il manifesto 30.5.18
Toccato il fondo, c’è chi si è messo a scavare
Pensavamo
di avere toccato il fondo con il disastroso esito elettorale del 4
marzo. Quindi magari di potere godere di qualche vantaggio dall’effetto
rinculo. Invece no
di Alfonso Gianni
Pensavamo
di avere toccato il fondo con il disastroso esito elettorale del 4
marzo. Quindi magari di potere godere di qualche vantaggio dall’effetto
rinculo. Invece no. In diversi si sono messi a scavare. Ora ci si trova
in fondo ad una crisi istituzionale dalle dimensioni e natura inedite
con l’aggravante di una destra arrembante che annusa il profumo
inebriante di una vittoria di proporzioni fino a poco fa imprevedibili.
Ciò che non è accaduto in Francia, la vittoria del lepenismo, potrebbe
accadere in Italia. Non a caso gli editorialisti de la Repubblica
lamentano l’assenza di un Macron italiano in grado di evitare un simile
esito.
Certo non possono contare, e da tempo, su un Renzi che
alterna pop corn con proclami «antisfascisti», pallida caricatura di un
radicale d’antan. A tutto ciò si è giunti con un precipitare di ora in
ora, tra palesi furbizie e clamorose insipienze. La terza pessima legge
elettorale ha offerto il contrario della governabilità. Chi l’ha
propugnata e difesa ne porta tutta la responsabilità. Al posto del
governo subito c’è la crisi profonda degli equilibri tra i poteri
istituzionali previsti dalla Costituzione. Il sistema delle coalizioni
senza programma, più simili a container che ad alleanze politiche, hanno
facilitato lo scomporsi delle aggregazioni elettorali come non mai. Da
qui, dopo un poco di melina e la più che prevedibile paralisi del Pd che
avrebbe pagato con ulteriori fratture qualunque mossa, si è giunti ad
un «contratto» di governo, espressione che già rivela la concezione
privatistica di rapporti politici e istituzionali, fra Lega e M5Stelle.
I
QUALI HANNO calpestato con disinvoltura tutti gli articoli
costituzionali che regolano le modalità della nascita di un nuovo
governo, presentando a Mattarella un pacchetto preconfezionato di
«contratto», premier e ministri. Che non potesse essere accettato in
quanto tale tutti lo sapevano. Che il capo dello Stato si incartasse in
un diniego rispetto all’incarico di Savona a ministro dell’economia, era
assai meno prevedibile. Ma è appunto questo che ha fatto da detonatore.
Già si è ben detto sui limiti intrinseci alla moral suasion che un
Presidente della Repubblica può esercitare avvalendosi del suo potere di
nomina dei ministri. Non solo sono stati ampiamente superati ma le
motivazioni fornite hanno inchiodato lo scontro politico tra no-euro ed
entusiasti di Maastricht. Il terreno più fertile per fare crescere il
nazionalismo populista. Tanto più che mass media, euroburocrati ed
esponenti politici europei hanno gettato benzina sul fuoco con
dichiarazioni sprezzanti e padronali, ultime quelle di ieri del
commissario europeo al Bilancio, Hoettinger.
Eppure sia la Lega
che il M5S avevano di molto attenuato il loro antieuropeismo. Per la
prima in particolare il tema principe era ed è l’immigrazione e la
sicurezza, come conferma uno spavaldo Salvini in queste ore. E persino
Orfini si è accorto che le politiche e le parole di Minniti hanno
portato acqua al mulino leghista. Nel «contratto» non compare l’uscita
dall’euro e naturalmente neppure il piano B, che se ci fosse mai
verrebbe reso noto prima di essere applicato per ovvi motivi.
È
VERO, IL GIORNALE della Confindustria ha alimentato in tutta la campagna
elettorale la tesi dello scontro fra le due Europe, quella di
Maastricht (che loro chiamano di Ventotene) e quella di Visegrad. Ma i
mercati se ne erano stati tranquilli, e lo spread è cominciato a salire a
balzelloni, così come i rendimenti dei nostri titoli anche a breve, e
le borse a scendere dopo la liquidazione della candidatura di Savona,
non prima. La scelta di Cottarelli, l’uomo della fallimentare spending
review, incarnazione ambulante del rigorismo più ostinato, a lungo
direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale per Italia,
Albania, Grecia, Malta, Portogallo, chiude il cerchio e dà il senso
dell’operazione condotta da Mattarella. Ma non è detto che neppure
questa fili liscia, visto che il primo incontro fra i due non ha ancora
partorito alcunché e che si parla con insistenza in queste ore di
elezioni in piena estate. Da queste ne guadagnerebbe solo la destra
estrema. I sondaggi indicano una flessione del M5stelle e un balzo
addirittura di dieci punti di Salvini. Il quale può ben lasciare ai
primi la richiesta di messa in stato d’accusa del Presidente della
repubblica per cui non esistono peraltro presupposti costituzionali né
tempi attuativi.
MENTRE IL REGGENTE del Pd dichiara l’astensione
di fronte al governo Cottarelli, c’è chi, nelle file del Mdp pensa (e
speriamo abbia smesso) addirittura di fare peggio, votando a favore.
Quel voto potrà anche avere un esito scontato, ma assume un senso
politico discriminante. Si tratta di uscire dalla tenaglia
dell’europeismo «angelicato» (nel senso di Anggela Merkel) e quella del
ritorno allo stato nazione; di non confondere l’antifascismo con gli
ammonimenti dei mercati finanziari; di mettere in campo concretamente
una posizione che si è sentita troppo poco e flebilmente nell’ultima
campagna elettorale. Come vaso di coccio tra vasi di ferro. Se la
sinistra vorrà esserci, anche in caso di elezioni più che imminenti,
dovrà trovare una dimensione unitaria attorno ad un programma che per
quanto essenziale eviti di venire schiacciato in uno scontro che
appartiene sì alla crisi del neoliberismo, ma non certo alla sua
sconfitta.