il manifesto 30.5.18
Cina
La variegata cassetta degli attrezzi per il controllo sociale
Il
termine «leninismo digitale» esprime al meglio le implicazioni
securitarie della rinascita tecnologica avviata dal gigante asiatico a
suon di investimenti
di Alessandra Colarizi
Tutte
le volte che Adil esce di casa ogni cento metri trova ad attenderlo un
posto di blocco attrezzato di scanner dell’iride e del corpo. Quando
entra in banca telecamere per il riconoscimento facciale ne verificano
in pochi secondi l’identità e se naviga su smartphone un apposito
software ne traccia i movimenti online. Anche per il semplice acquisto
di un coltello da cucina è costretto al rilascio del numero Id tramite
QR code, il codice a barre bidimensionale con cui in Cina ormai ci si fa
di tutto, dai pagamenti digitali allo scambio di amicizia su WeChat.
Adil
non esiste, ma la sua distopica quotidianità è già realtà per molti
uiguri, l’etnia turcofona di religione islamica che vive nella regione
autonoma del Xinjiang. È qui, nell’estremo Ovest cinese, che Pechino
applica i progressi compiuti nell’industria 4.0 alle più sofisticate
tecniche di sorveglianza con l’obiettivo di debellare «i tre mali»
(estremismo, terrorismo e separatismo).
Dalla scorsa estate un
«Programma di registrazione popolare» impone la raccolta delle
informazioni biometriche (compresi impronte digitali e Dna) per
qualsiasi operazione che coinvolga l’hukou, il permesso di residenza
necessario all’iscrizione in una scuola pubblica o all’ottenimento del
passaporto.
Il passo successivo è quello, un giorno non troppo
lontano, di integrare il bagaglio di dati personali al capillare sistema
di videosorveglianza che già conta 176 milioni di telecamere in tutto
il paese e aspira ad aggiungerne altri 500 milioni entro il 2020. Un
traguardo non impossibile se si considera che in alcune stazioni
ferroviarie la polizia già pattuglia in via sperimentale con occhiali
per il riconoscimento facciale capaci di smascherare i viaggiatori in
possesso di documenti falsi in soli 100 millisecondi.
Secondo la
data company IHS Markit, con 6,4 miliardi di fatturato tra hardware e
software, la Cina è già il primo mercato al mondo per la sorveglianza.
Il termine «leninismo digitale» esprime al meglio le implicazioni
securitarie della rinascita tecnologica avviata dal gigante asiatico. Ma
si tratta tuttavia di una dicitura parziale che rischia di sminuire la
versatilità del progetto. Tornando al Xinjiang, lo scopo conclamato del
programma di registrazione è infatti quello di adottare un «processo
decisionale scientifico» per promuovere «la riduzione della povertà»,
«una governance sociale più sistematica e innovativa» e – in ultimo – la
«stabilità sociale».
Negli stessi giorni in cui la prefettura di
Aksu riceveva le nuove linee guida, il Consiglio di Stato varava un
piano strategico volto a rendere la Cina il centro globale
dell’Intelligenza artificiale entro il 2030.
Allora il mercato
interno dovrebbe raggiungere un valore di 1 trilione di yuan (148
miliardi di dollari). Il programma, articolato in tre fasi quinquennali,
ha lo scopo di avviare una «quarta rivoluzione industriale» in grado di
rilanciare la crescita nazionale. Se le proiezioni di PwC dovessero
rivelarsi esatte, entro il 2030, l’Intelligenza artificiale avrà
regalato alla seconda economia mondiale un’espansione del 26%. Giusto
quel che ci vuole per ricalibrare il vecchio modello di crescita basato
sul binomio export-investimenti.
Che la Cina faccia sul serio lo
dimostra la portata dell’impegno economico: 16 miliardi di dollari
soltanto per un fondo interamente dedicato alle tecnologie di nuova
generazione nella città portuale di Tianjin.
Come sempre, la
ricerca fa da apripista. Dal 2015, il gigante asiatico realizza almeno
un 50% in più di studi sull’AI rispetto agli Stati uniti. Recenti corsi
di formazione a guida statale puntano a colmare un deficit del personale
specializzato aggiungendo 500 insegnanti e 5.000 studenti universitari,
mentre il coding e l’AI finiscono persino sui banchi delle scuole
primarie e secondarie. A oggi, l’Intelligenza artificiale viene già
adottata in campo militare (spesso occultata dietro la più rassicurante
dicitura dual-use), per la fabbricazione di autovetture autonome, la
gestione del traffico così come nella conversione delle «smart city» e
nella sanità, dove trova impiego nelle pre-diagnosi, scansioni TC,
organizzazione delle cartelle cliniche e nel trasporto degli strumenti
in sala operatoria.
Declinata in maniera più creativa, serve a
testare la lealtà dei funzionari con programmi di realtà virtuali;
combattere gli sprechi centellinando la carta igienica nei bagni grazie
al riconoscimento facciale; monitorare il grado di attenzione degli
studenti in classe attraverso l’espressione del viso; migliorare il
rendimento dei lavoratori per mezzo dispositivi wireless in caschi e
berretti capaci di controllare costantemente le onde cerebrali di chi li
indossa.
Secondo il Financial Times, ormai il 10% dei contenuti
caricati su iQiyi, il Netflix cinese, viene rimosso in automatico dagli
algoritmi senza bisogno dell’intervento di censori in carne ed ossa.
Tutto
questo è reso possibile dalla gigantesca mole di dati generata dagli
oltre 770 milioni di netizen e dal crescente controllo dello Stato sulle
informazioni grazie alla controversa partnership con i colossi
dell’hi-tech. Per Feng Xiang, docente di legge presso la Tsinghua
University, il coinvolgimento del governo è necessario per impedire che
la nascita di un «capitalismo digitale» – dominato da un «oligopolio di
supericchi» – sfoci in automazione selvaggia e conseguenti licenziamenti
di massa. L’altra faccia della medaglia, tuttavia, è il controllo
orwelliano dello spazio on e offline. Di pochi giorni fa la notizia
della partecipazione di Huawei nell’apertura di un laboratorio per la
«digitalizzazione della sicurezza pubblica» a Urumqi, capoluogo del
Xinjiang.
C’è chi considera la regione autonoma laboratorio per la
formulazione di politiche in futuro estendibili al resto del paese. Di
più. Sfruttando la Belt and Road, la cintura economica tra Asia, Europa
ed Africa, il «modello Xinjiang» rischia – nel bene e nel male – di
farsi strada oltreconfine attraverso la cosiddetta nuova via della seta.
Ad aprile, Cloudwalk, società con sede nel Guangdong, ha siglato
un’intesa con il governo dello Zimbabwe per la realizzazione di un
progetto di «sorveglianza intelligente», noto come Eagle Eye, debutto
ufficiale dell’AI «made in China» nel continente africano. Come scrive
il giornalista zimbabwiano Farai Mudzingwa, «come sempre, quando viene
introdotto uno strumento di sorveglianza, dobbiamo chiederci se questo
possa essere usato per scopi malvagi. In un paese come il nostro, dove
nel corso degli anni si sono verificate molteplici violazioni dei
diritti umani, temo sinceramente che la tecnologia non venga
effettivamente utilizzata per introdurre un miglioramento».