giovedì 24 maggio 2018

il manifesto 24.5.18
L’ipocrisia della «legalità» contro la Casa internazionale delle donne
Roma e non solo. L’autonomia di queste imprese politico-culturali dalla governance delle istituzioni e dei mercati va difesa a oltranza. In tutta Italia, dopo gli sgomberi dei sindaci è sempre seguito un deserto di iniziative che a stento ha nascosto un vero e proprio furto proprietario
di Marco Bascetta


L’attacco sferrato dalla giunta pentastellata di Roma contro la Casa internazionale delle donne è il segnale inequivocabile di che cosa ci dobbiamo attendere: una guerra senza quartiere contro ogni forma di autogestione e autorganizzazione.
Questo si cela dietro la bandiera della «legalità» che costituisce il collante più forte tra le due forze politiche che si accingono a governare il paese.
Non è un caso che il capitolo dedicato all’ordine pubblico, alla repressione, all’inasprimento delle pene e allo smantellamento di ogni cultura garantista rappresenti la parte più concreta e dettagliata del contratto di governo.
IL PRIMO PASSO consiste nel ricondurre alla categoria burocratico-amministrativa di «servizi alla cittadinanza» esperienze e pratiche politiche che non si limitano a soddisfare in forma sussidiaria una domanda esistente, ma creano e alimentano desideri e potenzialità fino a quel momento inespresse.
E per farlo non possono che forzare il quadro delle procedure legali stabilite.
Non vi è, insomma, «bando» adeguato a svolgere una simile funzione che solo la storia materiale dei movimenti è in grado di generare incidendo per via diretta sui rapporti sociali dati. Non è certo compilando moduli e stilando preventivi «convenienti» che si possono introdurre nuove forme della politica e della socialità.
IL SECONDO PASSO, in piena sintonia con l’ortodossia liberista, consiste nel sottomettere al calcolo costi/benefici e dunque al mercato quella produzione di relazioni e ricchezze extraeconomiche che, per definizione, gli si dovrebbero sottrarre. Il tema degli «sprechi» accomuna singolarmente le vecchie vestali dell’austerità e i nuovi moralizzatori della vita pubblica.
Due elementi sottendono questo processo di normalizzazione.
Il primo consiste nell’evidente volontà di canalizzare e controllare attraverso precise procedure di partecipazione decise dall’alto bisogni e conflittualità che attraversano il corpo sociale, in una versione caricaturale della democrazia diretta on e off line.
Il secondo elemento è rappresentato da una sorta di formalismo giuridico, privato però del rigore logico e delle aspirazioni universalistiche che gli sono proprie, e consegnato paradossalmente a quell’arbitrio ideologico dal quale la «dottrina pura del diritto» aveva la pretesa di difenderci.
In buona sostanza ogni elemento di trasformazione sociale finisce sottoposto a una politica dirigista che ben si accompagna con la ritrovata passione per lo stato nazionale.
Tutto quello che ricade al di fuori di questi criteri in quanto prodotto da una storia di culture, conflitti e autonomie estranee alle trafile burocratico-amministrative è dichiarato illegale, nemico, da cancellare.
Bisognava pur aspettarsi che le minacce ripetutamente rivolte alle realtà occupate e autogestite presto sarebbero state estese, nelle parole e nei fatti, anche a chi si era conquistato una qualche patente di riconoscimento politico e istituzionale.
Gli sgomberi, nei quali le amministrazioni del Pd da Roma a Bologna non hanno mancato di mettersi in luce (salvo la vigliaccheria dei sindaci che non sapevano, non volevano o non potevano farci nulla) sono la conseguenza pratica e militare dell’ideologia «legalitaristica» e delle regole di mercato che la ispirano.
AGLI SGOMBERI NON SEGUE altro che il ritorno al silenzio e all’abbandono dei luoghi che gli occupanti avevano fatto rivivere e aperto alla città. Due soli esempi, tra tanti possibili, per restare nella capitale: il teatro Valle e il cinema America.
Tra finte trattative, false promesse, fantasmatici progetti di restauro e riqualificazione, gli sgomberi non sono stati altro, possiamo ben dirlo a distanza di anni, che la riaffermazione astratta del principio di proprietà libero da ogni riferimento all’utilità sociale o anche solo al semplice valore d’uso.
Da queste vicende converrebbe trarre qualche insegnamento.
Gli spazi autogestiti devono essere difesi materialmente e in prima persona perché rappresentano un punto di rottura tra logiche confliggenti.
Quella di una storia politica autonoma generatrice di idee e relazioni proprie e quella dei «servizi» messi a bando, o della concessione amministrativa, come se si trattasse di lucrosi stabilimenti balneari.
Per la medesima ragione conduce a sicura disfatta il carosello dei distinguo, la competizione sui meriti culturali e sulla rispettiva utilità sociale, alla rincorsa di una amnistia normalizzatrice. Laddove la difesa del proprio prevale su quella del comune principio di autorganizzazione.
PER LORO NATURA QUESTE imprese politico-culturali devono sapersi però rinnovare, non certo nel senso di una razionalizzazione concordata tra governance e mercato, ma in quello di una riformulazione della propria autonomia attraverso il mutare dei contesti, riaffermando le ragioni di una rottura e di una diversità capaci di mettere in campo nuove idee e giovani energie.
Con le ruspe è problematico discutere, ma non mancano gli strumenti per spaventare chi le guida e fargli cambiare strada.

