il manifesto 3.5.18
Serve una prova di lealtà costituzionale
Governo
. Il parlamento è, per colpa esclusiva della legge elettorale, in una
situazione di stallo. E, per uscirne, altro rimedio non esiste
all’infuori di quello che prevede la scrittura di una nuova formula per
ripetere le elezioni evitando, con fantasiosi accorgimenti tecnici, che
il popolo ancora sbagli
di Michele Prospero
La
fabbrica delle ideologie, come coscienza falsa, è pronta a riaprire. E
quindi già si ripresentano in parlamento i soliti progetti per il
passaggio al presidenzialismo. Anche una nuova legge elettorale (la
sesta) è invocata per risolvere il male della ingovernabilità. Insomma:
la solita retorica sulla riforma delle istituzioni, come pozione
salvifica, che dura da trent’anni.
Un accanimento così testardo
postula che il voto di marzo sia stato un incidente, risolvibile solo
con altre prove tecniche di semplificazione.
Gli elettori, che non
hanno visto il bene supremo del vincitore incoronato a urne chiuse,
vanno invitati a ripetere le operazioni di voto. Tocca però prima al
grande riformatore sciogliere il nodo. Il parlamento è, per colpa
esclusiva della legge elettorale, in una situazione di stallo. E, per
uscirne, altro rimedio non esiste all’infuori di quello che prevede la
scrittura di una nuova formula per ripetere le elezioni evitando, con
fantasiosi accorgimenti tecnici, che il popolo ancora sbagli.
Questa
pretesa di correggere, con alchimie strane, la volontà popolare
insensibile è assurda. Anche con il meccanismo elettorale più selettivo,
all’inglese, che viene celebrato dagli apprendisti stregoni come
garanzia di governabilità, a marzo avrebbe consegnato una situazione di
perfetto equilibrio. Le tre forze hanno infatti riportato, anche nei 231
collegi uninominali, una quantità di voti che esclude una loro
traduzione in seggi tale da regalare il nome del vincitore al calar
della sera. Proprio come accaduto nella quota proporzionale con le liste
bloccate, anche nei collegi uninominali all’inglese si conteggiano 111
seggi per la destra, 93 per il M5S, e 28 per il centro sinistra. Nessuno
dei tre poli ha raggiunto la maggioranza assoluta.
Il difetto
dell’attuale sistema misto non è certo quello di aver mancato di
santificare il vincitore (peraltro non lo ha espresso per un soffio, e
se solo la Sicilia avesse confermato il voto delle regionali di qualche
mese prima, la destra sarebbe andata vicina alla conquista della
maggioranza assoluta). Il deficit della normativa vigente riguarda la
lista bloccata, l’assenza del voto disgiunto. Il nome del capo politico
eletto rientra invece in una aspettativa illusoria collegata alla
nefasta cultura della democrazia «immediata», che danni immensi ha già
prodotto nella struttura della forma di governo.
Quale che sia la
tecnica elettorale, in nessun sistema parlamentare, anche quello che
prevede il doppio turno o il maggioritario secco di tipo anglosassone,
con il voto si elegge il governo. In presenza di tre poli incomunicanti,
la responsabilità delle scelte, per superare la paralisi, non ricade su
pretesi vincoli dettati dalla legge elettorale, ma solo sulla testa
della leadership politica. Il Pd, che rifiuta contrattazioni con il M5S e
invoca il doppio turno (come terza forza sarebbe residuale ancora più
di adesso), vuole semplicemente che ciò che ai parlamentari è precluso,
l’intesa con altre forze, piombi sulle mani degli elettori, costretti a
compiere scelte costose riversando i voti sul meno peggio che accede al
secondo turno.
Il parlamento è il naturale luogo dei compromessi,
alla luce dei rapporti di forza. Il Pd non può che prendere atto della
situazione per cui un governo (uno qualsiasi, anche quello di tregua, di
scopo, di garanzia, ponte) va concordato con uno dei due vincitori.
Lega e M5S hanno avuto una forza parlamentare per cui, senza il sostegno
in aula di uno dei gruppi, non si fa maggioranza. E quindi tocca al Pd
valutare chi, tra i due vincitori, è più compatibile per siglare una
intesa programmatica minima che operi nel solco di essenziali valori
costituzionali.
La proclamazione di una destinazione naturale
all’opposizione, perché tocca solo ai due più grandi partiti vedersela
tra loro (avrebbero stretto l’alleanza senza l’incomodo Berlusconi!),
rasenta l’irresponsabilità istituzionale. Nel 2013 non fu così, il Pd
cercò allora un governo di larghe intese con Fi, vista la
indisponibilità del M5S a un governo del cambiamento. La questione non è
di ordine di classificazione dei partiti al voto, ma è politica.
Consentire
un governo, anche senza parteciparvi in maniera organica, è una prova
di lealtà costituzionale cui il Pd non può sottrarsi. E il trucco di
governi pseudo-tecnico-istituzionali (con Cassese?) concordati dai
renziani con la destra avrebbe conseguenze catastrofiche. Al timore di
una marginalizzazione, che certo potrebbe scaturire da un dialogo con il
M5S, il Pd non può di sicuro rispondere con un arroccamento che
consegnerebbe proprio al duello tra Di Maio e Salvini le condizioni per
il consolidamento del nuovo bipolarismo.