giovedì 24 maggio 2018

il manifesto 24.5.18
L’ipocrisia della «legalità» contro la Casa internazionale delle donne
Roma e non solo. L’autonomia di queste imprese politico-culturali dalla governance delle istituzioni e dei mercati va difesa a oltranza. In tutta Italia, dopo gli sgomberi dei sindaci è sempre seguito un deserto di iniziative che a stento ha nascosto un vero e proprio furto proprietario
di Marco Bascetta


L’attacco sferrato dalla giunta pentastellata di Roma contro la Casa internazionale delle donne è il segnale inequivocabile di che cosa ci dobbiamo attendere: una guerra senza quartiere contro ogni forma di autogestione e autorganizzazione.
Questo si cela dietro la bandiera della «legalità» che costituisce il collante più forte tra le due forze politiche che si accingono a governare il paese.
Non è un caso che il capitolo dedicato all’ordine pubblico, alla repressione, all’inasprimento delle pene e allo smantellamento di ogni cultura garantista rappresenti la parte più concreta e dettagliata del contratto di governo.
IL PRIMO PASSO consiste nel ricondurre alla categoria burocratico-amministrativa di «servizi alla cittadinanza» esperienze e pratiche politiche che non si limitano a soddisfare in forma sussidiaria una domanda esistente, ma creano e alimentano desideri e potenzialità fino a quel momento inespresse.
E per farlo non possono che forzare il quadro delle procedure legali stabilite.
Non vi è, insomma, «bando» adeguato a svolgere una simile funzione che solo la storia materiale dei movimenti è in grado di generare incidendo per via diretta sui rapporti sociali dati. Non è certo compilando moduli e stilando preventivi «convenienti» che si possono introdurre nuove forme della politica e della socialità.
IL SECONDO PASSO, in piena sintonia con l’ortodossia liberista, consiste nel sottomettere al calcolo costi/benefici e dunque al mercato quella produzione di relazioni e ricchezze extraeconomiche che, per definizione, gli si dovrebbero sottrarre. Il tema degli «sprechi» accomuna singolarmente le vecchie vestali dell’austerità e i nuovi moralizzatori della vita pubblica.
Due elementi sottendono questo processo di normalizzazione.
Il primo consiste nell’evidente volontà di canalizzare e controllare attraverso precise procedure di partecipazione decise dall’alto bisogni e conflittualità che attraversano il corpo sociale, in una versione caricaturale della democrazia diretta on e off line.
Il secondo elemento è rappresentato da una sorta di formalismo giuridico, privato però del rigore logico e delle aspirazioni universalistiche che gli sono proprie, e consegnato paradossalmente a quell’arbitrio ideologico dal quale la «dottrina pura del diritto» aveva la pretesa di difenderci.
In buona sostanza ogni elemento di trasformazione sociale finisce sottoposto a una politica dirigista che ben si accompagna con la ritrovata passione per lo stato nazionale.
Tutto quello che ricade al di fuori di questi criteri in quanto prodotto da una storia di culture, conflitti e autonomie estranee alle trafile burocratico-amministrative è dichiarato illegale, nemico, da cancellare.
Bisognava pur aspettarsi che le minacce ripetutamente rivolte alle realtà occupate e autogestite presto sarebbero state estese, nelle parole e nei fatti, anche a chi si era conquistato una qualche patente di riconoscimento politico e istituzionale.
Gli sgomberi, nei quali le amministrazioni del Pd da Roma a Bologna non hanno mancato di mettersi in luce (salvo la vigliaccheria dei sindaci che non sapevano, non volevano o non potevano farci nulla) sono la conseguenza pratica e militare dell’ideologia «legalitaristica» e delle regole di mercato che la ispirano.
AGLI SGOMBERI NON SEGUE altro che il ritorno al silenzio e all’abbandono dei luoghi che gli occupanti avevano fatto rivivere e aperto alla città. Due soli esempi, tra tanti possibili, per restare nella capitale: il teatro Valle e il cinema America.
Tra finte trattative, false promesse, fantasmatici progetti di restauro e riqualificazione, gli sgomberi non sono stati altro, possiamo ben dirlo a distanza di anni, che la riaffermazione astratta del principio di proprietà libero da ogni riferimento all’utilità sociale o anche solo al semplice valore d’uso.
Da queste vicende converrebbe trarre qualche insegnamento.
Gli spazi autogestiti devono essere difesi materialmente e in prima persona perché rappresentano un punto di rottura tra logiche confliggenti.
Quella di una storia politica autonoma generatrice di idee e relazioni proprie e quella dei «servizi» messi a bando, o della concessione amministrativa, come se si trattasse di lucrosi stabilimenti balneari.
Per la medesima ragione conduce a sicura disfatta il carosello dei distinguo, la competizione sui meriti culturali e sulla rispettiva utilità sociale, alla rincorsa di una amnistia normalizzatrice. Laddove la difesa del proprio prevale su quella del comune principio di autorganizzazione.
PER LORO NATURA QUESTE imprese politico-culturali devono sapersi però rinnovare, non certo nel senso di una razionalizzazione concordata tra governance e mercato, ma in quello di una riformulazione della propria autonomia attraverso il mutare dei contesti, riaffermando le ragioni di una rottura e di una diversità capaci di mettere in campo nuove idee e giovani energie.
Con le ruspe è problematico discutere, ma non mancano gli strumenti per spaventare chi le guida e fargli cambiare strada.