La Stampa 24.5.18
Torna di moda l’ambizioso Robespierre
di Lucia Annunziata


Con andamento mite, sia pur con un leggerissimo spessore di pronuncia, l’avvocato Giuseppe Conte mette in moto, nel suo discorso di accettazione dell’incarico, la ruota del cambiamento: «Mi propongo di essere l’avvocato difensore del popolo italiano, sono disponibile a farlo senza risparmiarmi». Una breve frase che segna in realtà il giro di una pagina nella storia istituzionale della nazione: «Il contratto su cui si fonda questa esperienza rappresenta in pieno le aspettative di cambiamento degli italiani. Voglio dar vita a un governo dalla parte dei cittadini».
Da Avvocato incaricato Presidente del Consiglio ad Avvocato del Popolo, il clima cambia in un secondo. Giuseppe Conte dà voce alla aspirazione neomoderna della politica, ma la suggestione che lancia ha radici profonde.
«Tutti i cittadini, di qualunque condizione, hanno diritto di aspirare a tutti i gradi di rappresentanza politica. Ogni individuo ha diritto di partecipare alla formulazione della legge cui è sottomesso e all’amministrazione della cosa pubblica che è la sua, altrimenti non è vero che tutti gli uomini sono eguali nei diritti e che ogni uomo è un cittadino». Parole pronunciate il 22 ottobre del 1789 da Maximilien de Robespierre, Avvocato per studi e per aspirazione, Avvocato del popolo per eccellenza. La cui figura continua a serpeggiare nell’Olimpo dove abitano i nuovi dei del Movimento 5 Stelle.
Il distacco tra «governanti» e «governati» è tema antico. L’ossessione della politica, da quando l’uomo ha voluto riunirsi per decidere insieme del proprio destino comune, è stata quella del divario tra i detentori del potere e coloro che ne subiscono la volontà e, forse, gli abusi. Da Sparta, a Roma, gli avvocati del popolo sono stati una forte istituzione, e i più famosi sono di sicuro i Tribuni plebis, il cui ruolo fu così vitale che Cicerone affermò che senza il Tribunato non vi sarebbe stata neppure la Repubblica e la democrazia.
Da allora ad ogni svolta ambiziosa della storia, l’uomo che prende nella sue mani i diritti dei cittadini fa la sua ricomparsa. Soprattutto negli Stati moderni: nella Rivoluzione francese, in età napoleonica e nella Repubblica romana risorgimentale. Compare in Locke, Rousseau ma anche in Lenin.
Nel nominare questo titolo il colto avvocato Conte certamente sapeva quali echi avrebbe lasciato sotto le volte del Palazzo dei Papi sul Colle: è stato l’annuncio di un ribaltamento di ordini. Di cui il giuramento di fedeltà europeista non ha ammorbidito lo strappo.
Ma, appunto, come si legano, se si legano, la fede nell’Europa delle nazioni, e quella di un esercizio diretto della voce del popolo? O, più semplicemente, come sta un avvocato del popolo dentro la pelle di un premier?
Domanda maliziosa ma non oziosa. Il premier, nel senso della Costituzione italiana, è figura tipica della modernità democratica che ha forma rappresentativa. Segna l’accordo e i programmi convergenti di uno o più partiti; è uomo di servizio che opera a quell’incrocio rappresentato dal bene particolare di un partito con il bene generale di tutti i cittadini. Un premier è per definizione negoziatore, equilibratore di interessi, esponente di un accordo che esiste nel tempo e nelle condizioni date; e che per questo è necessariamente deperibile, non rinnovabile. Sicuramente senza eccessivi poteri se non quelli che valgono fino a che vale il voto che lo ha eletto.
Sembra poco, ma è moltissimo. La moderna democrazia lega la rappresentanza dei cittadini alla deperibilità dei politici. L’avvocato del popolo, con tutto il suo vigore da riscatto, è fascinosa figura forte, spesso destinata nella storia a trasformarsi, come abbiamo visto ripetutamente, da difensore dei deboli a oppressori dei molti.
Ovviamente, non è possibile vedere nella mite ed elegante figura che si è recata oggi al Quirinale, nulla di questi pericoli. Nei fatti l’Avvocato Conte se proprio deve ricordare qualcuno, somiglia in realtà più che a Robespierre al suo predecessore Gentiloni. Uomo per eccellenza espressione di mediazione e servizio.
Ma tant’è. Quando nasce un governo, come quello che sta andando oggi al potere in Italia, il cambio è la regola. E nei periodi di cambio è bene cominciare a esercitarsi fin da subito intorno a ogni possibile significato delle parole e dei ruoli.

Corriere 24.5.18
La sindrome da assedio e il difensore del popolo
di Massimo Franco


Il sollievo per la fine delle trattative e la probabile formazione di un governo non possono cancellare la preoccupazione. M5S e Lega hanno il diritto di guidare l’Italia dopo il netto mandato popolare. E infatti, alla fine il Quirinale ha preso atto dell’indicazione anomala del professor Giuseppe Conte come premier. Il problema è capire dove vogliono arrivare i «diarchi» Di Maio e Salvini; e se l’espressione «avvocato difensore del popolo italiano», usata dall’incaricato, preluda a uno strappo antieuropeo.
Ci sono volute due ore di udienza con il capo dello Stato, Sergio Mattarella, per definire i prossimi passaggi e concordare la dichiarazione finale. Conte si è presentato come simbolo di un cambiamento radicale e baluardo di un Paese implicitamente considerato sotto assedio; e come tutore del «contratto» tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini. La loro ipoteca si è percepita chiaramente, al di là delle parole formali di rassicurazione all’Europa, pur significative. Tra l’altro, a impressionare è la rapidità con la quale negli ultimi giorni Di Maio ha rimesso in discussione il profilo europeista e istituzionale che si era faticosamente dato.
Gli avvertimenti grevi scagliati da alcuni esponenti del Movimento al presidente della Repubblica, definito in precedenza dai Cinque Stelle «il nostro jedi», personaggio virtuoso del film di fantascienza Guerre stellari, sono sconcertanti. Sembra quasi che il rispetto verso il Quirinale sia concesso o negato a seconda delle convenienze. Quanto all’Unione Europea, lo scivolamento verso un euroscetticismo aggressivo è stato altrettanto rapido. Il M5S può pure rivendicare di avere stipulato un compromesso a propria somiglianza. Su una questione cruciale come i rapporti con Bruxelles, tuttavia, è apparso subalterno alla Lega.
Probabilmente, più che l’euroscetticismo pesa l’assenza di vere convinzioni. Il trasversalismo è un pregio quando ci sono da raccogliere voti. Al momento delle scelte, però, tende a trasformare chi ne è portatore e beneficiario in una sorta di «lavagna» politica, sulla quale finiscono per scrivere gli altri: in questo caso, Salvini. I «due forni» evocati inizialmente da Di Maio, ritenendo interscambiabile un’alleanza col Pd o con la Lega, sono stati senza volerlo l’espressione di un «movimento-pongo», plasmabile.
È possibile che quando sarà pronta la lista dei ministri alcune apprensioni verranno arginate; che l’innesto di qualche figura rassicurante riequilibri un’operazione destinata ad alimentare i pregiudizi su un’Italia dominata dai «populisti». Il termine è ambiguo e insufficiente a definire lo strappo anche culturale che si sta consumando. Eppure non può essere rimosso: viene usato non solo dagli avversari di Lega e Cinque Stelle, ma anche da suoi ammiratori interessati come l’aspirante demolitore dell’Europa unita, il trumpiano Steve Bannon.
Appartiene a una schiera di guastatori che sognano le istituzioni di Bruxelles piegate ai voleri del nuovo governo di Roma e di quelli dell’Europa dell’Est, riuniti nel «gruppo di Visegrad»: tutti contro l’immigrazione. Ma da una chiusura delle frontiere l’Italia sarebbe colpita, non avvantaggiata. Paesi come Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia sono i primi a essersi opposti in questi anni alla distribuzione delle «quote» di immigrati decise dall’Ue per decongestionare nazioni come la nostra. Il loro interesse nazionale confligge con quello di un’Italia che sarebbe condannata a diventare un imbuto delle migrazioni.
Gli «alleati» dell’Europa orientale indicati da Bannon, Marine Le Pen, Salvini, ce li lasceranno tutti. E il resto dell’Ue, preoccupata e irritata dalle politiche della Terza Repubblica, offrirà ancora meno sponde di prima. È comprensibile l’entusiasmo, perfino l’ebbrezza con la quale i «diarchi» consacrati dal 4 marzo celebrano l’approdo al governo. È un fatto storico del quale vanno orgogliosi. Assistiamo alla presa del potere centrale da parte di una «periferia» alla quale il vecchio sistema ha regalato un’autostrada verso il cuore dell’elettorato e Palazzo Chigi. Di Maio e Salvini volevano governare anche contraddicendo il mantra del premier «eletto dal popolo». Ci sono riusciti.
Soprattutto, stanno dimostrando che non esiste una vera opposizione. Non li può impensierire il centrodestra di Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni, che minaccia scomuniche contro Salvini mentre il voto premia la Lega. Né è un ostacolo un Pd che accompagna la sua lunga agonia con un immobilismo sconcertante. Sembra una replica in formato gigante della «sindrome romana». In Campidoglio, nel giugno del 2016 la grillina Virginia Raggi fu eletta sindaca sulle macerie degli altri partiti. Due anni dopo, un’operazione non molto dissimile si ripete a livello nazionale. Ma la responsabilità non è dei vincitori: semmai, è di chi non ha creato un’alternativa credibile. E ora subisce una «difesa del popolo» che insinua incognite pesanti nel futuro dell’Italia.

