il manifesto 30.5.18
La «nuova era» della Cina punta al nostro immaginario
Cina.
Investimenti e «progetti pilota» stanno radicalmente cambiando la
società cinese. E se la science fiction locale interpreta le mutazioni
antropologiche, nella vita vera aumenta il rischio di «digital divide»
di Simone Pieranni
C’è
un tema specifico, dirimente per il nostro futuro, che ha a che fare
con la società della conoscenza, l’evoluzione tecnologica, il lavoro in
una nuova epoca di automazione e conflitti globali. C’è poi un piano
puramente immaginifico che la Cina – apparentemente così diversa e
distante per i nostri occhi occidentali – sta scavando da tempo e con
costanza.
In modo silenzioso, impercettibile, il modello cinese,
un’economia pianificata ma inserita in un contesto globale e guidato da
un partito unico, è apprezzato. Basti pensare alle sue declinazioni –
politicamente parlando – con paesi più vicini alla nostra cultura, che
pur mantenendo un’attrezzatura «democratica» fanno delle elezioni e del
bilanciamento dei poteri degli obblighi necessari, ma risolti con
estrema determinazione: si tratta di quelle che vengono chiamate le
«democrazie illiberali».
Pechino nel corso dei tempi, e complice
l’ascesa del confusionario Trump, ha guadagnato terreno proprio nella
nostra immagine: ne tolleriamo ormai le storture, sottolineandone però i
pregi, la lungimiranza. Ora immaginiamo che questo paese, la Cina,
diventi anche leader nello sviluppo di quella scienza che avvicina le
macchine all’uomo; e che questa scienza vada a sommarsi con un’altra,
l’analisi millimetrica dei dati, il loro incorporamento in un unico
gigantesco database. Se fosse possibile, potremmo avere delle telecamere
talmente precise e sofisticate, in grado di riconoscere dal volto ogni
persona e agganciarci ogni tipo di dato possa essere utile. In quel modo
potremmo trovarci davanti a un sistema che potrebbe essere usato dalla
polizia per «predire» dei crimini. Tutto questo è già ampiamente nel
nostro immaginario, letterario e cinematogfrafico. In Cina, però, tutto
questo esiste realmente, è già quotidianità per i suoi cittadini. I
modelli predittivi sono già usati dalla polizia della regione cinese del
Xinjiang, così come le prove fornite dall’Intelligenza artificiale sono
già da considerarsi valide in alcuni palazzi di giustizia cinese.
Si
dice che in Cina, lo ricorda Mei Fong, premio Pulitzer del 2007 e
autrice di «Figlio Unico» (Carbonio editore), ogni vita valga come
quella dei cani: un anno significa sette anni; questo perché i
cambiamenti e le evoluzioni cinesi sono rapidissime, fenomeni capaci di
sradicare precedenti eventi come niente fosse.
In poco più di 40
anni – dalle Riforme a oggi – il paese ha sollevato dalla povertà oltre
300 milioni di persone, è cresciuto a ritmi vertiginosi, perfino al 14
per cento a metà degli anni Zero. Fino al 2008 la Cina era considerata
quasi esclusivamente per le sue caratteristiche di «fabbrica del mondo»
grazie alla sua economia basata sulla manifattura e sulle esportazioni.
Nel 2008, dunque, un’altra incredibile svolta: la crisi occidentale
comportò la diminuzione degli ordini e così Pechino si vide costretta a
mutare il proprio modello, spingendo tutto sulla qualità e sulla
creazione di un vasto mercato interno.
Nel frattempo la Cina
cambia ancora: il censimento del 2011 stabilisce per la prima volta una
maggioranza di popolazione urbana; la trasformazione era compiuta. Nel
2012 diventa segretario del Partito comunista Xi Jinping, nel 2013 è
nominato presidente della Repubblica popolare. La Cina imprima una nuova
svolta: viene lanciato il progetto «Made in China 2025» un nuovo piano
industriale che punta tutto su Big Data, Intelligenza artificiale,
robotica e in generale sugli investimenti nelle nuove tecnologie. Pur
nelle sue contraddizioni, la Cina si proietta nel futuro con
l’intenzione di diventare la numero uno al mondo per quanto riguarda
proprio l’Intelligenza artificiale. E con questa mossa, forse senza
neanche pensarci, finisce per essere «interessante» o vicina, davvero,
anche ai nostri occhi. Nello specifico, esistono vari documenti che
«sistematizzano» questa volontà di Pechino: il primo documento nel quale
si fa un esplicito riferimento all’Intelligenza artificiale è il
«Tredicesimo piano quinquennale per lo sviluppo strategico industriale
cinese». In esso si chiarisce che tra i 69 impegni principali del
periodo tra il 2016 e il 2020 un ruolo rilevante sarà dato proprio
all’Intelligenza artificiale.
