venerdì 4 maggio 2018

il manifesto 4.5.18
Benjamin e il partito della sinistra
Dopo il 4 marzo. Non serve abbandonarsi alla «melanconia» o al fatalismo. Nella storia come in politica c’è sempre una alternativa. Le energie ci sono. La grande vittoria al referendum del dicembre 2016, dimostra che l’opinione pubblica ha capacità, proprio nei momenti topici, di cogliere l’essenziale
di Fabio Vander


Malinconia di sinistra intitolava Walter Benjamin un suo breve saggio del 1937. Ce l’aveva con gli intellettuali di sinistra, tedeschi ed europei, degli anni ‘30, depressi e melanconici perché sopraffatti dalla «routine», non più capaci di «provare disgusto», oggi si direbbe di indignarsi.
«Radicali di sinistra» ridottisi a «creare, dal punto di vista politico, non partiti ma cricche». La conclusione era senza appello: «Qquesto radicalismo di sinistra è proprio precisamente quell’atteggiamento a cui non corrisponde più nessuna azione politica». A qualcuno, oggi, in Italia, dovrebbero fischiare le orecchie.
Il risultato del 4 marzo ha investito l’intero spettro della sinistra e del centro-sinistra. Il Pd è stato punito due volte (al referendum del dicembre 2016 e alle politiche del 2018) per la sua politica di governo e istituzionale-costituzionale; ma anche la sinistra radicale per aver dilapidato dieci anni, dalla costituzione del PD nel 2007 ad oggi, senza riuscire a costruire un soggetto politico autonomo, capace di progetto, radicamento, rappresentanza di interessi sociali e civili. Da Sinistra Arcobaleno a Liberi e Uguali, solo liste elettorali senza progetto politico.
La «melancolia» del vasto mondo della sinistra (costretto ormai a nascondersi «nel bosco», a votare Cinque Stelle, quando non Lega) rimanda dunque a errori e responsabilità di ceto politico che denotano un deficit strategico divenuto strutturale. Così ad esempio Mdp è stata utile per far perdere il Pd ma non per ricostruire la sinistra, come puntare su Pisapia, cioè su chi aveva votato «sì» al referendum costituzionale e voleva un «campo progressista» fiancheggiatore del Pd, era evidentemente un errore. Lo stesso per la lista «Liberi e Uguali» (Leu), nata improvvisata e così percepita da un elettorato di sinistra giustamente esigente. La politica dei due tempi: prima la lista poi, semmai, il partito, è stata una volta di più esiziale e pagata a caro prezzo. Lo stesso vale per Sinistra ecologia e libertà, la cui trasformazione in Sinistra italiana non ha certo fatto dimenticare dieci anni di «non voglio un partito ma riaprire partita», cioè di subalternità, a livello nazionale e locale, al Pd.
Ma perseverare è diabolicum e ancora dopo il 4 marzo c’è stato chi, in area Leu, è tornato ad insistere su «un nuovo centro-sinistra», magari senza più le politiche neo-liberiste e anti-Labour degli ultimi decenni. Ma non c’è centro-sinistra fuori di queste politiche! Storicamente dall’Ulivo al Pd di Renzi, dalle regole di Maastrich al pareggio in bilancio in Costituzione, il centro-sinistra italiano non è mai stato altro da quelle politiche. Altro è invece rifondare la sinistra e poi immaginare un inedito programma fra autonomi e diversi. Rifare la strada inversa: da «cricca» a «partito», ad una «azione politica» strategica e di alternativa.
Altrimenti gli elettori l’antidoto lo trovano a modo loro. Premiando quelli che sembrano più netti nella ripulsa delle politiche di precarizzazione del lavoro e della vita e punendo chi certe politiche le ha incarnate: dal Pd a Forza Italia, ma anche i partiti socialisti e conservatori europei. In mancanza di una alternativa di sinistra, di una sinistra dopo il centro-sinistra, di un socialismo dopo la «Terza Via», certe domande e bisogni popolari vengono sospinti nella direzione peggiore, quella dei populismi, dei nazionalismi, dei razzismi, addirittura dei rigurgiti fascisti.
Non serve abbandonarsi alla «melanconia» o al fatalismo. Nella storia come in politica c’è sempre una alternativa. Le energie ci sono. La grande vittoria al referendum del dicembre 2016, dimostra che l’opinione pubblica ha capacità, proprio nei momenti topici, di cogliere l’essenziale, in primis la difesa della democrazia e della Costituzione, quando invece le élites e i «radicali di sinistra» la considerano perduta e compromessa.
Ma la classe politica che ha governato la sinistra negli ultimi trent’anni non ha nessun titolo per dare del populista al popolo sovrano. Si disponga piuttosto umilmente all’ascolto.

Repubblica 4.5.18
Il bicentenario
Quando andò in visita in Cina, l’allora segretario del Pci portò con sé le opere giovanili del filosofo di Treviri.. Gli servivano per capire e respingere le forme di totalitarismo lì imperanti
Il Marx campione di libertà sul comodino di Berlinguer
di Siegmund Ginzberg


Arroganza e rissosità, malattie antiche della sinistra, mi viene da pensare mentre vedo al cinema il Giovane Karl Marx di Raoul Peck. Malattie forse congenite, non solo infantili o senili. Marx ed Engels che polemizzano con gli altri “giovani hegeliani”, poi con gli altri paladini del popolo e gli altri rivoluzionari. Che sono convinti di avere ragione loro e che abbiano torto gli altri. C’è un ritorno di Marx. E non solo al cinema. Sono mesi che al Bridge di Londra replicano con tutto esaurito una pièce teatrale sulla difficile vita nella città dove scrisse il Capitale.
È il duecentesimo dalla nascita, sono 170 anni dal Manifesto. Anche il Financial Times è tornato sull’argomento con un saggio impegnativo: Cosa scriverebbe Marx oggi?. Di ricchi e poveri, cioè di diseguaglianza, anziché di borghesi e proletari, di riforme e regolamentazione anziché di abolizione della proprietà privata: questo il parere degli autori, accademici di Oxford e Berkeley.
Sarebbero persino convincenti, se non esagerassero a dirsi “certi” della loro interpretazione.
Ci si poteva aspettare un rischio di indigestione da ricorrenza. E invece, a sorpresa, da due mesi il film di Peck regge, almeno in qualche sala italiana: un record per un film di questo genere. Ben fatto, ma difficile da seguire.
Filologicamente corretto, ben documentato, belle immagini, ricostruzioni attente, fin della forfora sugli abiti. Fantastici i personaggi femminili, Jenny Von Westphalen, «nata baronessa» come precisava il biglietto da visita in caratteri dorati che lei e Marx avrebbero fatto stampare a Londra, interpretata da Vicky Krieps, e Mary Burns, l’operaia che convisse con Engels, interpretata da Hannah Steele. Non guasta che sia romanzato. Sono personaggi che si prestano al romanzo.
Leggevano e amavano i romanzi.
Mi convince meno che vengano rappresentati come “sessantottini” (del Novecento) più che “quarantottini” (dell’Ottocento). Si vede che c’è un gran lavoro dietro. Eppure: quanti riescono a seguire le vicende e le controversie che scorrono sullo schermo? Ruge, Blanqui, Weitling, Proudhon, Bakunin… ma chi erano costoro? È già tanto che i più giovani tra gli spettatori abbiano un’idea di chi sia Marx.
Figurarsi se si può pretendere che colgano con chi e su che cosa litigava. Fatichiamo a comprendere risse e ripicche dei giorni nostri.
Eppure c’è qualcosa di familiare nella brillante sicurezza con cui il giovanissimo Marx espone e difende le sue posizioni.
L’interpretazione di August Diehl rende benissimo il brio, l’umanità, la simpatia, e al tempo stesso la quasi insopportabile arroganza di quel nipote di rabbini che è sicuro di essere nel giusto e non ha tempo da perdere con le ragioni degli altri. Solo che Marx quell’arroganza se la poteva permettere. Anche quando sbagliava. Aveva studiato, aveva fatto i suoi compiti. L’arroganza di altri è invece ridicola.
C’è chi è infastidito che si riparli di Marx. È comprensibile. Gran parte del secolo scorso è stato segnato da un esperimento fallito, il cosiddetto “socialismo reale”.
L’avevano pietrificato, ridotto a monumento senz’anima. Si erano ricostituiti gli antichi imperi dispotici, con nuovi zar, sultani e imperatori. La chiamavano “dittatura del proletariato”. Ma Marx con questa espressione intendeva cose come il suffragio universale, la sovranità popolare, il governo della larga maggioranza. In realtà il giovane Marx fu una delle vittime di quei sistemi. I Manoscritti economici- filosofici del 1844 consistono in 13 quaderni e un taccuino, compilati a Parigi in appena tre mesi. Contengono idee e note di lettura alla rinfusa, che per la frammentarietà — e allo stesso tempo profondità — ricordano un po’ i Quaderni dal carcere di Gramsci. In entrambi i casi si tratta di riflessioni seguite a una grave sconfitta politica. Quelli di Marx furono scoperti solo negli anni ’30 del Novecento. Colui che li scoprì, il bolscevico di origine ebraica David Goldendakh — più noto come David Rjazanov — fu poi fatto fucilare da Stalin.
Sono testi difficili. Che grondano però di idee forti che fanno a pugni con la percezione che ci è rimasta del comunismo: umanità, libertà, rispetto della natura e del prossimo, dignità dei produttori «in quanto esseri umani», lavoro concepito come «libera manifestazione della vita, quindi godimento della vita». Questo “Marx giovane” è stato talvolta contrapposto al Marx rivoluzionario del Manifesto, oppure a quello maturo del
Capitale. E si continua a fargli dire tutto e il contrario di tutto, a tirarlo da una parte, e, con altrettanta violenza, dall’altra.
Ero corrispondente a Pechino quando nell’estate del 1983 venne in visita Enrico Berlinguer, con la famiglia. Sarebbe stata la sua ultima vacanza. Andai a trovarlo alla residenza degli ospiti di riguardo dove lo alloggiavano.
Sbirciai curioso nella stanza dove dormivano lui e sua moglie Letizia. Sul suo comodino c’era una copia delle Opere filosofiche giovanili nella vecchia traduzione di Galvano della Volpe (Non vedo l’ora che esca in luglio, da Feltrinelli, la traduzione di Enrico Donaggio e Peter Kammerer). Mi sono chiesto spesso cosa l’avesse spinto a portarsi in viaggio una lettura così impegnativa, anziché un romanzo.
Ho una sola certezza: che era interessato al Marx campione di tutte le libertà, tranne la libertà di sfruttare altri uomini. Gli serviva anche per respingere il tipo di marxismo imposto dai comunismi totalitari.

il manifesto 4.5.18
La feconda storia di un lessico critico
Tra passato e presente. Un'anticipazione dal libro «Il sogno di una cosa. Per Marx», che esce con DeriveApprodi e viene presentato sabato al festival di Bologna, organizzato dalla casa editrice
di Alberto Burgio