Il Sole 24.5.18
La dialettica nella Ue
L’Unione si cambia dall’interno
di Adriana Cerretelli


In tutte le famiglie, anche le migliori, arriva un momento in cui la convivenza per alcuni dei suoi componenti diventa insopportabile, l’ansia di rottura irresistibile: miraggio della liberazione, scorciatoia-miracolo per risolvere tutti i guai.
Per il 55% degli italiani che nel tempo si sono convertiti all'euroscetticismo, che hanno votato i partiti che lo propugnano scommettendo su un Governo che ne esprima le rivendicazioni in casa e fuori, la famiglia europea è all'origine di ogni male e difficoltà del paese: uscirne o comunque imporle un nuovo ordine sarebbe dunque la sola risposta possibile per spezzarne le catene. Davvero?
Come in tutti i ménages in crisi, le colpe vanno divise a metà. Certo, l’Europa arcigna dell’ultimo decennio che impone la sua camicia di forza sui conti pubblici ma dimentica quasi ogni tipo di solidarietà, politica, socio-economica, finanziaria, migratoria, deve solo ringraziare sé stessa per essersi allevata in seno populismi e nazionalismi che ora ne erodono le fondamenta. Da qui al ripudio però ce ne corre: nel mondo di oggi, che è globale, è un lusso proibito, una sorta di suicidio solitario per chi lo cavalcasse.
«L’Italia vince e avanza con l’Europa e dentro l’Europa. Da soli possiamo fare poco di fronte a giganti politici, economici e industriali come Stati Uniti e Cina» ha avvertito ieri Vincenzo Boccia. Invitando a «distinguere la questione italiana, ciò che dipende da noi, da quella europea e senza usare quest’ultima come alibi per non affrontare la prima». Proprio qui sta il punto: le riforme vanno fatte, il debito pubblico ridotto non per fare un favore all’Europa ma perché, ricorda il presidente di Confindustria, ammonta a 2.300 miliardi e pagarne gli interessi ce ne costa 63 all'anno, che saliranno di altri 20 per ogni punto di interesse in più quando verrà meno la politica monetaria espansiva della Bce. Questo non significa che l’Europa non vada cambiata ma «il cambiamento va fatto dall’interno e senza distruggerla». Facendo sentire voce e peso del paese per difenderne gli interessi nazionali. Con metodo e senza distrazioni. In gioco c’è stabilità e dinamismo del sistema bancario italiano, che va alleggerito della zavorra dei crediti deteriorati senza però venir soffocato da regole contabili e requisiti di capitale-capestro a tutto danno del credito alle imprese e della spinta allo sviluppo.
C’è una politica industriale europea che continua a mancare all’appello ma è vitale per dare all’Unione gli stessi strumenti funzionali al recupero di competitività utilizzati da Stati Uniti e Cina. C’è il bilancio europeo 2021-27, oltre 1.100 miliardi in 7 anni, un’occasione da non perdere per finanziare infrastrutture, ricerca, sviluppo e innovazione. E coesione sociale del paese. Risorse preziose quando quelle italiane sono poche ma molti i vincoli anti-deficit sul bilancio nazionale.
Certo il patto di stabilità europeo, l’impegno al pareggio di bilancio blindato nella Costituzione, come quello alla riduzione del debito possono essere percepiti come gabbie troppo strette e quindi inaccettabili. Però li abbiamo sottoscritti come paese e sono validi indipendentemente dai Governi di turno. Più che stracciarli o tentare di rifarli raccogliendo l’improbabile unanimità necessaria, meglio rinegoziarli senza spallate ma con lucido pragmatismo, sfruttandone i margini di flessibilità e approfittando dell’attuale ripresa economica.
Proprio ieri Bruxelles ha distribuito le pagelle dei 19 paesi dell’eurozona: tutti in crescita più o meno forte, tutti con un deficit inferiore al 3%, Francia compresa e con la sola eccezione della Spagna che dovrebbe arrivarci quest’anno. Tutti con debito in discesa.
Nessun altolà immediato all’Italia ma i soliti richiami all’urgenza delle riforme strutturali, giustizia e lotta alla corruzione, più concorrenza nei servizi, politiche attive del lavoro.Taglio del debito e degli Npl, salvaguardia della riforma delle pensioni salvo interventi sulle più alte non sostenute da contributi, meno tasse sul lavoro. Nel 2019 aggiustamento strutturale dello 0,6% per il bilancio. Silenzio a parole (non sulla carta) sullo 0,3 atteso quest’anno.
Constatati i danni prodotti, da almeno tre anni l’Europa ha abbandonato i furori rigoristi per farsi più flessibile e pragmatica. E assomigliare un po’ di più alla “casa comune” che dovrebbe essere, evocata ieri da Boccia. Malgrado abbia molte lacune da colmare e cose da cambiare. Provarci si può però senza esporre l’Italia al rischio instabilità sui mercati e ai devastanti costi che ne deriverebbero per i suoi cittadini.

Repubblica 24.5.18
Le scelte del Pd
Annibale e la sinistra
di Guido Crainz


Dopo prolungate nebbie il profilarsi del governo Lega- M5S fa comprendere in modo ancor più traumatico il baratro che si sta aprendo, nella totale assenza di una sinistra credibile. Di una sinistra capace di ritrovare le proprie ragioni fondative e al tempo stesso di fare i conti con i propri fallimenti. Con il proprio radicale allontanarsi dalle ansie e dai bisogni, dalle esasperazioni e dalle speranze del Paese: cioè da se stessa. Una sinistra capace di misurarsi realmente con il voto del 4 marzo, e con la stessa divaricazione fra Nord e Sud che quel voto ha illuminato di luce cruda. Capace di interrogarsi sulle ragioni della sua inedita irrilevanza — nonostante i pregi che la sua azione di governo ha pur avuto — e al tempo stesso su di una crisi politica, italiana ed europea, che non ha precedenti.
Nulla di tutto questo ha avuto realmente eco in un’Assemblea del Pd di cortissimo respiro, pur se segnalavano anche questo i malumori e le esasperazioni di molti delegati. Eppure le urgenze sono drammatiche, esigerebbero almeno l’idea di un percorso, di un progetto per iniziare ad affrontarle. Esigerebbero cioè un congresso vero: un confronto fra tesi diverse, non necessariamente contrapposte, che raccolga intelligenze ed energie riformatrici interne ed esterne al partito ( o a quel che resta di un partito). Un confronto capace di avviare riflessioni di lunga durata e al tempo stesso di fornire strumenti per contrastare da subito le imminenti “ derive di governo”. Capace di contrapporre contenuti e prospettive agli irresponsabili vincitori del 4 marzo.
Sarebbe l’unico modo per dare un senso alle stesse primarie per il segretario, destinate altrimenti ad essere un ulteriore e forse definitivo momento di logoramento e di dissoluzione. Ogni deviazione da questo percorso potrebbe essere fatale: e nella sua ostinazione a condizionare ancora il partito nonostante l’entità della sconfitta Matteo Renzi è riuscito a superare il suo predecessore.
Eppure Annibale è già dentro le porte: nei primi anni Novanta crollò un sistema dei partiti, oggi sembra inabissarsi sotto i nostri occhi la politica così come l’abbiamo conosciuta, nel suo rapporto fra cittadini, partiti e orizzonti costituzionali.
Nel crollo di allora prese corpo il devastante illusionismo berlusconiano, riproposto ora in forme antiche e nuove ( dalla demolizione del sistema fiscale a vantaggio dei più ricchi sino al “reddito di cittadinanza”) assieme all’esasperazione della “cultura del rancore”. Assieme all’ostentato dilettantismo dei giorni scorsi, con l’esplorazione delle più improbabili quadrature del cerchio: le ha superate tutte la ipotizzata “staffetta”, con «un presidente del Consiglio che scade come una mozzarella», per dirla con Beppe Grillo (ma lo ha detto negli anni Ottanta, si riferiva alla staffetta fra Craxi e De Mita).
Il tutto in un panorama europeo scosso, all’Est e all’Ovest, da differenti ma progressivi assalti agli orizzonti costituzionali e all’idea stessa d’Europa: è possibile che una sinistra possa sopravvivere e rigenerarsi, ritrovare slancio ideale e capacità di convinzione senza interrogarsi a fondo su questi nodi? Senza opporre la propria visione di futuro al tendenziale scardinarsi della democrazia? E senza trarre anche da qui le ragioni e gli argomenti da contrapporre quotidianamente alla irresponsabilità di governo?
Sono questi i temi dell’unico “ congresso della sinistra” oggi attuale e credibile: su questo i dirigenti del Pd dovrebbero chiamare i propri iscritti ed elettori a confrontarsi, a riflettere e a pronunciarsi. A prendere la parola: o meglio, a ritrovare la voglia di farlo.

