il manifesto 26.5.18
La critica all’Europa, non solo ombre nel contratto Lega-M5S
L'intervento.
L’allarme rosso generalizzato su Savona è il segnale che si è toccato
un nodo decisivo. Si mette in discussione l’assetto dell’eurozona e i
danni causati alla democrazia
di Geminello Preterossi
ordinario di Filosofia del diritto e di Storia delle dottrine politiche all’Università di Salerno
Per
inciso, dire ciò non significa negare che di politiche serie per la
sicurezza e la legalità ci sia bisogno, così come che sia necessaria una
gestione politica della questione dell’immigrazione, che non va da sé, e
implica soprattutto politiche sociali di sostegno, inserimento e
integrazione, per disinnescare la bomba sociale delle periferie-ghetto e
delle guerre tra poveri.
Ancora: un intervento sulle tasse è
certamente giusto e augurabile per quello che riguarda i salari
medio-bassi, ma la proposta del “contratto” premia i redditi alti,
rovesciando un principio fondamentale, quello della progressività,
fissato nella Costituzione (di cui giustamente si vuole affermare il
primato, anche sui trattati europei, ma evidentemente non su questo
punto).
Così come si potrebbe proseguire nello specifico indicando
omissioni (una su tutte, la reintroduzione dell’articolo 18), qualche
genericità, e alcune proposte condivisibili come quella sull’acqua
pubblica.
Ma ci sono due punti, nell’accordo di governo che si
profila, che sono da considerarsi dirimenti, e in senso positivo: la
messa in discussione per davvero del vincolo esterno (e nella prima
bozza, che tanto scandalo ha suscitato, la cosa era detta in maniera
ancora più chiara e netta); un intervento significativo sulla nuova
questione sociale, contro disoccupazione e impoverimento, sul cui
profilo complessivo si può discutere, ma che acquisisce un’indubbia
valenza materiale e simbolica, attraverso l’introduzione del reddito di
cittadinanza
, investimenti pubblici “keynesiani” e la correzione
della legge Fornero (legge che – lo vogliamo dire? – è stato un atto di
violenza tecnocratica, oltre che di imperizia, considerando il
disastro-esodati; poiché è un cavallo di battaglia di Salvini, dobbiamo
far finta di niente e dire che va bene com’è?).
Mi colpisce molto,
ma è assai rivelatore dei poteri antidemocratici che si sono messi in
moto e della loro presa sul sistema mediatico, che ci si scandalizzi per
l’eventuale nomina di Paolo Savona a ministro dell’Economia. Forse
questo allarme rosso generalizzato è il segnale che si è toccato un nodo
decisivo, dopo anni di cloroformio.
In realtà, ciò che dovrebbe
far riflettere è che certe verità fuori dal coro sull’eurozona,
fondamentali per il futuro economico e sociale del nostro Paese, le dica
con chiarezza un liberaldemocratico come Savona, dal pensiero autonomo,
e non la sinistra (a parte alcuni grilli parlanti, che da tempo hanno
cercato, inascoltati, di richiamare l’attenzione dei passeggeri del
Titanic).
Non sarà dovuto, questo naufragio della sinistra, anche
alla sua adesione cieca all’euro? E non è stato velleitario e irrealista
limitarsi a vagheggiare un’altra Europa, senza porsi realisticamente il
problema dei rapporti di forza, senza ragionare su un’alternativa,
qualora la Germania, come credo, non accetti quell’unione politica della
solidarietà – cioè dei trasferimenti interni, della condivisione del
rischio-debito, degli eurobond – che sarebbe necessaria per sostenere
l’impalcatura dell’euro senza costi sociali e democratici? Davvero
l’idea di avere un “piano B” (come peraltro ha sostenuto anche
Mélenchon) è così sbagliata? Eppure l’esperienza di Tsipras dovrebbe
aver insegnato qualcosa anche a noi.
Le elezioni politiche
italiane hanno confermato che la stabilizzazione (temporanea e più
apparente che reale) dell’eurozona produce la destabilizzazione dei
sistemi politici tradizionali: è il prezzo inevitabile delle politiche
antisociali che la difesa fideistica dell’euro ha imposto e che le forze
di sistema hanno assunto come un dogma.
Guarda caso, negli ultimi
tempi è tutto un profluvio di saggi “contro la democrazia”, i cui
autori sono campioni dell’establishment neoliberale occidentale. Non
sarà invece il caso di capire che certe parole d’ordine – sovranità
popolare, sovranità dello Stato, critica del globalismo, difesa dei ceti
popolari contro élites fallimentari e ciniche – debbono essere non
rigettate, ma recuperate in chiave “costituzionale”? Certo, è
un’operazione complessa, perché arriviamo tardi, e perché di quelle
parole d’ordine si è appropriata, distorcendole, la destra. Ma riuscire a
fare operazione culturali complesse, coraggiose e non equivoche, è la
cifra della grande politica, quella che riesce ad aver presa sulla
realtà.
Oggi la partita si gioca nel campo populista. Fuori c’è la
spoliticizzazione (quella dell’elitismo tecnocratico e dell’europeismo
di maniera, scollegato dalla realtà). L’obiettivo che abbiamo davanti
(immane) dovrebbe essere, a mio avviso, quello di usare tatticamente un
nuovo “populismo di sinistra” per rilanciare il conflitto sociale e una
lotta egemonica.
Per fare questo, però, non serve demonizzare, ma
distinguere. E soprattutto riconoscere coraggiosamente l’obiettivo
rilievo sociale e politico di certe proposte (come quella del reddito di
cittadinanza e del recupero di sovranità democratica contro l’establishment
eurista), che hanno intercettato delle domande popolari che avrebbero
potuto e dovuto essere raccolte da una sinistra di popolo, se solo ci
fosse stata. E lasciamo le giaculatorie pro-euro ai corifei dei mercati.