Nello schema che Marx consegna alla «Prefazione» a Per la critica dell’economia politica riflettendo sulla vicenda delle rivoluzioni borghesi, un processo di transizione da una «formazione economico-sociale» a un’altra si verifica in quanto nel quadro dei processi riproduttivi di una data «formazione sociale» hanno luogo dinamiche conflittuali dirompenti: tali da provocarne – in capo a uno svolgimento di lungo periodo – lo scardinamento e la sostituzione da parte di una «formazione economico-sociale» basata su un diverso «modo di produzione». (…) Questa pagina della «Prefazione» del ’59, oggettivamente centrale nell’architettura complessiva della teoria marxiana, ha sempre attratto attenzione e suscitato riserve.
UNA POLEMICA RICORRENTE, e a prima vista consistente, concerne la (apparente) «centralità del terreno economico», che Marx sembrerebbe considerare in ogni epoca determinante. Come se l’assunto-base della filosofia storico-materialistica (la «costante» funzione fondativa attribuita all’«attività produttiva» nei confronti dell’«organizzazione sociale» e della sfera politico-istituzionale) disperdesse la consapevolezza storica dell’essenziale diversità delle logiche riproduttive proprie delle singole «formazioni sociali». (…)
Hannah Arendt, la studiosa delle rivoluzioni e della «condizione umana», sostiene per esempio che, prendendo «a prestito» da Hegel «l’idea secondo cui ogni vecchia società contiene i semi delle successive», Marx affermi la «sempiterna continuità del progresso nella storia». Lo stesso Debord, per solito concorde senza riserve con la posizione marxiana, ritiene che lo sforzo di legittimare l’aspirazione rivoluzionaria della classe operaia evocando rivoluzioni già avvenute (a cominciare da quelle borghesi) «offuschi, dai tempi del Manifesto, il pensiero storico di Marx, facendogli sostenere un’immagine lineare dello sviluppo dei modi di produzione» (…).
UN’ALTRA CRITICA, connessa con questa, prende di mira le implicazioni del suo (presunto) economicismo. La stessa Arendt rivolge a Marx proprio questa critica. Convinta della superiorità dell’agire politico (l’unico a suo giudizio degno dell’essere umano), vede nell’analisi marxiana una manifestazione della patologia della modernità consistente nell’esaltazione della dimensione produttiva del lavoro umano e nella conseguente tragica illusione demiurgica che la prosperità materiale e lo sviluppo tecnico siano garanzie di progresso. (…)
Questa critica costituisce in una qualche misura un corollario integrativo della prima in quanto esplicita il presupposto del naturalismo imputato a Marx. Il quale paradossalmente assolutizzerebbe la realtà borghese perché «travolto», al pari di altri grandi interpreti della modernizzazione (Locke e Adam Smith), «dalla produttività senza precedenti del mondo occidentale». (…)
SI TRATTA DI ARGOMENTAZIONI a prima vista fondate. (…) È tuttavia inverosimile che proprio Marx abbia potuto «perdere di vista» quella specificità della borghesia e del capitalismo che, prima di chiunque altro, ha colto e analizzato. (…) Bisogna quindi cercare di capire come e perché la precisa percezione della cesura storica prodotta dalla dominanza del rapporto sociale capitalistico non impedisca a Marx di «assumere come fondamento di tutta la storia» – così l’Ideologia tedesca – l’ambito delle relazioni connesse alla «produzione materiale della vita immediata». Forse una spiegazione di questa apparente inconseguenza c’è, meno complicata di quanto si possa immaginare.
MARX PENSA che in ogni epoca storica lo svolgimento delle attività attraverso cui le società umane si riproducono generi effetti decisivi ai fini della costruzione (e della specifica configurazione) della forma sociale complessiva (…). Al tempo stesso, segnala che la borghesia è l’unica classe sociale che dell’attività produttiva fa (con crescente consapevolezza) il cuore della propria identità, della propria cultura, del proprio mondo, della propria azione storica. A ben guardare, non vi è contraddizione tra le due tesi, poiché la prima concerne un aspetto oggettivo (la logica generale dello sviluppo storico in relazione alla quale il momento economico marca quella che Lukács definisce una «priorità ontologica»); la seconda, aspetti soggettivi (gli stili di vita e la mentalità specifici della borghesia). Se la centralità del produrre è «oggettivamente» una costante dell’intero processo (un fattore «trans-storico» invariante), essa compie un salto di qualità nella modernità in quanto nella «formazione economico-sociale» borghese (capitalistica) l’insieme delle attività produttive diviene «anche soggettivamente» l’epicentro della vita individuale e collettiva, la principale fonte di senso e di valore dell’esistenza.
Quel che conta – se questa interpretazione è corretta – è cogliere l’intuizione sottesa a questa posizione. Con ogni probabilità Marx intende sostenere che la borghesia sia il primo soggetto sociale la cui cultura materiale e il cui mondo simbolico e valoriale coincidono con la logica oggettiva dello sviluppo storico. Mentre faraoni, imperatori e sovrani competevano per la potenza militare e per l’onore, dal XV secolo e con crescente coerenza ed efficacia mercanti e banchieri, maestri d’arte e capitani d’industria competono invece per il profitto e per l’espansione dei propri imperi economici, col vantaggio non trascurabile di consacrare ogni sforzo all’attività «in ultima istanza» determinante ai fini della dinamica sociale. Non è improbabile che tale sintonia tra fattori soggettivi e oggettivi abbia contribuito in misura rilevante alla particolare duttilità e resistenza del potere borghese: al suo dinamismo e alla sua capacità di adattamento.
RIMANE DA SPIEGARE perché mai Marx privilegi il terreno delle attività produttive, al punto di ritenerle in ogni epoca decisive ai fini della configurazione delle forme di vita sociali. (…) Che Marx ponga il «produrre» al centro della dinamica storica è innegabile. Che ciò consegua alla sopravvalutazione della dimensione economica sembrerebbe altrettanto evidente. (…) Nondimeno, l’accusa di economicismo in generale e le argomentazioni arendtiane in particolare trascurano un aspetto cruciale del problema e affrontano quest’ultimo sulla base di una petizione di principio.
Come abbiamo visto, nel riflettere sulla logica del processo storico Marx parla di «attività produttiva», non soltanto di economia. Parla di lavoro, non certo esclusivamente di merci e scambi mercantili. Ciò non deve sembrare casuale né banale, poiché questa scelta lessicale riflette un aspetto teorico di primaria importanza. Essa è indice del fatto che l’ipotesi storico-materialistica pone al centro – rovesciando, a guardar bene, la prospettiva economicistica – la complessità e la ricchezza specifiche (benché di norma soltanto potenziali) del produrre umano: precisamente il suo (virtuale) eccedere l’ambito ristretto (economico) dell’elaborazione materiale dei mezzi di sussistenza e degli strumenti utili a garantire il dominio dell’uomo sulla natura.
Per Marx – qui più che mai attento alla lezione hegeliana – la «produzione» è anche costruzione di conoscenze e abilità, di pensieri e strategie pratiche. È di certo anche «necessità» imposta dalla natura, dalla dinamica di riproduzione della vita; ma è altresì elaborazione di soggettività nei diversi ambiti in cui gli esseri umani hanno modo di esprimersi, agire e interagire. Quindi anche produzione di rapporti sociali. (…)
ASSISTIAMO COSÌ, come accade quando non si intende la cifra critica di un’argomentazione, a un interessante paradosso. L’estensione e valorizzazione della categoria di «produzione» e la sua collocazione al centro della dinamica storica sono, nella prospettiva di Marx, mosse critiche decisive. Volte a fare emergere, in generale, la brutale mortificazione imposta al lavoro umano nel corso dell’intero sviluppo storico e, in particolare, la reificazione del lavoro subordinato nella società moderna. Non comprendere il senso di questo gesto comporta una serie di conseguenze imbarazzanti.
Non solo implica che si fraintenda di sana pianta l’intenzione critica sottesa al paradigma storico-materialistico. Non soltanto comporta l’attribuzione a Marx – a dir poco implausibile – di quegli stessi errori (il naturalismo, il riduzionismo, il determinismo economicistico) che Marx per primo e con ineguagliata potenza critica ha individuato al fondamento della tradizione economico-politica. Ma soprattutto impedisce di lavorare produttivamente nel solco della sua ricerca e di metterne a valore la potenzialità critica ancora inespressa.

La Stampa 4.5.18
“Troppe strutture inutili e abuso di psicofarmaci
La 180 resta inapplicata”
Lo psichiatra Franco Rotelli, allievo del padre della legge “Per la salute mentale si spende meno della soglia minima”
intervista di Lidia Catalano


«Chi si prende troppo sul serio alla fine impazzisce». Sulla follia Franco Rotelli ha le idee chiare. Collaboratore ed erede di Basaglia, ha speso buona parte dei suoi 76 anni a battersi prima per l’approvazione e poi per la «piena applicazione della legge 180».
Dottor Rotelli, la missione non è ancora compiuta?
«No, in parte non lo è. I disturbi psichici, a partire dalla depressione, riguardano una fascia sempre più ampia di cittadini, ma la risposta dell’Italia oggi è chiaramente inadeguata».
Partiamo da quello che è stato fatto.
«Essere riusciti a chiudere i manicomi, sebbene ci siano voluti vent’anni, è stata una grande conquista. Erano luoghi di contenzione e violenza, senza alcuna finalità terapeutica. Una vergogna che andava cancellata».
Cosa resta da fare?
«Non basta abbattere i muri e aprire le porte per considerare archiviato il problema. Dopo aver negato l’istituzione psichiatrica, per usare le parole di Basaglia, bisognava inventarne una nuova, capace di guardare ai bisogni delle persone e di mettere in campo risorse e servizi adeguati. A Trieste è stato fatto, con i primi centri di salute mentale distribuiti sul territorio attivi già dal 1975, ben prima della legge 180. Altrove purtroppo si è fatto molto poco».
I critici dicono che servizi di questo tipo sono troppo costosi.
«Le Regioni spendono per la salute mentale una cifra ben inferiore alla soglia minima del 5% che loro stesse hanno pattuito. Non solo, i pochi fondi disponibili vengono spesi per tenere in piedi strutture residenziali costosissime che si limitano a fare da contenitori di individui senza attivare reali percorsi di inclusione, emancipazione e cura».
Lo scorso anno ha partecipato alla stesura di un disegno di legge per l’applicazione dei principi della 180. Che cosa prevede?
«Chiediamo centri di salute mentale davvero aperti 24 ore e capaci di offrire risposte immediate, risorse finanziare adeguate, e maggiori tutele per chi viene sottoposto a Tso (trattamento sanitario obbligatorio): una pratica di cui non si deve abusare e soprattutto va eseguita in sicurezza».
Ancora oggi le cronache raccontano di persone morte per un Tso o legate a un letto di ospedale.
«È vero, talvolta nei reparti di diagnosi e cura si fa ancora ricorso alla contenzione materiale o a quella chimica, attraverso l’abuso di farmaci. Molti servizi psichiatrici hanno le sbarre alle finestre e spesso l’unica risposta terapeutica è quella farmacologica. Finché di fronte al malato continuiamo a chiederci “dove lo metto” e non “che percorso posso fare con lui” non potremo che assistere a situazioni di questo tipo».
Siamo ancora fermi a 40 anni fa?
«No, ricordiamoci che negli Anni 70 era ancora in vigore una legge del 1904 che prevedeva il ricovero coatto e definitivo. Il medico scriveva: “Il soggetto è pericoloso per sé e per gli altri e di pubblico scandalo”. Era una condanna senza appello, l’internato perdeva tutto, a partire dalla propria liberà. È evidente che da allora sono stati fatti molti passi avanti».
I matti oggi fanno ancora paura?
«Quando abbiamo liberato 100 mila persone rinchiuse in manicomio la gente era convinta che ci sarebbero stati altrettanti delitti efferati. Non mi risulta che sia successo. Ma lo stigma nei confronti del malato mentale esiste ancora, è emanazione della paura. Per superarlo l’unica strada possibile è l’inclusione».