La Stampa 22.5.18
Israele, il comandante delle Forze aeree: “Compiuto il primo attacco al mondo con gli F-35”
I cacciabombardieri invisibili usati in Siria contro “obiettivi iraniani”
di Giordano Stabile


Israele è stata la prima nazione al mondo a condurre un attacco con i cacciabombardieri “stealth”, cioè invisibili ai radar, F-35. L’aviazione israeliana dispone di nove F-35 operativi e ne ha ordinati in tutto 30. Il comandante delle Forze aeree, Amikam Norkin, ha rivelato questa mattina con una serie di tweet che gli F-35 sono stati usati durante due raid in Siria. «Lo squadrone degli F-35 è diventato operativo – ha precisato l’alto ufficiale -. I nostri F-35 volano sopra tutto il Medio Oriente e siamo stati i primi ad attaccare con gli F-35 in Medio Oriente».
Norkin ha anche postato fotografie degli F-35 sopra Beirut. L’aviazione israeliana invia con regolarità coppie di F-16 sopra la capitale libanese ma questa è la prima volta che mostra i moderni cacciabombardieri “stealth”, prodotti negli Stati Uniti. Gli F-35 sono stati usati in Siria per contrastare le operazioni militari dei Pasdaran che si sono «installati nella base aerea T4, a 250 chilometri dal confine con Israele», ha continuato Norkin. All’inizio di maggio iraniani o milizie alleate «hanno lanciato 32 razzi» verso il Golan: «quattro sono stati intercettati e gli altri sono finiti fuori bersaglio».
A quel punto Israele ha reagito con una rappresaglia condotta da una trentina di cacciabombardieri «su 20 obiettivi iraniani in Siria». L’anti-aerea siriana ha lanciato allora «oltre 100 missili anti-aerei» e l’aviazione israeliana ha colpito «le loro batterie». È stata la più grande operazione dal 1973, che è seguita alla battaglia aerea del 10 febbraio, quando un F-16 israeliano venne abbattuto. Durante due dei numerosi raid compiuti fra febbraio e maggio sono stati usati anche gli F-35 ma Norkin non ha voluto specificare in quali occasioni.

le immagini:
http://www.lastampa.it/2018/05/22/esteri/israele-il-comandante-delle-forze-aeree-compiuto-il-primo-attacco-al-mondo-con-gli-f-yy2pRXGer56aGiczXwMFxH/pagina.html

il manifesto 24.5.18
Il ministro israeliano Steinitz manda l’Ue «all’inferno‎»
Israle/Ue. Il governo Netanyahu irritato per l'appoggio a palestinesi e Iran da parte dell'Unione europea che critica la linea di Donald Trump in Medio oriente. Si aggrava nel frattempo lo scontro tra palestinesi e Stati uniti.
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Il governo israeliano si lancia all’attacco dell’Ue evitando però di prendere di mira ‎i suoi singoli membri, alcuni dei quali sono alleati di ferro dello Stato ebraico e ‎non poche volte prendono le distanze dalla linea ufficiale di Bruxelles in Medio ‎oriente. ‎«(Gli europei) Possono andare migliaia di miglia giù all’inferno‎», ha ‎tuonato ai microfoni di una radio locale il ministro dell’energia, Yuval Steinitz, ‎commentando le critiche alla violenza della polizia nei confronti dei manifestanti ‎arabo israeliani (palestinesi con cittadinanza israeliana) che ad Haifa qualche ‎giorno fa protestavano per la strage di oltre 60 palestinesi a Gaza. Tra i dimostranti ‎feriti c’è anche Jafar Farah, direttore del centro per i diritti civili Mossawa, che ‎accusa la polizia per avergli fratturato un ginocchio mentre era detenuto. ‎«Questo ‎è l’apice del nervosismo e dell’ipocrisia – ha detto Steinitz, esponente di rilievo del ‎governo di destra guidato da Netanyahu – la stessa Unione europea sta ora ‎aspirando all’Iran e aiuterà il Paese di fronte alle sanzioni statunitensi‎». Un chiaro ‎riferimento alle posizioni dell’Alta rappresentante della politica estera dell’Ue, ‎Federica Mogherini, di condanna della decisione degli Stati Uniti di uscire ‎dall’accordo internazionale sul nucleare iraniano. Mogherini conferma la volontà ‎di continuare la cooperazione tra Europa e Tehran.‎
 Steinitz tuttavia ha badato a non prendere di mira i singoli Paesi europei. ‎«Ho ‎mandato all’inferno l’Ue che in realtà non rappresenta i paesi europei – ha ‎affermato – è un’organizzazione che nessuno comanda ma vive per se stessa. Ed è ‎meno amichevole dei paesi europei che la formano‎». Evidente il tentativo di ‎allargare le crepe emerse tra i Paesi europei in occasione delle cerimonie ufficiali ‎per il trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme alle quali, in ‎aperta violazione del boicottaggio deciso dall’Ue, Austria, Repubblica Ceca, ‎Slovacchia e Romania hanno risposto positivamente all’invito israeliano. Il ‎governo Netanyahu probabilmente è convinto che queste crepe esistano anche ‎sulla questione del nucleare iraniano e di poter spingere qualche Stato europeo ad ‎aderire al piano di sanzioni “durissime” annunciate nei giorni scorsi ‎dall’Amministrazione Trump se Tehran non rispetterà 12 condizioni poste dalla ‎Casa Bianca. Ieri il Dipartimento del Tesoro americano ha annunciato sanzioni ‎contro cinque presunti membri della Forza al Quds dei Guardiani della ‎Rivoluzione iraniana che avrebbero dato assistenza tecnica ai ribelli sciiti Houthi ‎in Yemen permettendo loro di lanciare missili verso l’Arabia saudita.‎
 L’Ue, almeno a parole, non ha intenzione di adeguarsi alla linea statunitense e ‎difende l’accordo con l’Iran, facendo irritare anche il governo israeliano. E la ‎Russia, che pure ora preme su Tehran affinché ritiri dalla Siria i suoi consiglieri ‎militari e i combattenti sciiti, appare decisa a resistere alle pressioni di Trump. Di ‎Iran, Siria e Libia, oltre che di Ucraina, discuteranno oggi Vladimir Putin ed ‎Emmanuel Macron nel vertice Russia-Francia a San Pietroburgo. Mosca ha già ‎messo in chiaro che le condizioni poste dagli Stati Uniti all’Iran per evitare le ‎sanzioni sono inaccettabili e conta sugli Europei per vanificarle. Si cerca di capire ‎inoltre se la cancellazione del viaggio in Israele del premier francese, Edouard ‎Philippe, previsto per la prossima settimana, sia stata davvero decisa per gli ‎impegni del suo governo o se dietro ci siano motivi politici.‎
 Sanzioni gli Stati uniti potrebbero annunciaele anche contro l’Autorità ‎nazionale palestinese che ha chiesto alla Corte penale internazionale di indagare ‎sui crimini commessi dagli israeliani nei Territori occupati. Una legge statunitense ‎del 2015 stabilisce che l’Autorità palestinese è soggetta a sanzioni se tenta di ‎perseguire Israele alla Corte dell’Aja e prevede la chiusura della missione ‎diplomatica dell’Olp a Washignton. I rapporti tra palestinesi e Amministrazione ‎Trump si fanno sempre più roventi con il passare dei mesi dopo il riconoscimento ‎di Gerusalemme come capitale d’Israele fatto dal presidente Usa lo scorso 6 ‎dicembre. ‎«È un colono terrorista‎» ha detto ieri Mahmud Habash, consigliere del ‎presidente dell’Anp Abu Mazen, riferendosi all’ambasciatore americano in Israele, ‎David Friedman, dopo la pubblicazione di una immagine del diplomatico ‎sorridente accanto a una fotografia aerea di Gerusalemme ritoccata in cui non ‎compaiono la Cupola della Roccia e la Moschea di al Aqsa, sulla Spianata delle ‎moschee, rimpiazzate dal Tempio ebraico. Friedman è un sostenitore dichiarato ‎nonché finanziatore del movimento dei coloni israeliani ed è stato un elemento ‎chiave per il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme. ‎