C’è un secondo punto fermo, chiamato
«Internet Plus», una specie di piano triennale – che dovrebbe vedere la
propria realizzazione finale proprio nel 2018: si tratta di un trattato
specifico sull’Intelligenza artificale: lo scopo è potenziare
l’industria dell’Intelligenza artificiale in un motore capace di
produrre centinaia di miliardi di yuan. Lo scopo del piano è portare la
Cina a diventare una potenza digitale.
Il terzo documento è il
Piano per lo sviluppo dell’industria robotica (2016-2020). In questo
caso siamo di fronte a obiettivi ben precisi: lo scopo è creare entro il
2020 un sistema in grado di produrre 100mila robot industriali
all’anno, portando la Cina al primato mondiale nel settore.
Il
quarto documento si chiama proprio Intelligenza artificiale 2.0 ed è
affiancato da un quinto piano dal titolo Sviluppo di una nuova
generazione di industrie per l’intelligenza artificiale. Naturalmente la
Cina prevede parecchi investimenti e ritorni in piani economici che ad
ora arrivano fino al 2030. Lo scopo finale – naturalmente – è superare
gli Stati uniti.
Il peso della Cina in questo mondo comincia a
farsi sentire, oggi è il secondo investitore al mondo nel settore, dopo
gli Usa. A Washington lo sanno bene: l’Association for the Advancement
of Artificial Intelligence, associazione americana, per fare un esempio,
l’anno scorso ha inrviato il proprio meeting mondiale, perché cadeva
negli stessi giorni del capodanno cinese. Gli organizzatori non volevano
rischiare: cambiarono data per avere tra i relatori proprio i cinesi.
Gli
Usa rimangono ancora al primo posto in termini di investimenti e
ritorno economico dei progetti legati all’Intelligenza artificiale, ma
Pechino sta freneticamente correndo contro il tempo e non senza
risultati. Nel marzo del 2017 la dirigenza del paese ha rilasciato un
«piano per lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale» a seguito di una
Assemblea nazionale che ha visto raccogliere la sfida anche dal premier
Li Keqiang.
Dal fondatore di Baidu, il più importante motore di
ricerca cinese, fino al proprietario di Xiaomi, per arrivare al
fondatore di Geely Automobile che ha rilevato la Volvo: si tratta di
persone che hanno partecipato anche alle «due sessioni» a Pechino,
l’appuntamento legislativo annuale del gigante asiatico. In quella sede
istituzionale hanno provato a spingere sull’acceleratore, perché possano
arrivare e al più presto fondi per la ricerca e l’applicazione di
modelli di intelligenza artificiale.
Come sostenuto da Lei, membro
dell’Assemblea nazionale, al quotidiano di Hong Kong South China
Morning Post «al contrario di altre rivoluzioni tecnologiche quella
relativa all’intelligenza artificiale può davvero traghettare la Cina
alla leadership nel mondo della tecnologia». Da segnalare poi che non
pochi accenni sono stati fatti riguardo l’impatto che la «AI» potrà
avere sui sistemi di sicurezza locali e nazionali; una sottolineatura
particolarmente gradita alla leadership cinese, tenendo conto che gli
Usa si sono già mossi per evitare investimenti di Pechino in materia di
sicurezza nella Silicon Valley.
Dopo l’approvazione di tutti gli
spunti relativi all’importanza della «AI», specie grazie alla mole di
Big Data che le aziende cinesi collezionano attraverso le proprie
attività «consumer», sono arrivati anche i soldi.
Solo l’anno
scorso la Cina avrebbe fomentato la ricerca con almeno 2,6 miliardi di
dollari. Ma non è sufficiente, perché gli Usa ne avrebbero investito ben
17. Secondo una ricerca Pwc, entro il 2030 lo sviluppo dell’«AI»
potrebbe incidere in modo significativo sul prodotto interno lordo del
paese, grazie all’incremento della produttività, con la robotica, e
all’aumento dei consumi.