Corriere 4.5.18
In Africa
Quelle vite fiorite nella città delle spine
Dadaab, al confine tra Kenya e Somalia,
È il campo profughi più grande del mondo: impossibile partire, una tragedia restare
di Francesco Battistini


Le sole cose che aveva in testa Guled erano il Manchester e una pettinatura alla Balotelli. Quand’era stato rapito ragazzino in Somalia ed era diventato soldato islamico per gli shabaab, niente calcio e niente Balo. E fu per questo che la Città delle Spine, appena ci entrò nel 2010, gli sembrò una città della gioia: la felicità di non avere nulla, ma almeno una baracca di paglia con la latta bianca e azzurra, l’insegna «Man United» sull’ingresso e uno schermo per affollarsi con gli altri a vedere le partite. Non era vita, ma gli bastava. Poi arrivarono una moglie, tre figli, nessun futuro. E quella che qui tutti chiamano «buufis», la depressione del rifugiato, iniziò a fargli venire un’altra fissa, quella che tutti hanno: il «tahrib», il viaggio della speranza, la migrazione su su lungo l’Africa e fino ai barconi per l’Italia. Addio calcio, Manchester, Balotelli. Cose che non gl’interessano più.
A 25 anni l’ex bambino soldato è partito, è tornato, s’è rassegnato a sapere che il suo destino sarà per sempre a Dadaab, nel campo profughi più grande del mondo. Perché cinque anni fa Kenya e Somalia avevano deciso di smantellarlo, l’Unhcr ci provò e alla fine si arrese. Pochi giorni fa, Nairobi ha confermato la decisione: impossibile sbaraccare, Dadaab è ormai un non-luogo di scuole, ospedali, 8mila tonnellate di cibo al mese. Come si fa a chiudere queste vite fiorite nelle spine?
Vite vuote. Il facchino Nisho che fantastica su infinite ricchezze. Kheyro che studia per fuggire. Il professor Occhi Bianchi che trasmette via radio la vita del campo. Le due ragazze famose per aver tentato nove volte di sbarcare a Lampedusa. A Dadaab si nasce e si muore. Da tre generazioni. «Ho trascorso otto anni a fare ricerche su chi ci abita», racconta Ben Rawlence, l’autore del best seller La città delle spine, che l’8 e il 10 maggio sarà alla Triennale di Milano e al Salone del Libro di Torino per presentare l’edizione italiana curata da Francesco Brioschi Editore: «Chiamarlo campo profughi, è fuorviante. Ormai è un’area urbana abitata da mezzo milione di persone, grande come Zurigo, anche se non appare su nessuna mappa ufficiale». Una città che veniva visitata da Angelina Jolie e da Bono, gli anni in cui andava di moda, e «adesso che il numero dei rifugiati è al suo massimo storico, viene ignorata dai Paesi ricchi».
Pochissimi possono lasciare Dadaab con lo status di profugo: agli altri, non resta che il tahrib o un impossibile ritorno in Somalia, perché il governo kenyano sta facendo di tutto per smantellare le baracche. Chi non c’è stato, dice Rawlence, non può capire: rifugiati che vogliono stare alla larga dai somali islamisti e sono grandi sostenitori dell’America, eppure vengono rastrellati e derubati dai kenyoti; gente spaventata dal terrorismo più di noi, ma spinta dal nostro disinteresse ad annegare in mare pur di non immolarsi come kamikaze; milioni di persone senza futuro, che attraverso l’Onu ci costano miliardi e che preferiscono il nulla del campo al nulla che c’è fuori… «Tutti qui hanno una storia che è già stata raccontata così tante volte da scorrere liscia come una vecchia maniglia di legno impugnata da troppe mani. Nessuno vuole ammettere che Dadaab non è più un luogo temporaneo, ma una struttura permanente: una prigione non solo fisica, ma anche ideale». Rawlence cita Steinbeck: qui avviene un crimine che non è sufficiente denunciare, un fallimento che annulla ogni successo.

il manifesto 4.5.18
Renzi comanda, il Pd obbedisce, urne più vicine
di Norma Rangeri


Un partito con le ossa rotte, messo di fronte «a una sconfitta storica», attraversato da «odio e attacchi feroci», come ha detto ieri il reggente Martina introducendo i lavori della direzione, si ricompatta malamente dietro un voto che certifica la linea di Renzi. All’unanimità. Il perdente di successo dimostra di portare il Pd dove vuole. Probabilmente alla stazione finale, al fallimento della ditta, vista la lunga teoria di sconfitte incassate in questa legislatura. Prima o poi questo lutto andrà elaborato, ma niente del genere è neppure iniziato alla direzione del Pd. Dove purtroppo si è replicato il solito copione: Renzi comanda , gli altri obbediscono.
L’ex segretario ha raggiunto i suoi due obiettivi. Ha spostato l’ordine del giorno facendo saltare la possibile trattativa di governo tra Pd e 5 Stelle che lo avrebbe visto ai margini. E, secondo obiettivo, ora può predisporsi a gestire la nuova fase che prelude alle prossime elezioni. Se e con quali modifiche alla leggere elettorale lo sapremo presto. Perché un nuovo governo, semmai vedrà la luce, avrà vita assai breve e l’aperta lotta tra le correnti del Pd semplicemente si trasferirà sulle future liste elettorali.
L’ex segretario ha archiviato brutalmente ogni ipotesi di dialogo con i 5Stelle. La tanto osteggiata discussione con i pentastellati, attorno a un tavolo di programma, certo non lo avrebbe visto come protagonista, relegandolo invece nel ruolo di sconfitto. E avrebbe allontanato le elezioni.
Renzi ha chiuso la porta in faccia all’ultimo tentativo messo in campo da Mattarella, e aperto una fase politico-istituzionale avvolta nelle nebbie. Dalle quali si riaffacciano animali di palude come «i responsabili» di Berlusconi.
Il capo dello stato chiederà ai partiti e ai gruppi parlamentari per l’ultima volta se hanno una maggioranza, chiederà di mettere le carte in tavola, tentando, non si sa con quale esito, di porre fine a uno stallo per condurre il paese fuori dalla palude.
Ma qualunque coniglio uscirà dal cappello di Mattarella, non sarà l’accordo, fin qui sollecitato dal Colle, tra le forze politiche uscite dalle urne del 4 marzo.

Corriere 4.5.18
Le angosce dem, un partito lacerato sulla conta
di Pierluigi Battista


Un partito assediato, impaurito, avvitato su se stesso. Negli anni passati telecamere e riflettori sembravano proiettare le luci sulla ribalta del Nazareno, cuore e palcoscenico della politica italiana dell’epoca renziana. Oggi, qui all’esterno del Nazareno, la ressa di telecamere, taccuini, giornalisti, curiosi che spintonano, gente della base in fermento, tutto questo viene sentito come una minaccia dai dirigenti che entrano nella sede del Pd alla spicciolata, nervosi, il volto contratto.
Si avverte l’angoscia di chi scorge in ogni passante un possibile contestatore, il seguace di una corrente avversa, un militante inferocito. Con Gianni Cuperlo che viene apertamente affrontato: come se fosse davvero Cuperlo, il responsabile primo di una disfatta storica.
Entrano, i membri della direzione del Pd, e sembra che tra di loro si sia spezzato l’ultimo filo che li unisce sentimentalmente, con l’emozione primaria di un popolo che sente di appartenere a una stessa comunità. Oggi, davanti al Nazareno sotto assedio, si guardano in cagnesco. E non sapendo più su cosa litigare e lacerarsi, litigano e si lacerano sulla conta, sui calcoli, sui numeri da incolonnare. Su quali contenuti? Mistero. Per quale linea politica? Mistero. Oramai la sortita televisiva di Matteo Renzi, segretario dimissionario ma potentissimo capofazione, ha reso obsoleto l’ordine del giorno in cui si contemplava la sola ipotesi di aprire un canale di dialogo con il Movimento 5 Stelle. Non era proprio il massimo per un partito che ha vissuto una cruenta disfatta, ridotto ai minimi termini come del resto tutte o quasi tutte le sinistre in Europa (e non solo in Europa). Ma almeno una discussione così poteva essere lo scontro tra visioni diverse, culture diverse, sensibilità diverse, progetti diversi. Prosciugata invece ogni fonte di discussione, con una base militante sempre più esigua e sempre più frastornata, delusa, bastonata, il partito si divide sulla «conta», con una spaccatura insanabile, e soltanto superficialmente mitigata da tregue vere o presunte, su questioni che sono sempre più interne, sempre più appannaggio di un partito schiacciato nell’aria viziata della sua angusta interiorità, senza finestre da cui far entrare aria nuova, come se la presenza tumultuosa che si respira all’esterno del Nazareno fosse foriera di cose brutte, di problemi ulteriori, di amarezze senza fine. E allora ci si divide, ma su cosa? E allora, per usare l’espressione adoperata dal reggente Martina, ci si dilania in «odi» che non solo sfiorano, ma che diventano «ferocia» pura, ma perché? Riuniti là dentro, ma spaccati da un odio feroce, ma su cosa discutono i rappresentanti della Direzione del Partito democratico che nel 2014 aveva raggiunto l’impresa del 40 per cento dei voti e che solo quattro anni dopo, saltellando di sconfitta in sconfitta, si è consumato fino alla desolante cifra sotto il 20 per cento, meno della metà? Discute, si lacera, si dilania sulla «conta». Con gli interrogativi supremi che diventano: se contarsi, come contarsi, quanto contarsi, dove contarsi. E tutto per vedere quanto conta il segretario reggente rispetto al segretario dimissionario.
E tutta questa ressa di telecamere e taccuini, e urla e contestazioni, che circonda e avvolge il vertice del Nazareno sembra concentrata qui per una discussione che non avviene, per un progetto lasciato per aria, per una divisione vera che non si avvera. Ma deve appassionarsi sulla «conta», come se il mondo là fuori non esistesse più, come se le periferie da cui il Pd è stato brutalmente accompagnato fuori si contorcessero dalla passione per sapere chi conta che cosa. Un’atmosfera di irrealtà, di sospensione di ogni legame con le cose di questo mondo, stagna su un partito asserragliato lì dentro, diviso dal mondo reale da un cordone di polizia che meritoriamente mantiene l’ordine. Non si discute del governo, con chi e per fare qualcosa, figurarsi se si discute di un’identità scossa e in crisi, allora ci si accapiglia su statuti, commi, regolamenti, modalità di conteggio, come se di una partita di calcio ci si appassionasse non del gioco ma delle regole che dovrebbero consentirne il decente svolgimento. Giusta l’attenzione alle regole, ma il gioco? Giusto parlare dello statuto del Pd, ma il Pd che deve diventare, che vuole fare, con chi, con quali obiettivi.
E invece, inutile girarci attorno, aleggia addirittura il fantasma di una scissione, la sensazione quasi fisica, che i militanti del Pd che stazionano fuori del Nazareno avvertono con angosciata chiarezza, di due partiti in uno, in una convivenza sempre più precaria e burrascosa, come se la sostanza dei rapporti umani, anche quella, fosse ormai intaccata e nessuno si fida più dell’altro, tutti sentono l’altro come un peso e un ostacolo. Che poi alla fine arriva la tregua, che è solo il rimandare la resa dei conti. Quelli veri, non quelli della conta.