il manifesto 24.5.18
Referendum sull’aborto, l’Irlanda prova a cambiare
Ottavo emendamento. In marcia con le attiviste per il diritto di scelta. Venerdì si vota, una campagna aggressiva potrebbe non bastare agli anti-abortisti, i sondaggi danno in testa la vittoria del Sì all'abrogazione
di Vincenzo Maccarrone


DUBLINO È una domenica grigia mentre il corteo a favore del diritto all’aborto si dirige verso l’aeroporto di Dublino. La destinazione non è casuale: migliaia di donne ogni anno devono partire per ottenere legalmente un’interruzione di gravidanza, vietata sul suolo irlandese. Sono state 3.265 nel solo 2016, una media di nove al giorno. Quelle che non possono permettersi di andare all’estero, per difficoltà economiche o perché prive di visto, sono invece costrette a comprare illegalmente la pillola abortiva su internet, rischiando fino a 14 anni di carcere.
In pochi giorni le cose potrebbero però cambiare: domani gli elettori irlandesi saranno infatti chiamati a votare per decidere se abrogare (Repeal) o meno l’ottavo emendamento della costituzione irlandese che, equiparando i diritti della madre a quelli del feto, rende di fatto l’aborto illegale in qualsiasi situazione (compreso lo stupro) a meno che la madre non sia in pericolo di vita. La “blindatura” costituzionale del divieto all’aborto fu introdotta nel 1983 tramite un referendum promosso da una serie di organizzazioni cattoliche conservatrici, spaventate dall’ondata di leggi a favore dell’interruzione volontaria di gravidanza varate in Europa e negli Stati uniti nella decade precedente.
All’epoca l’influenza della chiesa cattolica sulla società irlandese era ancora molto forte, ma le cose da allora sono cambiate, dopo che l’emersione di una serie di casi di pedofilia e abusi ne hanno minato fortemente la credibilità. «L’idea di controllo sulle donne che c’era allora oggi non è più possibile», dice Ruth Coppinger, deputata socialista e fervente sostenitrice del Repeal. Ma mentre uno storico referendum nel 2015 ha introdotto il matrimonio tra persone dello stesso sesso, la legislazione sull’aborto è progredita ancora più lentamente. La possibilità di ottenere legalmente un’interruzione di gravidanza recandosi all’estero è stata introdotta solo nel 1992, a seguito del caso di «Miss X», una ragazza di soli 14 anni incinta a seguito di uno stupro, che i genitori volevano portare nel Regno Unito per abortire dopo che aveva minacciato il suicidio. Nel 2012 la morte di Savita Halappanavar, una dentista indiana residente in Irlanda, sconvolse il paese. La donna incinta morì di setticemia dopo il rifiuto dei medici di praticarle un aborto. «La morte di Savita – continua Coppinger – è stata certamente uno dei punti di svolta che ha portato verso il referendum». «Più di 20mila persone scesero spontaneamente in strada», racconta Laura, un’attivista di Rosa, l’organizzazione femminista che ha organizzato la marcia. Questa settimana i genitori di Savita hanno inviato un videomessaggio dall’India, invitando a votare per l’abrogazione dell’ottavo emendamento.
Mentre marciamo, un uomo in bicicletta ci urla che abbiamo tutti subito un lavaggio del cervello. La campagna degli anti-abortisti è stata estremamente aggressiva. Poster con le immagini di feti insanguinati sono stati esposti davanti a scuole e ospedali. Sui manifesti per il No al Repeal campeggiano statistiche fuorvianti, volte a incrementare le ansie di una popolazione che, ricorda Coppinger, non ha ricevuto un’educazione adeguata su queste tematiche fino agli anni recenti. Uno dei cartelloni della campagna anti-abortista recita ad esempio che in Gran Bretagna «il 90 per cento dei bambini con la sindrome di Down viene abortito». Ma al di là della veridicità (contestata) di questo dato, l’Istitute of Obstetricians and Gynaecologists ha certificato che è molto difficile che venga fatta una diagnosi sulla sindrome di Down entro 12 settimane dal concepimento, ossia il termine previsto per l’interruzione di gravidanza dalla bozza di legislazione che verrebbe approvata se al referendum vincesse il Repeal.
La campagna per l’introduzione del matrimonio fra persone dello stesso sesso nel 2015 aveva potuto far leva sulla tematica dell’amore. Ci hanno provato anche gli anti-abortisti che per questa occasione hanno coniato lo slogan «love both», ama entrambi, mamma e bambino. Per far fronte a questo tipo di comunicazione, la campagna ufficiale per il Repeal – che comprende un fronte molto ampio di partiti e associazioni – ha impostato il proprio messaggio sul tema della «compassione» o della salute, mentre messaggi sull’autodeterminazione delle donne sul proprio corpo appaiono solo sui poster di organizzazioni più radicali come Rosa.
Il rischio, sottolineato da varie attiviste, è che una campagna impostata in questa modo porti a possibili marce indietro in parlamento sulla bozza che prevede la possibilità di abortire senza condizioni fino a 12 settimane, che il governo guidato dal partito conservatore Fine Gael, si è impegnato a presentare in caso di vittoria del Repeal. «Per evitare ribaltoni l’unico modo sarà quello di tenere alta la pressione sul parlamento anche dopo il referendum», dice Antonella di Merj, un’organizzazione di migranti e minoranze etniche che si batte per i diritti riproduttivi in Irlanda. In ogni caso, deputati pro-aborto dell’opposizione come Ruth Coppinger e il suo collega di partito Paul Murphy si dicono ottimisti sull’approvazione della legge, specie se il Repeal dovesse ottenere una maggioranza consistente.
Al momento i sondaggi danno il Repeal in netto vantaggio, anche se la percentuale di indecisi rimane alta. Mentre nelle aree urbane il Sì all’abrogazione appare largamente in testa, nelle aree rurali la situazione è più incerta, data anche l’età media più avanzata. Le attiviste sottolineano che negli ultimi giorni sarà fondamentale lavorare per contrastare le paure ispirate dai movimenti anti-abortisti. Ma le sensazioni di chi ha fatto campagna sul campo nelle ultime settimane sono cautamente positive. Il 25 maggio si potrebbe finalmente porre fine a una parte buia della storia irlandese.