Date queste premesse, e in attesa dei
primi progetti cinesi capaci di costituire una vera e propria novità
capace di uccidere momentaneamente il mercato, il mondo del lavoro e
quello della finanza (in Cina come spesso accade di fronte a
investimenti rilevanti da parte dello Stato si parla già di «bolla»)
sono già intaccati da questa «rivoluzione». L’uso di robot e di sistemi
automatizzati sta già permettendo a molte fabbriche di sostituire i
lavoratori, o almeno una parte di essi, risparmiando in costi e
problematiche di natura umana (in alcune zone oggi un operaio cinese
guadagna quanto un operaio in Brasile) e aumentando la produttività. E
proprio in relazione al mondo del lavoro, alcuni proprietari di aziende
che si sono convertiti alla robotica, spiegano la decisione adducendo
l’ampio turn over dei lavoratori cinesi. Si tratta di un caso classico:
in Cina i lavoratori che operano nell’ambito delle mansioni più modeste
hanno – giustamente – poca fedeltà: sono sempre alla ricerca di più
soldi e migliori condizioni (soprattutto per quanto riguarda
straordinari, malattie e infortuni). Ma dato che il costo del lavoro in
Cina è ormai molto più alto rispetto ai tempi della «fabbrica del
mondo», i padroni, lo stato o i privati, sono passati alle contromisure.
In alcune aziende i robot sono già utilizzati nello smistamento di
materiali all’interno di magazzini. Come si ebbe a dire quando Foxconn
annunciò l’acquisto di un milione di robot (settore nel quale la Cina è
ormai grande produttore) «i robot, al contrario dei lavoratori, non
protestano e non si ammalano».
A cosa porterà questa spinta
governativa? Secondo alcuni osservatori a nuove e inquietanti
diseguaglianze nella società cinese. Il digital divide sarà ancora più
grande e comporterà una nuova divisione in seno alla società.
Allo
stesso tempo, però, tutto questo muterà per sempre il paese,
avvicinandolo al nostro immaginario. È diventata nota la somiglianza del
sistema cinese dei «crediti sociali» – idea che mette insieme AI, Big
data, sorveglianza, controlli fiscali e giudiziari – con la puntata di
Black Mirror, la popolare serie distopica prodotta da Netflix e
intitolata «Nosedive». In quell’episodio il «punteggio sociale» di una
persona, dato dall’interazione «social», determina il destino economico,
lavorativo dei cittadini. In Cina stanno pensando a qualcosa di simile:
allora a questo punto è giusto porsi una domanda dirimente. Se tutta
questa ricchezza di dati che può arrivare dall’Intelligenza artificiale è
in mano a uno stato autoritario, o simil tale, anziché ai privati,
quanto l’avanzamento delle tecnologie sarà spinto dalla volontà di
migliorare le condizioni di vita della popolazione e quanto invece sarà
determinato dalla volontà di controllarlo?
Si tratta di una
domanda che non va rivolta solo a Pechino, naturalmente; ma il tipo di
società, quella cinese, nella quale si iscrivono queste «novità»,
costituisce una valida cartina di tornasole.
I cinesi dal canto
loro sembrano osservare con attenzione quanto succede. Ci sono anche
alcuni segnali importanti: esiste al momento in Cina una «new wave» di
giovani scrittori di fantascienza il cui fulcro poetico è proprio
l’indagine dell’impatto dell’AI e del modo di gestirla da parte del
governo cinese, sulla popolazione. Non si tratta sempre di distopie: in
alcuni casi la società prospettata da questi scrittori piega le
tecnologie e i meccanismi di controllo sociale a un miglioramento delle
condizioni di vista (come nel caso di un racconto nel quale si prevede
l’esistenza di «robot confuciani» capaci di regalare una seconda vita
alle persone anziane del continente cinese.
Naturalmente esistono
esempi reali che ci raccontano un’altra storia: se la Cina è uno Stato
dove la governance è sempre più associata al controllo sociale, a
Pechino hanno pensato che – tutto sommato – al controllo sociale si
possa venire «educati». Pechino spiegherà al mondo che l’obiettivo di
certe «sperimentazioni» nulla è se non il miglioramento delle condizioni
di vita. Sappiamo bene, però, che questi strumenti sono ambiti (e lo
sono anche in Occidente di sicuro) proprio perché consentono un
controllo sempre più sofisticato dei comportamenti attuali; e con
elaborate e sofisticate tecniche si può anche arrivare ad analisi
predittive: avere una camera puntata per tutto il tempo passato – ad
esempio – a scuola abituerà i cinesi a vivere fin da piccoli sottoposti a
un controllo e a un monitoraggio costante dei propri comportamenti. Si
tratta di qualcosa che esiste già ad Hangzhou, in Cina.