Repubblica 4.5.18
La direzione del Pd
Il partito immobile
di Piero Ignazi


Un’altra occasione persa per fare chiarezza fino in fondo. Dopo il fuoco di sbarramento innalzato dai renziani, arrivati in direzione in falange compatta a sostenere il segretario dimissionario- effettivo, il Pd ha evitato ancora una volta di affrontare l’unico problema che meriti un incontro tra dirigenti politici: perché il Pd perde voti continuamente? E quali sono le responsabilità della sua leadership in senso largo, cioè della classe dirigente che ha condiviso tutte le scelte, suicide, adottate fin qui? Un po’ di critiche serrate finalmente si sono sentite in direzione, ma è mancato l’affondo. Nessuno ha avuto il coraggio di indicare punto per punto, e anche persona per persona, le responsabilità dello stato comatoso in cui si trova il partito, e di metterle nero su bianco. Ancora una volta troppo garbo e troppo fair play da parte dei “non-renziani”; troppo timore di spaccature e divisioni; troppa nostalgia per un modo di fare politica che la maggioranza non ha mai conosciuto né praticato.
Ancora una volta ha funzionato la trappola del richiamo all’unità, mentre non è di questo che ha bisogno un partito in crisi. Di fronte all’emorragia di voti, e ancor peggio all’irrilevanza politica sancita dall’inerzia post- 4 marzo, ritmata sul refrain ossessivo del “ siamo all’opposizione”, come fosse un gruppuscolo gauchista sessantottardo in attesa della rivoluzione, un partito deve voltare pagina. A maggior ragione se questo partito ha governato praticamente da solo per quasi tutta la legislatura, compresi i mille giorni renziani. Si può comprendere l’umano riflesso di difendere il proprio operato. Ma se i cittadini non ne riconoscono la validità, una ragione dovrà pur esserci. Se la risposta è che gli elettori non hanno capito, allora siamo in pieno delirio brechtiano, del tipo “cambiamo il popolo”.
La direzione del Pd avrebbe dovuto mettere in chiaro che una stagione è finita; che la narrazione renziana che tanto e tanti illuse, si è persa per strada attorcigliandosi intorno a frasi fatte, e finendo per consumarsi in una logorrea solipsistica.
Il Partito democratico è rimasto immobile, ibernato per due mesi ripetendo che toccava ai “vincitori” governare quando chiunque vedeva che non c’erano soluzioni possibili alle viste, men che meno quello di un accordo con il M5S. Ma al tavolo con i grillini doveva andare, sia per correttezza istituzionale, sia per uscire dall’inazione: almeno il Pd avrebbe potuto mettere alle corde gli interlocutori smontando le loro promesse impossibili. Invece nulla. Di questo nulla avrebbe dovuto farsi carico la direzione del Pd, chiedendosi come mai un’intervista del segretario dimissionario-effettivo ha mandato all’aria l’incontro con i Cinque Stelle. Invece ha preferito la solita, falsa unanimità. Falsa perché il Pd continua a essere una corte fiorentina, e il genius loci imporrà ancora strappi come quello dell’intervista di Renzi.
Eppure sarebbe ora che dalle parti del Nazareno ci si rendesse conto che il sistema partitico italiano è cambiato e che non c’è più un centro-destra contro un centro- sinistra: c’è un sempiterno, aggressivo e pericoloso centro-destra a cui si contrappone un movimento indeterminato come il M5S, ondeggiante tra l’ecologismo libertario attratto dall’innovazione tecnologica della new e green economy, e il ribellismo antipolitico, rancoroso e proto- assistenzialista; mentre il Pd è diventato una forza residuale, impossibilitato — e per molto tempo — ad esercitare egemonia sullo schieramento contrapposto alla destra. È per questo motivo che il Pd avrebbe dovuto definire subito, con un vero rinnovamento interno, lasciando spazio alle nuove voci critiche e riflessive che si sono affacciate in questi giorni, una strategia per riconquistare centralità, in un confronto- scontro con chi gli ha sottratto gli elettori, e cioè con il M5S.

il manifesto 4.5.18
Operatrice trasferita: «Non ti vogliamo perché sei nera»
Razzismo. La donna, di origine senegalese, spostata in un’altra struttura dopo le proteste dei pazienti di una casa per anziani di Senigallia
di Mario Di Vito


SENIGALLIA «Ecco un’altra nera». Fatima Sy ha quarant’anni, vive a Senigallia da quindici, e i soldi del suo stipendio da operatrice sociale in una casa di riposo per lo più li invia ai suoi due figli che vivono in Senegal. Una vita non facile, la sua, straniera in terra straniera e non molto benvoluta proprio a causa del colore della sua pelle: non solo nelle strade e nei locali, ma anche sul posto di lavoro. Gli anziani ospiti dell’Opera Pia Mastai Ferretti di via Cavallotti, a Senigallia, le hanno mandato a dire che lì proprio non la volevano: «Non ti vogliamo, non ci piaci perché sei nera. Vattene». Lamentele indirizzate non direttamente a lei, ma ai vertici della struttura, che, dopo essersi confrontati con la cooperativa Progetto Solidarietà, per cui Fatima lavora, hanno deciso di mandare via l’operatrice. Sarà destinata a un’altra struttura, con altri ospiti, si spera, meno razzisti di quelli dell’Opera Pia, dove la donna ha operato in prova per pochi giorni.
Stava lavorando bene, a detta di tutti, e il suo modo di porsi con gli anziani era particolarmente apprezzato, tra l’altro. Complimenti che però, a conti fatti, sono inutili visto che qualcuno, tra gli ospiti («Due o tre persone», confermano dalla struttura), non gradiva la sua presenza e così a Fatima non è stato stipulato il contratto in quella casa di riposo, ma dovrà ricominciare, ancora in prova, altrove.
Il presidente dell’opera pia, Mario Vichi, prova a mischiare le carte, a spiegare l’inspiegabile, con il tono un po’ scocciato di chi pensa di trovarsi davanti a una tempesta dentro un bicchiere d’acqua. «La signora – ha detto riferendosi a Fatima – forse è già un po’ polemica di suo… Non possiamo chiudere la bocca a un anziano, magari con un po’ di demenza, che paga 1600-1700 euro per stare da noi». In pratica, se uno paga, ha diritto ad essere razzista. E ancora, prosegue Vichi, le responsabilità vengono gettate addosso alla cooperativa Progetto Solidarietà: «Hanno preso l’iniziativa di trasferirla senza dirmi niente, forse il loro è stato un eccesso di prudenza».
Il trasferimento di Fatima, ufficialmente, è stato deciso per tutelare la donna, per «inserirla in una realtà meno ostile», ma il sapore amaro di una storia di ordinaria discriminazione allunga la lista dell’intolleranza in salsa marchigiana. Gli ultimi anni da queste parti sono stati allucinanti: dall’omicidio del nigeriano Emmanuel Chidi Namdi a Fermo nel luglio del 2017 alla sparatoria di Luca Traini a Macerata lo scorso febbraio, passando per il rogo di un palazzo che avrebbe dovuto ospitare migranti, in provincia di Ascoli, a capodanno e alla fossa comuna di migranti scoperta sotto all’Hotel House, a Porto Recanati, meno di un mese fa.
Adesso, a Senigallia, l’ennesima dimostrazione che anche nelle tradizionalmente tranquille Marche, sotto la coltre di perbenismo, cova un odio profondissimo che esce fuori a fiammate e descrive una realtà ben diversa da quella dipinta dai depliant turistici. Per ora, praticamente nessuno ha preso le difese della donna, e sui social network, più che altro, si leggono commenti di scherno o negazioni della realtà, dubbi sulla veridicità della storia, insulti gratuiti.
Le frasi rivolte a Fatima, che ha raccontato la sua storia al Corriere Adriatico, sarebbero per molti ‘scherzose’, una presa in giro bonaria, niente di più. È così che il razzismo diventa un gioco di parole, un dettaglio di cui si può pure ridere. Peccato che le conseguenze di questo scherzo siano reali e per nulla piacevoli: una donna di quarant’anni non può lavorare in una casa di riposo. Il motivo? È nera.

Il Fatto 4.5.18
Firenze, case popolari. Nardella: “Precedenza ai cittadini toscani”
di Giacomo Salvini


Tuscany first. Al renzianissimo sindaco di Firenze Dario Nardella non bastava imitare il machismo in salsa trumpiana di Matteo Salvini che a furia di “Italy first” ha preso voti in lungo e in largo in tutto il Paese. No, Nardella è oltre: sulle case popolari di Firenze la precedenza non va data agli italiani ma proprio ai toscani. “Il nostro obiettivo – ha detto il sindaco mercoledì – è aiutare chi è in graduatoria da troppo tempo e quelle famiglie che hanno sempre rispettato le regole e che vivono da molti anni nella nostra città, per riequilibrare una concentrazione eccessiva di famiglie straniere”. In sostanza, Nardella propone di premiare con più punti nelle graduatorie chi vive da più anni in Toscana. Putiferio: il primo cittadino è stato smentito anche dal suo assessore alla Casa Vincenzo Ceccarelli (“attenti a discriminare”) e si è preso del “demagogo” dal Movimento 5 Stelle. Grida di giubilo da tutto il centrodestra, compresa Lega e Fratelli d’Italia (“adesso gli diamo la tessera”). Chissà perché.

Il Fatto 4.5.18
Un crac tira l’altro: nuova indagine per mamma Renzi Tutto in casa - La Procura di Cuneo ha spedito un avviso di garanzia per “bancarotta fraudolenta” a Laura Bovoli: strano giro di soldi  