il manifesto 24.5.18
Aborto, Belfast in alto mare. Senza governo né legge
Irlanda del Nord. I partiti principali hanno posizioni ambigue, solo i Verdi spingono per applicare le leggi vigenti nel Regno Unito sull'interruzione di gravidanza. Sinn Féin, da sempre prudente, sta cambiando approccio grazie alla neo presidente Mary Lou MacDonald
di Enrico Terrinoni


La Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord, divise come sono da un confine ancora per poco invisibile, quando si tratta del diritto delle donne ad abortire, si presentano perfettamente unite e coese. Tuttavia, se a Sud si terrà domani il referendum per l’abrogazione dell’ottavo emendamento al fine di consentire, anzi obbligare, governo e parlamento a legiferare su questa materia estremamente spinosa, la discussione se estendere o meno al Nord l’Abortion Act in vigore in Gran Bretagna appare ancora in alto mare.
A Belfast e dintorni, infatti, l’interruzione di gravidanza è consentita soltanto se a rischio sia la vita della donna, o in caso di pericoli per la sua salute fisica e mentale. In Inghilterra, Galles e Scozia, la legislazione sull’aborto risale al 1967, ma per riserve principalmente di tipo religioso, non è mai stata recepita dal parlamento nordirlandese.
Come nella Repubblica, anche al Nord è pratica comune quella di attraversare il canale di San Giorgio per interrompere gravidanze indesiderate. Ma una volta approdate, le cittadine nordirlandesi non hanno gli stessi diritti delle compatriote britanniche, in quanto per loro i costi dell’aborto non sono sostenuti dal sistema sanitario di stato. Il che ha ovvie ricadute sociali anche in termini di maggiore impatto e disagio per le classi più povere.
Sebbene sin dal 2010 il Parlamento di Stormont, Belfast, abbia ricevuto, nell’ambito della devolution, il mandato di legiferare in materia, solo dal partito dei Verdi è giunto un appoggio totale ad applicare le leggi vigenti nel Regno Unito. Molto più ambigue sono parse le posizioni dei partiti principali. Se da un lato è scontata l’ostinata contrarietà all’aborto della destra unionista, più opportunista è sembrato negli anni l’atteggiamento di Sinn Féin. Il partito repubblicano si diceva restio, fino a poco tempo fa – e sempre per rispetto dei legami con una comunità che a torto o a ragione si identifica con una precisa confessione religiosa, quella cattolica – a dare direttive chiare al proprio elettorato.
Le cose però stanno cambiando velocemente. Ne è dimostrazione l’approccio molto meno rigido a riguardo da parte di Mary Lou MacDonald, la neo presidente del partito, succeduta allo storico leader Gerry Adams. La campagna a favore del Sì che sta portando avanti McDonald, da un lato ha fatto emergere alcuni contrasti interni a Sinn Féin tra tradizionalisti e progressisti, dall’altro ha portato il tema alla ribalta dentro il partito.
Ma se è vero che dei 23 deputati di Sinn Féin al parlamento di Dublino, sono 21 quelli a favore dell’abrogazione dell’ottavo emendamento, alla domanda ben più complessa riguardante la proposta di legalizzare l’aborto con una richiesta che pervenga entro la dodicesima settimana, a dichiararsi favorevoli sono soltanto in 8 (tra cui McDonald), mentre a non voler palesare il proprio intento sono in 13 (tra cui Adams). Due deputati sono invece contrari a entrambe le istanze.
I mutati equilibri fanno pensare i più maligni tra i commentatori politici irlandesi che Sinn Féin stia ponendo le basi per un accordo con le forze governative, e questo all’insegna di una strategia che persegue una maggiore centralità istituzionale mirata – ma questa è da sempre anche la strategia di Adams – ad andare al governo sia a Sud che a Nord.
Intanto, il deficit democratico in Irlanda del Nord continua, con lo stallo in cui si trova da molti mesi il parlamento, con l’assenza da oramai quasi un anno e mezzo di un governo misto, e con i negoziati sul confine tra Nord e Sud arenati nella più ampia palude dell’implementazione del Brexit. Chissà che almeno su un’altra frontiera, quella dei diritti delle donne, non sia per una volta la Repubblica a mandare segnali di progresso e libertari, a un Nord sempre più diviso e arroccato su posizioni di inconciliabile mancanza di dialogo.

La Stampa 24.5.18
L’Irlanda divisa vota sull’aborto
Le donne e Dublino trascinano il “Sì”
di Francesca Lozito


Nelle strade del turismo e dello shopping del centro di Dublino sembra quasi una giornata come le altre. Ma basta spingersi verso il Trinity College per capire che l’Irlanda si prepara a una giornata storica, un cambiamento epocale che arriva tre anni dopo lo storico voto sul matrimonio omosessuale.
Domani tre milioni e duecentomila cittadini dovranno votare sull’abrogazione dell’ottavo emendamento della Costituzione, introdotto nel 1983, che considera il feto un cittadino con gli stessi diritti di una persona e impedisce l’interruzione di gravidanza volontaria in ogni sua forma.
Intorno al Trinity College le bacheche degli studenti sono tappezzate di manifesti di «Together for yes», insieme per il sì, la sigla che raccoglie i sostenitori della legalizzazione. Nei Docks, il quartiere portuale trasformato nell’area in cui hanno la loro sede i giganti del web, come Google e Facebook, è un pullulare di piccoli poster: «Scegli la compassione, vota Sì», «Non uccidere i bambini, vota No».
Il caso Google e Facebook
Qui la campagna è particolarmente intensa. Google e Facebook sono stati protagonisti nei giorni scorsi di due decisioni determinanti: la prima ha vietato qualsiasi forma di pubblicità elettorale sulla propria piattaforma, la seconda ha bloccato solo quelle che provengono dall’estero, in rispetto della legge irlandese che vieta ogni forma di finanziamento straniero alla politica. Quel giorno i sostenitori del no hanno convocato una conferenza stampa per spiegare che sarebbero stati penalizzati soprattutto loro perché già in svantaggio: «Un attacco all’integrità del referendum» lo ha definito Maria Steen di Iona Institute, think tank sui temi della famiglia.
L’ultimo sondaggio realizzato da Irish Times Ipsos il 17 maggio scorso vede il Sì in testa con il 44 per cento, il No al 32 per cento, un 17 per cento di indecisi e un 5 per cento di non votanti. Rispetto all’ultima rilevazione di fine aprile il Sì ha perso 10 punti. La campagna elettorale, dunque, si gioca su chi ancora non sa dove metterà la propria preferenza.
Per strada i «canvassers», i volontari, distribuiscono volantini. Lo ha fatto anche il «Taioseach», il primo ministro Leo Varadkar domenica scorsa a Tullamore, nel cuore dell’isola. Il suo partito, il liberale Fine Gael, ha lasciato libertà di voto, ma il governo con in testa il trentunenne ministro della Salute Simon Harris, che ha già presentato le linee della legge, da approvare una volta sancita la vittoria, è schierato tutto con la campagna «Together for yes».
Varadkar ha anche postato le ragioni della sua scelta in un video su Twitter che viaggia sulle 120.000 visualizzazioni: «L’ottavo emendamento era stato introdotto 35 anni fa pensando che avrebbe funzionato come forma di prevenzione dell’aborto – spiega – non è stato così perché ha costretto 200 mila donne ad andare in Gran Bretagna ad abortire. Inoltre, ogni giorno due o tre donne comprano pillole abortive illegali su Internet». Varadkar, medico, 40 anni, di origine indiana, e dichiaratamente gay spiega di aver cambiato idea sull’aborto (una delle critiche che gli viene mossa dai sostenitori del No, ndr) proprio quando nello scorso governo è stato ministro della Salute: «Ho conosciuto le storie tragiche di donne costrette ad abortire».
I due campi
Con lui per il sì è schierato tutto il mondo della cultura: dagli editorialisti dell’«Irish Times» Fintan O’Toole e Una Mullally ai big della musica, gli U2, Lisa Hannigan, Paul Noonan. Questi ultimi due hanno suonato al Wheelan’s, uno dei pub storici di Dublino, in una serata a sostegno di «Together for yes». John Connors, regista di «Cardboard gangsters», film che racconta la vita difficile della periferia dublinese di Darndale, cresciuto in un campo nomadi, ha espresso invece il suo No al referendum. Ed è stato subito oggetto di un attacco da parte di hater sia su Facebook che su Twitter.
Le contee in bilico
Decisivo per il risultato finale potrebbe essere il voto di Dublino e delle donne dei centri urbani, in larga maggioranza pro-abolizione. Mentre nelle aree rurali - ma anche in una parte della fascia generazionale dell’elettorato più giovane, attorno ai 20 anni - si segnala un consistente zoccolo duro anti-abortista.
Il Donegal è una delle contee in cui potrebbe vincere il no. Qui uno degli attivisti pro life è Declan Mc Guinness, fratello del leader di Sinn Féin Martin morto lo scorso anno. C’é poi l’incognita della contea di Rosscommon che nel 2015 fu l’unica a votare No per il matrimonio gay.
Per il sì fin dall’inizio della campagna per l’abrogazione (iniziata dopo la morte di Savita Halappanavar, la 31enne dentista che nel 2013 morì a seguito di una infezione contratta durante la gravidanza), è Amnesty Ireland. Per Colm O’Gorman, il suo presidente, «l’idea che i diritti del bambino abbiano inizio nel grembo materno non è prevista in nessuna legge internazionale. Legalizzare l’aborto in Irlanda è una questione di diritti umani».

