a Gino Giugno e Giuliano Vassalli. Ci chiese indicazioni sulla legittimità del negoziato, e io sostenni che per salvare la vita di un proprio cittadino lo Stato può negoziare con chicchessia. Ma lì c’era un ostacolo in più, e cioè la questione del riconoscimento politico che si sarebbe garantito ai terroristi, dando loro una patente di autorità e politicità quasi pari a quella dello Stato. Ricordo quell’incontro a quattro, noi tre e Craxi, ma poi il segretario non ci convocò più, e i tentativi proseguirono con il solo Vassalli».
Lei dunque era favorevole a una trattativa con i brigatisti?
«Allora, da estraneo qual ero alla vicenda, la vivevo pieno di dubbi. Ma ciò che più mi colpì fu il motivo per cui le istituzioni del tempo, rappresentate in particolare dalla Dc e dal Pci, decisero per la fermezza. A me sembrava che a richiederla fosse non la “statualità”, ma la debolezza che essi stessi sentivano nel nostro Stato. Uno Stato forte avrebbe reagito diversamente, trattando anche con il diavolo, salvo andare ad arrestarlo un attimo dopo. Basti guardare quello che ha sempre fatto e continua a fare Israele, anche con una controparte come Hamas, che considera terrorista; non si sente intaccato da uno scambio di prigionieri, se serve a salvare la vita di propri cittadini».
Era quello che cercava di spiegare Moro nelle lettere dalla «prigione del popolo».
«Certo, e non fu ascoltato. Allora c’è da chiedersi perché lo Stato si sentiva così debole. In quei giorni si avvertiva una sensazione di grande inadeguatezza, una situazione nella quale ciascuno si muoveva per conto proprio, con il presidente della Repubblica pronto a concedere la grazia a una brigatista che non si era macchiata di reati di sangue e altri che fecero di tutto per dissuaderlo. Non c’era unità d’intenti».
Tranne che nel ritenere inattendibile e troppo condizionato dai suoi carcerieri il Moro che lanciava appelli dalla prigionia. Lei che cosa pensò di quegli scritti?
«Non ho mai ritenuto che non fossero autentici, e capisco il risentimento della famiglia nei confronti di chi invece sostenne di non poter riconoscere Moro in quelle lettere. Probabilmente era una posizione necessaria a mantenere la linea della fermezza, che per il Pci poteva avere una ragione: forse quei “compagni che sbagliavano” avevano assonanze anche in casa sua, e qualunque interlocuzione con loro poteva ridurre le barriere immunitarie. Ma la Dc non aveva lo stesso problema, e dunque è meno comprensibile. Ripeto: non trattare può essere un’eccezione, non la regola. Del resto abbiamo esempi di trattative condotte per conto dello Stato italiano sia prima che dopo Moro: da Sossi a Cirillo, e con gli stessi terroristi palestinesi».
Quando conobbe Moro?
«Lo conobbi prima da politico che da professore, quando fu presidente del Consiglio nei governi di centrosinistra, dal 1963 al 1968. Io collaboravo col ministro del Bilancio socialista, e c’erano contrasti sulla ripartizione di poteri e competenze con il Tesoro tenuto dai democristiani; ricordo riunioni interminabili nelle quali Moro non imponeva soluzioni ma portava gli altri a discutere e confrontarsi fino a convergere su quella che lui riteneva più congrua. Non era mai una sua decisione, lui si limitava a prendere atto del punto d’incontro e solo allora diceva: “Vedo che abbiamo concluso”. Era come se costringesse gli altri al dialogo per ottenere il risultato voluto».
Fu la sua caratteristica principale?
«Questa lo era senz’altro, ma io penso che Moro debba essere ricordato nei libri di storia sull’Italia unitaria non tanto per i suoi metodi o perché l’hanno ucciso, bensì come uno dei pochi statisti che hanno colto e affrontato il mal sottile dell’Italia unita: la parzialità del consenso sociale che costituisce la base delle nostre istituzioni. Lui capì che era troppo esigua, e che bisognava allargarla per rendere meno fragile lo Stato. Un primo passo era stato compiuto con l’integrazione dei cattolici nelle istituzioni, di cui lui era parte, poi proseguì con l’apertura prima al Psi e poi al Pci, con la cosiddetta terza fase. Non per qualche alchimia politica o per imporre matrimoni innaturali, ma per la sostanziale necessità di integrare i ceti sociali rappresentati da quei partiti. Era un modo, anzi il modo per rafforzare lo Stato debole».
Quello che non ebbe la forza di trattare con i brigatisti?
«Esattamente: lo Stato debole che non è riuscito a salvare Aldo Moro».