di Davide Vecchi

Un “sistema di fallimenti dolosi”. La carriera imprenditoriale della famiglia Renzi rischia di trasformarsi nella sintesi vergata dal procuratore aggiunto di Firenze, Luca Turco, insieme al pubblico ministero Christine von Borries, sugli atti di un fascicolo relativo alla cooperativa di servizi Delivery Service, ultima delle tante aziende create dai genitori dell’ex premier e chiusa nel 2015. Un fascicolo che vede coinvolti nel fallimento sia Laura Bovoli sia Tiziano Renzi, madre e padre dell’oggi segretario del Pd e senatore Matteo. I due sono indagati insieme all’amico imprenditore Luigi Dagostino sempre dagli stessi pm fiorentini anche in un secondo fascicolo, questa volta per false fatture emesse dalla Party srl, altra azienda della famiglia di Rignano sull’Arno. E se il padre era stato indagato e poi prosciolto dalla Procura di Genova per la bancarotta della Chil Post – una delle prime creature imprenditoriali della famiglia – la signora ha appena ricevuto un nuovo avviso di garanzia per bancarotta fraudolenta documentale dalla Procura di Cuneo, come riportato ieri dal quotidiano La Verità.  Delivery, Party, Chil Post. Tutte le aziende e le indagini svolte da tre diverse Procure negli ultimi anni riportano al cuore delle attività familiari: alla società Eventi 6, oggi presieduta da Bovoli e posseduta insieme alle due figlie Matilde e Benedetta Renzi. Questa ditta è stata sempre messa in salvo e tutelata dalla famiglia di Rignano. Qui venne trasferito il “dipendente” Matteo Renzi, unico assunto a tempo indeterminato e nominato dirigente poche settimane prima che diventasse presidente della Provincia di Firenze. E qui è stato accantonato e graziato dai vari fallimenti il trattamento di fine rapporto che poi nel 2014, appena nominato premier, il beneficiario ha incassato: circa 48 mila euro lordi. Ma non accantonati dalle aziende: tutti contributi figurativi, dello Stato quindi, versati prima dalla Provincia e poi dal Comune di Firenze negli anni in cui ha guidato questi enti. Un tesoretto messo miracolosamente al riparo, considerati i numerosi fallimenti registrati nei dieci anni dalle aziende di famiglia.  La Eventi 6 è sempre stata appena sfiorata dalle indagini. Fino a oggi. I magistrati di Cuneo guidati da Francesca Nanni hanno individuato una serie di operazioni effettuate tra la società e la Direkta srl, un’azienda cuneese fallita nel 2014 e guidata da Mirko Provenzano. Gli inquirenti hanno scoperto che in particolare negli anni tra il 2011 e il 2012 c’è stato un fitto rapporto tra le due aziende. Fitto quanto poco chiaro: la Direkta pagava la Eventi 6 con assegni coperti da versamenti che la Eventi 6 prima faceva alla Direkta. Quando necessario, in pratica, da Rignano partivano fondi in direzione Cuneo che poi tornavano a Rignano.  I magistrati piemontesi hanno trasmesso degli stralci di indagine sia ai colleghi fiorentini – che stanno a loro volta compiendo accertamenti sulla Eventi 6 – sia ai pm di Genova che avevano indagato papà Tiziano: nelle carte liguri, infatti, era già spuntata la società Direkta e Provenzano. Ma soprattutto era già emerso un sistema di pagamenti molto simile.  Il fascicolo era relativo alla Chil Post che Renzi senior aveva affidato nel 2010 a Mariano Massone e da quest’ultimo portata al fallimento. Secondo l’ipotesi investigativa si trattava di una cessione esclusivamente mirata ad “allontanare da Rignano i guai della società” considerato il “crescente impegno politico” del figlio Matteo. Nel prospetto depositato per la richiesta di concordato i debitori con maggiore esposizione con la Chil erano cinque aziende: Directa, One.Post Nordovest, Direkta, Kopy 3 e M.P di Provenzano. Il pm ligure Marco Airoldi ricostruisce il flusso di denaro e scopre che Provenzano era una vecchia conoscenza di Massone e che le cifre e i versamenti dichiarati non tornano. Scopre, anzi, che Chil pur esigendo dei crediti aveva compiuto dei versamenti a Direkta. Il pm annota: “Dalle indicazioni fornite dai due curatori (delle due società, ndr) emerge una discrasia sull’ammontare complessivo delle fatture” ma conclude che “tali discrasie appaiono frutto di meri errori di registrazione”. Così il 7 ottobre 2015 il sostituto Airoldi chiede l’archiviazione per Tiziano Renzi dal reato di bancarotta per distrazione.  Ora l’inchiesta svolta dai magistrati di Cuneo fornisce dei pezzi all’epoca mancanti sui rapporti tra le società di Provenzano e quelle dei Renzi.

Repubblica 4.5.18
Legge speciale
Netanyahu ora potrà dichiarare guerra aggirando la Knesset
di Vincenzo Nigro


Lunedì sera, dopo un forte pressing di Bibi Netanyahu, il Parlamento israeliano ha votato una nuova legge sui “poteri di guerra”. D’ora in poi in “circostanze estreme” basterà la decisione del premier e del ministro della Difesa per mandare il Paese in guerra. In condizioni normali a decidere sarà sempre il “gabinetto di sicurezza”, che secondo la legge è l’organo costituzionale che ha il potere di impegnare il paese in operazioni belliche. Lunedì era il giorno in cui Netanyahu ha tenuto la presentazione in cui ha rivelato i materiali di intelligence raccolti dal Mossad sui piani nucleari iraniani. Come scrive Aviad Kleinberg su Yedioth Ahronoth, «questa decisione, che naturalemnte è stata relegata dai media ai margini dello show sull’Iran, farà sì che le scelte del primo ministro e del minsitro della Difesa potranno essere valutate solo in retrospettiva».
Come dire che potrebbe essere possibile analizzare le ragioni, la correttezza di una scelta solo a guerra terminata. Per molti commentatori, anche quelli vicini alle posizioni del Likud, la scelta di Netanyahu è dovuta alla crescente insofferenza per il processo parlamentare. Un altro giornale centrista, Maariv, contesta il modo in cui potranno essere definite le “circostanze estreme” che permetteranno di bypassare anche il gabinetto di crisi: «E se, come spesso è accaduto, il premier avrà anche l’incarico di ministro della Difesa potrebbe consultarsi soltanto con se stesso?». La delicatezza della questione è rafforzata dal fatto che Israele sta già vivendo uno scontro militare con l’Iran in Siria, con i pasdaran iraniani che provano a trasferire armi sempre più potenti nel paese di Bashar el Assad e il governo di Israele che lancia bombardamenti per distruggere quelle armi. La tensione salirà nei prossimi giorni, quando il presidente Trump potrebbe abbandonare l’accordo con l’Iran sul nucleare.
Ieri il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif ha confermato che se gli Usa abbandoneranno l’accordo, l’Iran non si sentirà più obbligato a rispettarlo.

Corriere 4.5.18
La vedova di Liu Xiaobo «Mi resta solo una libertà: morire qui»
di Guido Santevecchi


PECHINO È stata vista per l’ultima volta in immagini selezionate dalla censura cinese per dimostrare l’umanità del sistema, che permetteva a Liu Xia, vedova del dissidente e Nobel per la Pace Liu Xiaobo, di partecipare al funerale del marito morto di cancro in detenzione nel luglio del 2017. Una brutta messa in scena. Liu Xia, 57 anni, poetessa, è chiusa agli arresti domiciliari senza alcuna accusa dal 2010, l’anno in cui il marito fu condannato a 11 anni di reclusione per sovversione. E ora è pronta a morire anche lei, a lasciarsi morire perché è l’ultima cosa, l’unica scelta che può fare liberamente.
«Non ho niente più da temere. Se non posso partire, morirò a casa mia. Xiaobo è già andato e non c’è più niente al mondo per me. È più facile morire che vivere. Usare la morte come sfida è la via più facile». Queste parole disperate sono state pronunciate da Liu Xia in una telefonata con un amico rifugiato in Germania, lo scrittore Liao Yiwu, che le ha registrate e diffuse sul web.
Una conversazione di 16 minuti interrotta dal pianto di Liu Xia, dal tentativo di rassicurarla dell’amico, che le ricorda l’iniziativa umanitaria del governo tedesco per farle ottenere un visto per Berlino. «Scrivi, scrivi ancora la tua richiesta... il governo cinese dice che godi di tutte le garanzie della legge...». «Non sono un’idiota, sono così maledettamente arrabbiata che sono pronta a morire qui...», risponde la poetessa. Poi ricomincia a piangere, non riesce più a parlare per alcuni minuti. L’amico a questo punto le fa sentire una melodia Yiddish, «Dona Dona», composta durante la Seconda guerra mondiale, durante la persecuzione degli ebrei. Liu Xia alla fine ritrova la forza per parlare: «Dopo che l’ambasciatore tedesco aveva telefonato, avevo cominciato a preparare i bagagli, che cosa volete che faccia di più?».
Secondo la ricostruzione, il governo di Berlino dopo la morte di Liu Xiaobo ha cominciato a negoziare con Pechino per ottenere la liberazione di Liu Xia e il suo trasferimento in Germania. Le autorità cinesi l’hanno illusa, prima le hanno detto di aspettare fino al Congresso del Partito, lo scorso autunno (periodo «sensibile»), poi fino alla sessione parlamentare di marzo (ancora giorni «critici»). Invece niente. Sempre chiusa in casa a Pechino e sorvegliata dalla sicurezza statale. Per questo ora gli amici hanno diffuso la telefonata del 30 aprile, per tentare un’ultima pressione.
Ma intanto le condizioni della signora si sono aggravate. A dicembre aveva mandato i suoi ultimi versi a Herta Mueller, Nobel per la Letteratura: «Sto impazzendo. Troppo solitaria/ Non ho nemmeno il diritto di parlare/ Di parlare ad alta voce/ Vivo come una pianta/ Giaccio come un cadavere».

Il Fatto 4.5.18
Il “signor X” per non lasciare ai Br i 10 miliardi di Paolo VI
di Miguel Gotor