Corriere 24.5.18
L’Irlanda ancora divisa sull’aborto Molti indecisi alla vigilia del voto
di Sara Gandolfi


Favorito il fronte del «sì», sostenuto dal premier. Ma nelle campagne vince il «no»
Un (nuovo) voto storico in Irlanda, dopo il referendum che tre anni fa sancì il via libera ai matrimoni gay, con il 62,1%. I cittadini decideranno domani alle urne se allinearsi all’Europa e consentire l’interruzione di gravidanza, abolendo l’articolo 8 della Costituzione che impone la tutela della vita fin dal concepimento. Il fronte del «sì», secondo i sondaggi, avrebbe almeno dieci punti di vantaggio — 44% contro 34 — anche se lo scarto si è ridotto negli ultimi giorni e sono ancora molti gli indecisi. La forbice peraltro cambia drasticamente tra città e campagna: se a Dublino e negli altri centri urbani, la stragrande maggioranza è favorevole alla legalizzazione, nelle zone rurali la proporzione si ribalta.
L’aborto è un reato dal 1861. Trentacinque anni fa, i partiti conservatori, con l’appoggio esplicito della Chiesa cattolica, consacrarono il divieto nella Costituzione, attraverso l’ottavo emendamento che mette sullo stesso piano i diritti della madre e quelli del feto. «Lo Stato — recita — riconosce il diritto alla vita dei non nati e, tenendo in conto l’uguale diritto alla vita della madre, ne garantisce nelle sue leggi il rispetto». Ciò di fatto significa che in Irlanda l’interruzione di gravidanza è negata anche in caso di stupro, incesto e anomalie fetali che portano alla morte del nascituro. Una normativa che prevede fino a 14 anni di carcere per chiunque si sottoponga all’intervento o lo effettui, e che l’Onu ha definito «crudele e inumana».
Per aggirare il veto in patria, alle donne irlandesi non resta che andare all’estero per un aborto legale. Chi non ha i soldi ricorre a metodi più pericolosi, come le pillole abortive acquistate via Internet, senza alcun controllo medico. Una situazione sempre più discussa, anche nella cattolicissima Irlanda. Il cambio di governo, nel 2017, ha accelerato il processo. Il premier liberale Leo Varadkar, apertamente gay, appena insediato ha annunciato il referendum. E ha messo a punto il progetto di legge in caso di vittoria del «sì»: legalizzazione, senza restrizioni, nelle prime dodici settimane di gravidanza, che si estendono a 24 per le donne con problemi di salute. Dopo questo periodo, l’interruzione sarebbe permessa solo per rischi gravi alla salute della madre o anomalie fatali per il nascituro.

Corriere 24.5.18
«Stato e Chiesa vanno separati, come in Italia»
di S. Gan.


Janet O’Sullivan, o Janet Ní Shuilleabháin nella «versione» irlandese, è una delle voci più ascoltate del campo pro-abortista. Femminista e scrittrice, nel 2016 è stata inclusa nella lista delle «100 donne più influenti» stilata dalla Bbc. Due anni fa ha raccontato via twitter l’interruzione di gravidanza cui si sottopose da ragazza.
Nessun rimorso?
«L’unico rimorso è di essere stata costretta ad andare in Gran Bretagna».
Quale fu l’aspetto peggiore?
«Ho pianto moltissimo, e ho incontrato molte altre irlandesi che come me avevano dovuto andare all’estero».
Scrisse di aver dovuto «raccontare moltissime bugie, riguardo quel viaggio. Anche in famiglia?
«Sì, non lo dissi ai miei genitori, ma loro intuirono e aspettarono che io fossi pronta a parlarne».
Le giovani irlandesi che oggi si trovano in quella situazione, vivono lo stesso isolamento?
«Le giovani donne sono più arrabbiate che sole, rispetto al passato hanno più potere nelle scelte personali e si offendono di dover viaggiare all’estero. Ma riescono più facilmente a parlarne con gli amici e i familiari, il che è sicuramente molto più sano».
Che cosa è peggiore: la vergogna o lo stigma sociale?
«Uno alimenta l’altro, ma liberarmi dalla vergogna mi ha aiutato a combattere lo stigma».
Accadde negli anni Novanta, cosa è cambiato in questi vent’anni alla società irlandese?
«I giovani hanno maggiore accesso all’informazione, possono vedere cosa accade in altri Paesi e la Chiesa cattolica romana, dopo tutti gli scandali per gli abusi sui bambini e nelle case rifugio, non ha più così tanta influenza sulle persone».
Nella cattolica Italia l’interruzione di gravidanza è legale dal 1978. Come mai in Irlanda ancora no?
«L’Italia ha una migliore separazione fra Stato e Chiesa, ma speriamo di imparare da voi e di non avere problemi di copertura medica a causa degli obiettori di coscienza in alcune parti del nostro Paese».
Quell’aborto ha influito sul suo modo di essere madre (di due figli)?
«La genitorialità deve essere una scelta. È un mestiere che consuma, specie nei primi anni e quando la gravidanza è a rischio. Diventare madre mi ha reso una “pro-choice” ancor più convinta. La gravidanza non dovrebbe essere mai una punizione».

il manifesto 24.5.18
Sanders, i giovani e il voto della vita per la sinistra Usa
Elezioni di midterm. Il senatore socialista prepara la campagna. Nel programma università gratuita e sanità pubblica. Intanto nelle primarie democratiche i suoi candidati battono i più moderati indicati dal partito. Stacey Abrams, superprogressista, vola nelle primarie in Georgia e potrebbe diventare la prima governatrice nera di uno stato americano
di Marina Catucci


