il manifesto 30.5.18
La guida pastorale del nuovo Pcc di Xi
Potenze
artificiali. Siamo ormai di fronte a un modello funzionale di
capitalismo statale e neoliberista basato sull’autoritarismo
di Benedetto Vecchi
Senza
scomodare i classici dell’economia politica (tra i quali va annoverato,
tra gli italiani, lo studio di Giovanni Arrighi Adam Smith a Pechino,
Feltrinelli) e ignorando il valore propagandista dei vari dirigenti
cinesi, la Cina segnala una variante del capitalismo neoliberista ma
dove lo stato-nazione rivendica un ruolo «pastorale» nel governare la
società e il regime di accumulazione capitalista. Siamo cioè di fronte a
una variazione del modello dominante di capitalismo che ha ambizioni
egemoniche e che viene guardato con interesse da paesi emergenti nella
globalizzazione, come l’India, il Sudafrica, il Brasile. Realtà
nazionali che non vogliono importare passivamente nessun modello
preconfezionato, ma che si apprestato a «tradurre» localmente
dispositivi politici e economici che altrove hanno funzionato. Lo stesso
cioè di quello che sta facendo la Cina rispetto al modello
anglosassone. È la vecchia questione della compresenza di modelli
diversi di accumulazione capitalista. La crisi del 2007-2008 ha messo in
evidenza che nella globalizzazione economica è in azione un doppio
movimento: omogenità del capitalismo – non può esistere un fuori ad esso
– e allo stesso tempo, differenziazione dei modelli, in un continuo
adattamento locale del modello dominante. Temi che sono tutti discussi a
livello economico e nei centri di potere che «contano», ma che hanno un
riflesso pallido, al limite dell’insignificante nella «provincia
italiana».
Se si articolano meglio le astrazioni reali operanti in
questi anni di crisi, il discorso diventa ancora più evidente. Il caso
dei progetti cinesi sull’Intelligenza artificiale è esemplificativo
dell’emergere di un modello sociale, politico e economico che vuol
esercitare un potere globale nella globalizzazione. La Cina ha tre
imprese di eccellenza che da anni investono in software che utilizzano
tecniche e modelli derivati dalla ricerca sull’intelligenza artificiale.
Sono
il motore di ricerca Baidu, la società di commercio Alibaba (che fa
molte altre cose) e WeChat (ibrido tra Facebook e Twitter e molto di
più) che negli anni hanno fatto una politica di catch up, cioè di
reperimento di tecnologie e software sul mercato.
È stato l’anno
nel quale il presidente Xi Jinping ha indicato nell’Intelligenza
artificiale il settore strategico dove la Cina deve raggiungere una
posizione egemone nel mondo intero. Narra la leggenda che
l’accelerazione sia stato voluta dopo che era stata diffusa la notizia
che Google, attraverso il suo Deep Mind (un insieme di hardware e
soprattutto di software) aveva battuto due maestri di Go, il popolare
gioco cinese di strategia da tavolo.
Finora tutti i tentativi
della macchine di battere gli umani erano falliti. L’annuncio che una
macchina aveva vinto ha costituito uno spartiacque nell’Intelligenza
artificiale, assegnando al machine learning e ai Big data il palmares
dell’Intelligenza artificiale. Per i cinesi, invece, ha costituito
l’espediente retorico usato per mettere ordine a piani di ricerca e
sviluppo attorno alla big technology.
I programmi di intervento
statale nella tecnologia prevedono investimenti in ricerca e sviluppo,
sostegno alle imprese, una politica di circolazione in tutto il settore
economico delle conoscenze scientifiche acquisite e una normativa chiara
sulla proprietà intellettuale. Su questo ultimo aspetto, la Cina, con
l’entrata nel Wto, ha acquisito i trattati internazionale sulla
proprietà internazionale. Per gli altri aspetti, nell’ordine: entro il
2020 la Cina investirà oltre 150 miliardi di dollari per formare
ingegneri, fisici, matematici, computer scientists.
Altri 120
miliardi li investirà per sviluppare software, microprocessori capaci di
far funzionare quei software. Il progetto avrà un coordinamento presso
un National council, mentre i governi regionali e locali avranno il
compito di monitorare e sorvegliare l’avanzamento del progetto laddove
sono coinvolte imprese e università locali. Nel progetto sono previsti
piani di finanziamento anche per le start up che si formeranno (1,5
miliardi all’anno), anche se non sono esclusi piani di reperimento fondi
attraverso forme inedite di crowdsourcing basate sul partnership tra
pubblico e privato. Infine una politica di rientro dei «cervelli» cinesi
che hanno frequentato università americane o di un altro paese e
progammi capillari di insegnamento dell’inglese, lingua ormai madre
nella ricerca e sviluppo.
Un progetto ambizioso dunque. I cinesi
sono convinti di recuperare il terreno perduto. Secondo gli standard
internazionali, l’egemonia degli Stati uniti nell’intelligenza
artificiale è indiscutibile. Secondo una speciale percentuale, gli Usa
hanno il 33 per cento della performance globale, mentre la Cina il 17
per cento, il resto spetta a Europa (che ha lanciato un progetto
comunitario che coinvolge i paesi dell’Unione europea), l’Inghilterra e
il Giappone.
Sta di fatto – però – che quella della Cina si
presenta come un modello inedito di «stato sviluppista» che coniuga
libero mercato e ruolo protagonista di indirizzo da parte dello
stato-nazione.
L’economista Mariana Mazzucato, considerata una
delle migliori analiste del rapporto tra politica e economia nella
ricerca scientifica, ritiene le scelte di Pechino lungimiranti, capace
di costruire una egemonia economica nel corsa di un decennio. È questa
la grande convergenza che la crisi del 2008 ha avviato: uno stato
nazione rinnovato nelle sue funzioni e un’economia di mercato basata
sull’intreccio tra materiale e immateriale con la predominanza di
quest’ultimo. Tenuto conto che in questo frangente la democrazia è messa
in secondo piano. Insomma, più che un socialismo di mercato, la Cina
rappresenta un modello di capitalismo neoliberista basato
sull’autoritarismo. Con una particolarità. A livello globale la Cina ama
il soft power all’ostentazione di portaerei o missili
intercontinentali. Almeno per ora.