Oggi sappiamo che Toni Chichiarelli, un falsario di quadri di Giorgio de Chirico in rapporti con la Banda della Magliana, con i Servizi segreti italiani e i carabinieri del Nucleo per la tutela dei beni culturali, scrisse il falso comunicato del Lago della Duchessa. Oggi sappiamo anche che il magistrato Claudio Vitalone, stretto sodale del presidente del Consiglio Giulio Andreotti, ebbe l’idea di scrivere un comunicato apocrifo, a suo dire sotto l’egida e il controllo dell’autorità giudiziaria. La proposta di Vitalone però fu ufficialmente rifiutata, anche se, in tutta evidenza, orecchie sensibili e attente decisero di realizzarla lo stesso utilizzando una figura non direttamente riconducibile alle istituzioni come Chichiarelli. Nel 2006, anche il consulente inviato nei giorni del rapimento dal governo statunitense Steve Pieczenick ha confermato che l’antiterrorismo italiano escogitò il falso comunicato. Non abbiamo la prova di un rapporto di conoscenza diretto tra Andreotti o, più verosimilmente, tra gli esponenti romani della sua corrente e Chichiarelli, anche se una serie di evidenze lo rendono altamente probabile.
Anzitutto Franco Evangelisti, uomo di fiducia di Andreotti e in quei giorni suo sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, era uno dei principali collezionisti di De Chirico in Italia, possedendo ben 25 quadri dell’artista. Egli perciò era inevitabilmente interessato a conoscere il mercato del falso del suo autore preferito per avere la certezza dell’autenticità e, dunque, dell’effettivo valore economico del proprio “bene rifugio”. Inoltre, nel corso del processo per l’omicidio di Mino Pecorelli, è stata riesumata una vecchia inchiesta giudiziaria riguardante il mondo delle gallerie d’arte romane degli anni Settanta e alcuni personaggi collegati all’entourage andreottiano, che ha consentito di chiarire come tra gli strumenti di finanziamento del sottobosco politico capitolino vi fosse l’abitudine di impegnare presso il Banco di Santo Spirito copie false di quadri di autori prestigiosi (e De Chirico andava per la maggiore) a garanzie di prestiti in denaro frusciante. In secondo luogo, sempre grazie al processo Pecorelli, è stato appurato che il magistrato Vitalone intratteneva rapporti, privi di un profilo penale, con alcuni esponenti della Banda della Magliana frequentati anche da Chichiarelli. In terzo luogo sappiamo che Andreotti ha conservato nel suo archivio una specifica cartella dedicata alle gesta dell’autore del falso comunicato del Lago della Duchessa che recava un rimando autografo di questo tenore: “Alle carte Moro-Chichiarelli”, come se esistesse un altro fascicolo con ulteriori approfondimenti.
Infine è stato lo stesso Andreotti nel 2003 a stabilire un diretto contatto tra questa figura di falsario, il comunicato apocrifo del 18 aprile 1978 e la trattativa in corso del Vaticano per ottenere la liberazione di Moro mediante il pagamento di un riscatto in denaro di dieci miliardi di dollari, raccolti da Paolo VI e conservati a Castel Gandolfo. Un negoziato segreto portato avanti nelle vesti di emissario pontificio dall’ispettore generale dei cappellani carcerari, monsignor Cesare Curioni, che in quei giorni lavorava al ministero della Giustizia, e dal suo collaboratore, monsignor Fabio Fabbri. In un’intervista del settembre del 2003, Andreotti ha affermato che un terrorista detenuto, “un certo signor X”, aveva fatto sapere che “avrebbe potuto fare da intermediario per il pagamento della somma” e che il contatto arrivava dal carcere milanese di San Vittore, dove monsignor Curioni aveva esercitato per molti anni il ruolo di cappellano. Il brigatista detenuto, per dimostrare di non essere un volgare impostore, aveva sostenuto che il comunicato del Lago della Duchessa del 18 aprile era un falso e che loro, le “vere Br”, lo avrebbero smentito, collocando quindi necessariamente la proposta del misterioso interlocutore tra il pomeriggio del 18 aprile e l’intero giorno successivo.
Il 9 maggio 2004, sempre Andreotti ha fornito una nuova versione affermando che un sedicente brigatista, di cui però non veniva più detto che era in stato di detenzione, aveva addirittura anticipato l’uscita del comunicato del 18 aprile, quello che annunciava la morte di Moro, sostenendo tuttavia che non bisognava spaventarsi perché la notizia era falsa. A ben guardare, questa rivelazione era assai più impegnativa della prima, anzitutto perché è temporalmente collocabile prima del 18 aprile e in secondo luogo in quanto, dopo il falso comunicato del Lago della Duchessa, era prevedibile una successiva reazione di smentita da parte dei brigatisti, come puntualmente avvenne. In base a questi avvenimenti appare illogico che il “signor X” detenuto avesse utilizzato un argomento tanto fragile per accreditarsi davanti a un interlocutore che, non dimentichiamo, aveva la responsabilità di gestire dieci miliardi di dollari per conto del Papa e doveva decidere se consegnarglieli o no in cambio della liberazione di Moro, che sarebbe dovuta avvenire in una zona extraterritoriale di proprietà del Vaticano. Al contrario, sarebbe stato ben più efficace se il sedicente brigatista, come lo stesso Andreotti ha rivelato nel 2004, avesse anticipato l’uscita di un documento delle Br annunciante la morte di Moro e allo stesso tempo, per tranquillizzare il suo interlocutore, avesse detto di essere certo che la notizia era falsa. Infatti, una volta divulgato quel comunicato, come avvenne la mattina del 18 aprile, egli avrebbe certamente raggiunto l’obiettivo che si prefiggeva, ossia affermarsi agli occhi dei mediatori vaticani come referente credibile, effettivamente in contatto con i brigatisti di cui era addirittura in grado di anticipare le mosse e, di conseguenza, come l’unico tramite sicuro a cui poter affidare l’ingente somma in ballo.
Dal momento che il falso comunicato del Lago della Duchessa è stato redatto da Chichiarelli sul piano logico se ne trae la deduzione che solo l’autore materiale dell’apocrifo, o persona a lui strettamente legata, poteva avere la certezza intorno al 16-17 aprile di prevedere le mosse che egli stesso in quelle ore stava escogitando e di annunciarle per farsi dare il denaro dall’emissario del Vaticano la volta in cui il comunicato fosse effettivamente uscito, ossia il 18 aprile. Da ciò si evince con ragionevole certezza che il misterioso interlocutore di Curioni in quei giorni fu proprio Chichiarelli o, al massimo, un suo compare da lui informato del progetto, che indossava i simulati panni del brigatista dissidente o favorevole alle trattative per impedire che quell’ingente somma di denaro raccolta autonomamente dal Vaticano e mal tollerata dal governo e dell’antiterrorismo italiano finisse davvero nelle mani sbagliate: non tanto le sue, ma quelle dei brigatisti, che con quei soldi avrebbero finanziato la lotta armata in Italia per il successivo decennio.
Tuttavia la famiglia pontificia dovette mangiare la foglia, non cadere nella trappola escogitata dall’antiterrorismo italiano per rientrare della somma di denaro di cui non aveva potuto impedire la raccolta essendo stata promossa da uno Stato estero e non pagò.
Un’ulteriore conferma di questo racconto è venuta recentemente da monsignor Fabbri, audito dall’ultima Commissione Moro. Il sacerdote, infatti, che agli inizi degli anni Novanta, sempre insieme con monsignor Curioni, è stato coinvolto anche nella cosiddetta trattativa “Stato-mafia”, ha dichiarato di avere fornito a Paolo VI una foto di Moro senza giornale e dunque non databile con certezza con l’obiettivo di dimostrare l’esistenza in vita dell’ostaggio, prerequisito necessario per avviare il pagamento del riscatto. Tuttavia il Pontefice non si fidò (“‘questa fotografia non mi dice che è vivo’, fu questa la battuta del Papa”) e chiese una diversa conferma, ossia una nuova polaroid che consentisse di accertare l’esistenza in vita dell’ostaggio. Si tratta della foto che le Brigate rosse furono costrette a distribuire il 20 aprile come risposta alla provocazione del falso comunicato del Lago della Duchessa, con Moro che stringeva tra le mani una copia di Repubblica del 19 aprile 1978. Davanti alla Commissione, monsignor Fabbri ha tenuto a specificare che entrambe le foto vennero consegnate al Papa riservatamente, prima cioè che fossero divulgate al grande pubblico. Inoltre ha aggiunto che l’interlocutore di Curioni, per dimostrare la propria attendibilità, gli aveva fatto vedere, in tempi diversi, due fotografie del presidente della Dc a suo dire scattate durante la reclusione nel carcere del popolo. Infine ha dichiarato che Andreotti in persona strinse un accordo con Curioni affinché fosse tenuto sino alla morte fuori da ogni processo riguardante la vicenda Moro, come in effetti è accaduto.
Occorre notare che nel marzo del 1985, un amico di Chichiarelli, nel frattempo assassinato da ignoti, sostenne davanti al magistrato che costui gli aveva confessato “di avere fotografato (Moro) con la sua polaroid e di avere conservato un paio di fotografie scattate nella circostanza: foto delle quali io non ho mai preso visione”. Al di là della veridicità delle impegnative affermazioni attribuite a Chichiarelli nel 1985, è interessante mettere in evidenza che l’argomento delle due fotografie coincide con quanto raccontato da monsignor Fabbri, ma anche con quanto sostenuto dal “sedicente mister X” in contatto con il Vaticano nella primavera del 1978, a conferma dell’identità fra i due personaggi.
Alla luce di quanto detto, la celebre lettera che Paolo VI rivolse il 22 aprile 1978 agli “uomini delle Brigate rosse” per dire: “Vi prego in ginocchio liberate l’on. Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni” può essere interpretata in modo più efficace di come si è solitamente fatto. In quelle ore, infatti, Paolo VI scelse di rivolgersi direttamente alle Brigate rosse per provare a riannodare i fili di un contatto effettivo con loro, saltando la fitta barriera di uno o più sedicenti brigatisti (fra cui certamente Chichiarelli) che si erano frapposti tra il Vaticano e il prigioniero con l’obiettivo di intercettare il riscatto per conto del governo e dell’antiterrorismo italiano. E dunque: liberatelo “semplicemente”, ossia non seguendo le “imbarazzanti condizioni” (questo era in realtà il pregnante termine che in una prima stesura della missiva Paolo VI utilizzava, come recentemente scoperto dal ricercatore Riccardo Ferrigato) seguite sin qui che si sono rivelate ingannevoli. E fatelo, dunque, “senza condizioni” perché non ci è più possibile rispettare quelle segrete pattuite in precedenza che dunque andranno ridefinite mediante ulteriori contatti. E infine: io non ho “modo di avere alcun contatto con voi” giacché i canali esperiti finora sono falliti, ma spero di riuscire a stabilire una nuova e autentica via di comunicazione avendo ormai maturato la consapevolezza che quella utilizzata fino a quel momento si è rivelata una trappola. Si direbbe, il terzo livello di una strategia di governo estremamente determinata e raffinata, che pubblicamente scelse la strada della fermezza, riservatamente simulò la disponibilità di una trattativa in denaro (come attestato da Andreotti con la riunione del 3 aprile 1978 con i segretari dei principali partiti italiani) perché altrimenti non avrebbe avuto lo spazio politico di fare, ma segretamente si attivò per impedire il pagamento del riscatto. In questo modo si sviluppò un sordo conflitto tra le motivazioni umanitarie e personali di Paolo VI e quelle della ragione di Stato dell’Italia nella sua dimensione interna ed estera che non tollerò di subire un’azione che si configurava come un’enorme ingerenza di uno Stato estero, la Città del Vaticano, sul proprio territorio nazionale.
Il falso comunicato del Lago della Duchessa, dunque, servì ad accreditare presso Paolo VI e la famiglia pontificia la figura di Chichiarelli come intermediario segreto affinché il riscatto raccolto dal Papa finisse nelle mani di un personaggio controllato dagli apparati dello Stato ancorché legato alla criminalità comune. La questione nella sua spietata drammaticità è presto detta: nel caso in cui i soldi del riscatto raccolti da Paolo VI avessero continuato a finanziare la lotta armata nella Penisola, a morire non sarebbero state le Guardie svizzere, ma gli agenti delle forze dell’ordine italiane.
Di conseguenza non è difficile immaginare la durissima pressione che i vertici delle forze di sicurezza (polizia, carabinieri, Servizi segreti) dovettero opporre a una simile eventualità in una vicenda in cui, come ha scritto Pieczenick nel suo libro di memorie, “mai l’espressione ‘ragion di Stato’ ha avuto più senso come durante il rapimento Moro in Italia”. Un senso così profondo da diventare opaco come la lastra di ghiaccio del vero Lago della Duchessa e vischioso come il falso comunicato di Chichiarelli, perché se lo Stato è storicamente debole, diviso in fazioni e in crisi di autorevolezza e di fiducia pubblica come in Italia, quando viene messo sotto attacco si irrigidisce alla maniera di un paralitico fino a ridurre le sue ragioni, vere o presunte, insieme con le furbizie e le meschinità, in una grigia poltiglia intrisa di Statolatria.
Se un giorno dovessi spiegare a mio figlio con un’immagine cosa è la Statolatria gli mostrerei la foto dei sommozzatori che si immergono diligenti nel buco di ghiaccio del Lago della Duchessa, al fondo del quale non avrebbero trovato il corpo di Moro, ma riflessa la storia della sua morte, l’effetto di quella Statolatria di cui egli fu vittima.
(8 – continua)

Corriere 4.5.18
Un maestro dei fumetti racconta uno dei grandi pittori da lui più venerati
La collana Da oggi in edicola con il quotidiano la prima uscita della serie dedicata al disegnatore che vive nella Roma del Seicento ma qui ha il volto di Andrea Pazienza
Geniale, appassionato (e vero) Il Caravaggio di Milo Manara
di Stefano Bucci


La galleria dei suoi autoritratti non è affollatissima, come si conviene a un genio assoluto, ma anche misterioso: la testa (mozzata) del Golia della Galleria Borghese di Roma; il Ponzio Pilato dell’Ecce Homo di Palazzo Bianco a Genova; il profilo di giovane uomo che spunta dal buio della Cattura di Cristo della National Gallery di Dublino e quello del Martirio di San Matteo a San Luigi dei Francesi.
Per immaginarsi Michelangelo Merisi detto il Caravaggio (1571-1610), il maestro della Madonna dei Palafrenieri e delle Sette Opere di Misericordia, meglio guardare a chi (con successo) ha già provato a raccontarcelo: il Caravaggio sceneggiato in tre puntate per la Rai, Gian Maria Volontè come protagonista (1967, regia di Silverio Blasi); quello (affascinante e tormentato) del film di Derek Jarman (1986); quello (vivace e inquieto) del libro di Helen Langdon (pubblicato da Sellerio nel 2001).

Il Caravaggio immaginato da Milo Manara, un progetto che aveva preso corpo nel 2005 con la pubblicazione per Panini Comics della graphic novel a colori Caravaggio. La Tavolozza e la Spada che ora inaugura la nuova collana del «Corriere» dedicata a uno dei grandi del fumetto, è certo un Caravaggio diverso da tutti gli altri. A cominciare dai tratti del volto, evidentemente modellati su quelli di Andrea Pazienza (1956-1988), il poeta dei cartoon. Il motivo, Manara (Luson, Bolzano, 1945) l’ha spiegato più volte: «Oggi Caravaggio se fosse tra noi non farebbe il pittore: probabilmente farebbe cinema, perché lui è sostanzialmente un narratore. Se dovessi indicare un nuovo Caravaggio, non lo indicherei nella pittura ma proprio nei fumetti. L’ho voluto ritrarre con il volto di Andrea non solo per il suo straordinario talento, ma perché Pazienza come Caravaggio era un uomo d’azione, che ha vissuto una vita dinamica, avventurosa, dall’esito tragico».
Nella Tavolozza e la Spada viene narrata la vita del geniale pittore italiano, dal suo arrivo a Roma alla fine del Cinquecento fino alla rocambolesca fuga dalla capitale: le tavole di Manara ne raccontano in particolare l’arte e le opere, ma anche la passione e gli eccessi. Un innamoramento, quello di Manara, che arriva da lontano, dalla gioventù: «Molti anni fa, agli esami di maturità artistica, il professore picchiettò con l’indice sulla copertina del libro di storia dell’arte dicendomi: “Mi parli di questo”. Sulla copertina c’era la vostra Canestra di frutta. Beh, feci un figurone: sapevo tutto di Voi. Almeno tutto quello che uno studente poteva sapere, a quei tempi. Ho sempre avuto un’autentica venerazione, per Voi. E poi c’era quella faccenda delle iniziali: vedete, Maestro, io ho le Vostre stesse iniziali».
Secondo il classicissimo Nicolas Poussin, il pittore filosofo del Trionfo di Flora (1631) e di tanti aulici Paesaggi affollati di dei e ninfe, Caravaggio sarebbe venuto al mondo addirittura per distruggere la pittura. Una teoria che Manara non condivide, come testimoniano le sue tavole costellate, certo di donne bellissime e spesso poco vestite, ma anche di citazioni di Raffaello, Paolo Veronese, Picasso, de Chirico e naturalmente Caravaggio. Cercando di restare, sia pure con qualche licenza poetica, il più possibile vicino alle fonti della vicenda del pittore seicentesco. E, come aveva affermato Claudio Strinati, «assumendo in questa narrazione disegnata un senso profondo che va molto oltre la verosimiglianza storica, per entrare nei meandri di un’idea della Verità che per molti versi è proprio quella che fu del Caravaggio».
Nella sua mole di opere decisamente consistente (come aveva testimoniato la mostra Nel segno di Manara chiusa lo scorso gennaio al Palazzo Pallavicini di Bologna), resa possibile dalla grande velocità di esecuzione, Manara ha inanellato una lunga serie di storie, oltre ad un’infinità di altre pagine, spesso sceneggiate da autori tra cui Alejandro Jodorowskij, Vincenzo Cerami e Hugo Pratt, Federico Fellini. Sempre, però, con un segno inconfondibile. Perché Milo Manara è autore colto, competente, più che mai attento a rispettare, nel caso del Caravaggio, il proprio idolo artistico nella sua trasposizione. Un Caravaggio, con il volto di Andrea Pazienza, disegnato magnificamente, narrato con passione e intelligenza: dal punto di vista squisitamente grafico.
Un’opera sontuosa che offre la rappresentazione della Roma del Seicento, vera protagonista con Caravaggio della storia. Ma soprattutto, il libro trabocca adorazione delle opere caravaggesche, e grande empatia con l’autore. Notevole è l’attenzione nel riproporre capolavori immortali come Il Martirio di San Matteo, Giuditta e Oloferne o la Morte della Vergine, ridisegnati a mano da Manara senza l’ausilio di supporti fotografici. Ma la vera magia è forse la capacità di restituire l’incanto plastico e la tensione sensuale che traboccano dalle tele del Caravaggio.

Repubblica 4.5.18
Aldo Moro. Cronache di un sequestro
Da prigioniero a condannato
di Ezio Mauro


La porta della cella è chiusa da 35 giorni, e oggi l’uomo incappucciato non si presenta davanti al prigioniero per interrogarlo, dargli qualche scampolo di notizia sulle reazioni esterne al sequestro, leggere le lettere che lui ha scritto di notte. Mario Moretti è partito in treno per una riunione dell’Esecutivo Br, l’ultima, quella decisiva. Si incontra con Bonisoli, Azzolini, Micaletto, valutano gli ultimi segnali che arrivano dalla Dc e dal governo, lui racconta le mosse di Moro, la convinzione di Gallinari che bisogna arrivare ad una conclusione, l’impazienza di Germano Maccari: che l’altra sera si è quasi ribellato all’obbligo di impersonare ventiquattr’ore al giorno l’“ingegner Altobelli”, vuole uscire (riesce a farlo quattro volte), vedere Adelaide, la sua ragazza che lo crede a Genova per lavoro, non accetta il comandamento brigatista di rompere i legami sentimentali quando si è in azione, come invece ha fatto Anna Laura Braghetti prima del sequestro lasciando Bruno Seghetti. Gallinari e Maccari quasi non si parlano più, la tensione e la paura crescono, quella prigione nascosta in fondo allo studio si dilata davanti a loro da scena di un sequestro a incubo dell’ultimo atto. I quattro dell’Esecutivo capiscono che non otterranno il riconoscimento politico che cercano fuori, dallo Stato, e decidono di giocare il tutto per tutto dentro l’area rivoluzionaria, per conquistare l’egemonia tra i gruppi armati caricandosi il peso del gesto estremo. Lanciano una consultazione nelle quattro “ colonne” Br, sondano i capi storici in carcere a Torino: sono tutti d’accordo, meno Morucci e Faranda. Quando Moretti torna nel “covo”, dice che la decisione è presa, non si può più aspettare. Bisogna uccidere Aldo Moro.
La notte, Anna Laura Braghetti trova Moretti seduto nel salotto, al buio, da solo. Due uomini insonni sono separati da una finta libreria che nasconde una prigione, divisi tra la sopraffazione e l’inermità, congiunti da un destino che sta per compiersi, scelto dal primo, contrastato a mani nude dal secondo. Il prigioniero sta scrivendo i suoi addii. Il carceriere valuta il percorso di un’azione che è nata da una strage per diventare un rapimento, poi un sequestro, quindi una prigionia che non ha portato al risultato politico inseguito fin dal primo giorno: e adesso implode in un delitto, perché il 16 marzo Moro è entrato in cella come condannato, e da quel momento le Br hanno condannato se stesse all’esecuzione. C’è ancora un incontro a piazza Barberini di Moretti e Balzerani con Morucci e Faranda, contrari a uccidere un ostaggio inerme mentre si chiede allo Stato la liberazione di prigionieri. Pranzo in trattoria, poi discussione molto lunga e agitata, più di tre ore passeggiando. Un vertice brigatista all’aperto, nel pieno centro della capitale. Finché Moretti, a sorpresa, decide di chiamare personalmente casa Moro, anche se sa che quella chiamata sarà intercettata e registrata, ha tempo appena tre minuti prima che scatti la rilevazione della polizia.
Non ha il mandato dell’Esecutivo per questa mossa. Decide da solo. Dopo 55 giorni passati a tu per tu con Moro nell’interrogatorio, dopo aver letto tutte le sue lettere, cerca di guadagnare tempo, e sull’orlo del precipizio non ne ha più. Ha visto Moro pregare in ginocchio dallo spioncino, lo ha sentito parlare ogni giorno della sua famiglia, ha ascoltato le ultime proposte che il prigioniero gli ha rivolto inventandole nel fondo della sua angoscia: « Perché non mi salvate la vita, condannandomi all’ergastolo? Sono pronto ad entrare in carcere appena uscirò di qui, chiederò io di andare all’Asinara » . Lo ha ancora sentito ieri, mentre gli chiedeva di usare la moglie e i figli come arma finale di pressione sulla Dc, sul governo, sul Vaticano. Adesso tenta di giocare un’ultima carta di testa sua, prima della pistola.
I quattro vanno alla stazione Termini, entrano nel sottopassaggio, tre si schierano di copertura davanti a una cabina, il capo delle Br infila il gettone, compone il numero per chiamare la disperazione: 3379308. Il telefono risuona alle quattro e mezza del pomeriggio in via del Forte Trionfale 79. Risponde la moglie di Moro, Moretti la scambia per la figlia: « Senta, io sono uno di quelli che ha qualcosa a che fare con suo padre. Devo farle un’ultima comunicazione. Noi facciamo questa telefonata per puro scrupolo, perché finora avete fatto tutte cose che non servono a niente. Noi crediamo invece che i giochi siano fatti e abbiamo già preso una decisione. Nelle prossime ore non potremo fare altro che eseguire ciò che abbiamo detto nel comunicato numero 8. Solo un intervento diretto, immediato e chiarificatore, preciso, di Zaccagnini può modificare la situazione. Se questo non avviene nelle prossime ore…». Eleonora Moro prova a spiegare che la famiglia può fare poco, le voci si accavallano, poi Moretti alza il tono: «Guardi, non posso discutere, non sono autorizzato a farlo».
E qui c’è il passaggio più drammatico, che riassume tutta la sproporzione della tragedia, tra l’arbitrio e la disperazione. Appesa al telefono con l’uomo che ha in mano suo marito, pur di non rompere l’ultimo filo, sperando in una qualsiasi indicazione praticabile, qualche spazio di speranza, la moglie di Moro abbassa la voce: «Le chiedo scusa » . Come se quel « dominio pieno e incontrollato » avviluppasse in un’unica sorte la vita di un’intera famiglia, anche fuori dalla cella, persino nel mondo libero.
Dentro la cella, Moro si è già dimesso dalla presidenza della Dc, ha fatto testamento, si è congedato dai suoi amici più stretti. Adesso chiede che ai suoi funerali non partecipino uomini di partito, autorità dello Stato, non vuole cerimonie pubbliche: «Ricevo come premio dai comunisti, dopo la lunga marcia, la condanna a morte». «Muoio, se così deciderà il mio partito, nella pienezza della mia fede cristiana e nell’amore immenso per una famiglia che io adoro. Ma questo bagno di sangue non andrà bene né per Andreotti né per la Dc né per il Paese, ciascuno porterà la sua responsabilità». La famiglia fa eco, con un ultimo drammatico appello al partito, accusato insieme a tutto il mondo politico di aver dichiarato Moro “ sostanzialmente pazzo”: « Sappia la Dc che questo comportamento di immobilismo e di rifiuto ratifica la condanna a morte».
È il momento degli addii. Il condannato scrive ai figli, ad uno ad uno, ricorda la «dolce infanzia» di Giovanni e gli consiglia di non seguire la strada della politica, affida Anna e Maria Fida « all’aiuto di Dio » , racconta ad Agnese « l’angoscia di doverti lasciare » , saluta il nipotino Luca: « Non so chi e quando ti leggerà questa lettera del tuo caro nonno. Saprai così che tutti ti abbiamo voluto un gran bene ed il nonno, forse, appena un po’ più degli altri. Ed ora il nonno Aldo è costretto ad allontanarsi un poco, ma vuole restarti vicino. Tu non mi vedrai, forse, ma io ti seguirò nei tuoi saltelli con la palla, ti accarezzerò dolcemente il viso e le mani, ti sarò accanto la notte, per cogliere l’ora giusta della pipì, e farti poi dolcemente riaddormentare » . Infine la moglie Eleonora, cui quattro giorni prima dell’assassinio va l’ultima lettera, come a lei era andata la prima: « Siamo ormai, credo, al momento conclusivo. Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza. Vorrei capire coi miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo».
Mentre chiedono di trattare, le Br continuano a sparare, feriscono due dirigenti industriali a Milano e Genova, i “Proletari armati per il comunismo” colpiscono alle gambe un medico dell’Inam a Milano. A Roma la Procura generale avoca le indagini sul caso Moro togliendole al giudice Infelisi, si parla di un possibile atto di grazia del presidente della Repubblica Leone per un detenuto politico,
comincia a chiedersi perché le indagini non vanno avanti: « Le paralizzano insufficienze tecniche o incontrano sulla loro strada oscuri e protetti santuari? » . Segretamente, giovedì 5 maggio il ministro degli Interni Cossiga distribuisce a tutti gli organi coinvolti i piani “ Victor” e “ Mike” che fissano i codici di comportamento decisi dal governo nel caso in cui Moro venga ritrovato morto (“Mike”) o venga rilasciato vivo: subito dopo la liberazione “Victor” stabilisce che il sequestrato venga ricoverato al policlinico Gemelli, dove viene predisposto un trattamento de-condizionante e riabilitativo dal punto di vista psicologico.
La stessa sera, arriva il comunicato numero 9, l’ultimo. Contano solo le parole finali: « Concludiamo la battaglia iniziata il 16 marzo eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato». Dunque il rapimento  era una «battaglia». La sentenza era l’arma, la condanna la posta politica in gioco. Adesso tutto precipita nel buio dell’esecuzione.
Scelto con cura quasi democristiana, quell’«eseguendo» indica una decisione presa però ancora sospesa, dall’operatività non definita, dunque all’ultima mercé di uno scambio politico in extremis, in uno spazio che i brigatisti hanno ormai ristretto nei tempi e nei modi quasi a nulla. Appena tre giorni prima, nell’ultimo incontro tra Pace, Morucci e Faranda si era ragionato sul nome della brigatista Paola Besuschio, in carcere ma malata, come possibile soggetto di negoziato. Signorile incontra Fanfani chiedendogli di muovere le acque nella Dc, Fanfani va a casa Moro, poi parla con Zaccagnini. Tutti aspettano la direzione democristiana di martedì, 9 maggio.
Ma intanto nell’“ufficio” di via Chiabrera con Morucci e Faranda si riuniscono per l’ultima volta Moretti, Seghetti, Balzerani. Bisogna decidere le modalità tecniche dell’esecuzione, come i terroristi chiamano l’assassinio. Tocca alla colonna romana scegliere le armi, che avranno il silenziatore e non dovranno forare la carrozzeria dell’auto. Si punta sulla Walter PPKS calibro 9 corto, una pistola semiautomatica, e sulla mitraglietta Skorpion 7,65. Ho potuto aprire la scatola rigida custodita nell’ufficio reperti del Ris, a Roma, per vedere quarant’anni dopo le due armi, la mitraglietta dei brigatisti e la pistola silenziata, strumenti consumati e invecchiati della più grande tragedia politica italiana, una tragedia che testimoniano col loro solo apparire, come l’evidenza concreta di un incubo. Ma in quel momento la scelta delle armi è quasi una derivata tecnica, una valutazione militare. «Allora è deciso – dice Moretti alla fine della riunione –: chi lo fa?». Silenzio. Si guarda attorno, e subito aggiunge: «Ho capito. Tocca a me».
Il Capo delle Br entra nella cella e informa Moro che non c’è più spazio di negoziato. L’altra volta, alla notizia della condanna a morte, il prigioniero si era ribellato con il silenzio, rifiutando il cibo. Adesso capisce che non c’è tempo, tutto sta finendo. Scrive il suo saluto su un ultimo biglietto alla moglie: «Ora, improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunge l’ordine di esecuzione. Noretta dolcissima, sono nelle mani di Dio e tue. Prega per me, ricordami soavemente. Carezza i piccoli dolcissimi, tutti. Che Iddio vi aiuti. Un bacio d’amore a tutti. Aldo».
La lettera arriva a casa Moro il 5 maggio. Il giorno dopo l’Esecutivo decide la data dell’esecuzione: è per il 9 maggio, un martedì. Quando  Moretti porta la notizia in via Montalcini, trova le obiezioni di Maccari, ormai in aperto dissenso, senza sapere che anche Morucci e Faranda sono contrari all’uccisione dell’ostaggio. A questo punto non c’è altra strada possibile, risponde Moretti, salvo sciogliere le Br. È la stessa cosa che ripete ad Anna Laura Braghetti, che chiede a lui e a Gallinari di aspettare ancora, di guadagnare tempo: il sequestro dura da quasi due mesi, tutto il Paese cerca il prigioniero, è in gioco anche la sicurezza dell’organizzazione – è la risposta dei due –. E in ogni caso, la rivoluzione non è un pranzo di gala.
Ma il prigioniero ha smesso di combattere o continua a sperare? Se lo domandano nelle ultime ore Maccari e Braghetti. Concludono che Moro sa: ha capito che la trattativa è bloccata, lo spazio politico è chiuso, gli ultimatum sono finiti, dunque la sua vita è davanti ad un concreto pericolo immediato. In più Moretti gli ha ripetuto più volte di non augurarsi un blitz di polizia, perché al primo allarme Gallinari entrerebbe nella prigione e gli punterebbe una pistola alla testa, per fare scudo ai terroristi col corpo del prigioniero. Dunque, Moro capisce che tutto va verso la fine, perché si sono chiuse tutte le vie di scampo. Ma da cattolico, dice Maccari, il prigioniero continua a sperare, nonostante tutto.
Finché arriva quel martedì, il 9 maggio, e Moretti sveglia il prigioniero alle 6 del mattino. C’è un’emergenza, bisogna spostarsi al più presto, non c’è tempo nemmeno per lavarsi, anzi deve cambiarsi, togliere la tuta e rimettere i suoi vestiti. Forse Moro sospetta, forse invece spera: si sentono braccati? Qualcuno si sta avvicinando? Si cambia prigione? O si va verso la fine di tutto? Ecco il secondo uomo, gli porta le scarpe, le calze, camicia, cravatta e gilet, con il suo vestito scuro, quello che indossava il 16 marzo. Perché gli ridanno i vestiti, che cosa hanno in mente, cosa vogliono fare di lui?
Hanno preparato tutto il giorno prima. La Braghetti è scesa per la scale fino al garage alle 6.45 del mattino, per capire se a quell’ora il condominio era tranquillo. Poi ha liberato il box in garage, togliendo l’“Ami 8” famigliare e posteggiandola in strada. Al suo posto è arrivata una “ R4” rossa, e ha fatto manovra in retromarcia per entrare di coda. In casa, di notte, hanno steso i pantaloni di Moro sul tavolo, poi li hanno spruzzati con l’acqua di mare raccolta in un flacone da Faranda e Balzerani sul litorale romano, per depistare le indagini dopo l’assassinio. Nei risvolti, granelli di sabbia, tracce di bitume, legnetti presi dalle barche ormeggiate sulla riva, per guadagnare tempo dando alla “scientifica” false informazioni sulla prigione.
Dalla fessura aperta della porta, gli dicono di sbrigarsi. Moro si veste in fretta, con le mutande lunghe di lana sopra gli slip, come se non fossero passati quasi due mesi da quel mattino di marzo, dal tardo inverno alla primavera. Fa velocemente un nodo sbagliato alla cravatta, con la parte in vista più corta dell’altra, si infila le calze blu al contrario. È pronto. «Mi saluti i suoi colleghi», dice a Moretti prima di raccogliersi dentro la grande cesta di vimini con i manici dove lo fanno entrare coprendolo con un plaid. Moretti e Maccari si tolgono il cappuccio dal viso: ormai non serve più.
Scende prima Braghetti, le scale sono libere, poi i due con la cesta. Venti secondi la prima rampa, pianerottolo, venti l’altra. Ecco il grande garage condominiale. La saracinesca del box è abbassata ma solo a metà, perché il bagagliaio sul fondo è spalancato e prende spazio, davanti spunta il muso rosso della Renault. Moretti aiuta Moro a rialzarsi dalla cesta, gli dice di sedersi nel bagagliaio. Ma improvvisamente si sente il rumore dell’ascensore. « Fermi » , ordina Braghetti di guardia sulla porta delle scale. Fanno accucciare Moro, gli coprono il viso col plaid. Scende l’inquilina del terzo piano, trova la Braghetti davanti al box, la R4 rossa che spunta, si salutano. L’auto non parte subito, i brigatisti sono curvi nel box, immobili, poi il motore si accende, la macchina esce e torna il silenzio.
Dal bagagliaio dell’auto, nella luce fioca che arriva in fondo al box, Moro adesso guarda i suoi carcerieri a viso scoperto dopo 55 giorni, e capisce. Ha appena sentito l’allarme nel garage, voci, rumori: ma non ha urlato e non ha chiesto aiuto. Tutto è consumato.
Moretti rialza il bordo del plaid sul volto di Moro. C’è una prima raffica, un attimo sospeso. Poi una seconda, breve. Nove colpi. Cercavano il cuore. Moretti dice di aver sparato da solo. Faranda aggiunge che ha avuto un cedimento, ha dovuto sparare anche Maccari: che invece spiega di aver solo passato a Moretti la mitraglietta, quando si è bloccata la pistola.
L’uomo nel bagagliaio è accasciato su se stesso, riverso da sinistra a destra, sembra appoggiato alla ruota di scorta. Tamponano la ferite con fazzoletti di carta, coprono il corpo, chiudono il portellone. Eccoli che spuntano dal fondo del box nella luce del garage con una borsa di tela dove hanno nascosto le armi. La consegnano ad Anna Laura Braghetti, le chiedono di controllare se la strada è libera. Mettono in moto. Lei fa un cenno con la mano, adesso possono partire.
Lentamente, col suo carico segreto, la R4 esce dal garage, si affaccia su Roma per l’ultimo viaggio di Moro. Nel fumo del gas di scarico, alle 7 del mattino, su una tragedia lunga 55 giorni si chiude la saracinesca anonima del covo.