NEW YORK Il senatore indipendente del Vermont, Bernie Sanders, ha annunciato che si candiderà per la rielezione portando avanti un programma elettorale di sinistra, che dà priorità alle famiglie lavoratrici, e il prossimo mese comincerà una campagna che avrà un’influenza oltre i confini dello Stato.
Sanders, dopo le primarie democratiche del 2016, ha un seguito da rockstar in tutto il Paese, specialmente tra i giovani; si definisce socialista e ha contribuito a divulgare questo concetto negli Usa che sembrano pronti ad accoglierlo.
LA SUA «RIVOLUZIONE politica», come la definiva durante la campagna elettorale, non si è fermata alle primarie vinte da Clinton grazie alla spallata dell’establishment democratico, ma prosegue, spingendo candidati di sinistra che puntualmente riescono a vincere le loro sfide elettorali, al fine di un ricambio che trasformi il partito dall’interno.
Nell’annunciare la sua corsa per la rielezione, ha parlato delle elezioni di medio termine che ci saranno il prossimo novembre, affermando di sperare che i democratici prendano il controllo della Camera e del Senato, ed è anche per questo, ha detto, che si ricandida.
«Il 2018 è l’elezione di midterm più importante delle nostre vite. Abbiamo una Camera e un Senato controllati da un solo partito di estremisti di destra – ha affermato Sanders all’Associated Press – Farò tutto il possibile per porre fine a un governo del partito unico in questo Paese».
AL MOMENTO LE CANDIDATURE democratiche per il midterm hanno già recepito l’effetto Sanders, e molti candidati di sinistra hanno battuto quelli più moderati proposti dal partito. In Kentucky Amy McGrath, prima donna marine a pilotare un jet da combattimento F-18 ha scalzato il sindaco Jim Gray che prometteva di portare la «supervisione di un adulto» a Washington; in Texas hanno nominato due candidate lesbiche, una latina e una filippina; ma la notizia più clamorosa arriva dagli elettori della Georgia, che hanno dato alla afroamericana e super progressista Stacey Abrams, ex leader della minoranza alla Camera dello Stato, la chance di diventare il primo governatore nero e donna degli Stati uniti.
Per Abrams il partito si è compattato, ha raccolto il supporto tanto di Hillary Clinton che di Bernie Sanders e hanno fatto campagna elettorale per lei due stelle radical come il senatore del New Jersey, Cory Booker e il senatore californiano Kamala Harris.
Sanders ha annunciato che anche se ora passerà più tempo in Vermont, continuerà a fare campagna elettorale anche per altri candidati, spostandosi di stato in stato per dare il proprio appoggio.
NEL SUO ANNUNCIO di correre per la rielezione, il senatore 76 enne ha detto di credere che i suoi ideali siano ora gli ideali del partito democratico, e che idee un tempo controverse, come la sanità pubblica, siano più popolari che mai.
Oltre all’introduzione della una sanità pubblica, nel programma di Sanders si parla di un salario minimo di 15 dollari l’ora e di corsi gratuiti presso le università pubbliche; già nei comizi del 2016 Sanders sosteneva che la laurea ha, ormai, il valore di un diploma e che la possibilità di studiare gratuitamente debba essere garantita fino alla fine dell’università. I costi della sanità, i prezzi delle medicine, l’istruzione e le infrastrutture, sono le questioni più importanti del suo programma.
A sfidare in casa il fenomeno Sanders ci sono diversi candidati, ma tutti poco conosciuti; nel 2012, nonostante corresse come indipendente, «The Bern» aveva vinto le primarie democratiche dello Stato, e si era garantito la rielezione con il 71% dei voti.
JOSE AGUAYO, IL TESORIERE della principale cooperativa alimentare del Vermont, supporter del senatore socialista, ha detto di applaudire gli sforzi di Sanders nel coinvolgere a livello nazionale gli elettori più giovani, e nello spingere piattaforme di vera sinistra. «Temi che nessuno voleva toccare, nel partito – ha detto Aguayo – Invece più Sanders parla di queste idee progressiste, più è probabile che diventino realtà».

Corriere 24.5.18
L’attivista afro (e scrittrice rosa) dà «energia» all’ala radicale Usa
Stacey Abrams candidata dem in Georgia: è la prima nera a correre da governatrice
di Giuseppe Sarcina


WASHINGTONL’«energia» di cui ha urgente bisogno il partito democratico potrebbe venire da una nuova leva di donne: outsider, radicali. «Energia» è la parola più usata da Stacey Abrams, 44 anni, la prima afroamericana nella storia degli Stati Uniti ad aver conquistato la nomination per competere alla carica di Governatore. L’altro ieri, nelle primarie democratiche in Georgia, ha sconfitto con il 75% dei consensi la moderata Stacey Evans. È una tendenza che attraversa l’intero Paese. Nel Kentucky la prima top gun appena congedata dai marines, Amy McGrath, 42 anni, ha battuto addirittura il sindaco democratico di Lexington, Jim Gray: spetterà a lei sfidare il deputato repubblicano in carica, Andy Barr, nelle elezioni di mid term, il prossimo 6 novembre, quando si voterà per rinnovare l’intera Camera dei Rappresentanti e un terzo del Senato.
I sondaggi oscillano, ma per il momento, secondo il sito RealClearPolitics, i progressisti sarebbero in testa con il 3% su base nazionale. Il problema, però, è che a Washington il partito democratico è diviso, sostanzialmente ancora prigioniero della sconfitta subita da Hillary Clinton. È nelle profondità del Paese che qualcosa si sta muovendo.
Molti, anche al Congresso, considerano la corsa di Stacey Adams un test fondamentale. Per una ragione su tutte: capire se è necessaria una proposta dai toni e dai contenuti forti, quasi estremi per spezzare il dominio repubblicano.
Abrams è di per sé una figura atipica. È nata a Madison, in Wisconsin, e cresciuta ad Atlanta, in Georgia, in una famiglia religiosa: i genitori erano pastori metodisti. Stacey si laurea prima in Scienze politiche allo Spelman College e poi studia diritto alla Yale Law School. A 17 anni, però, è già a bottega, nel comitato elettorale di un deputato democratico. La giovane ha un talento multiforme. Si immerge nell’attivismo afro-americano, inevitabilmente conflittuale in uno Stato conservatore come la Georgia. Per un po’ lavora in studio legale.
Sceglie di non sposarsi. Nello stesso tempo coltiva la sua grande passione per la letteratura: scrive nove romanzi che vendono circa 100 mila copie. Storie di amore contrastato, sembra di capire dalla lista dei titoli. Tutte opere firmate con uno pseudonimo, Selena Montgomery. Usa, invece, il suo nome per gli articoli su temi economici e sociali e, soprattutto, per l’ultimo libro, uscito un mese fa: How to lead from the outside and make real change, come guidare le scelte dall’esterno e produrre veri cambiamenti. Ecco qual è il senso del «modello Stacey»: recuperare le forze sociali emergenti e quelle rimaste ai margini e trasformarle in «energia», appunto, per il governo. Sono quattro blocchi, essenzialmente: il movimento anti-molestie «MeToo»; la mobilitazione di studenti, genitori e insegnanti contro le armi facili e, naturalmente, le organizzazioni afro-americane e dei latinos che da ultimo si erano un po’ sfilacciate.
Stacey Abrams, Amy McGrath e le altre, come la cinquantottenne Mary Gay Scanlon, altra attivista di base vincitrice nelle primarie in un distretto della Pennsylvania, sono forse il primo risultato delle manifestazioni e delle proteste cominciate nel gennaio del 2017. L’ondata già all’epoca chiamata l’«herbal tea party», per segnalare lo spontaneismo simile a quello del «tea party» che scompigliò il fronte conservatore nel 2009.
I progressisti moderati sono in ripiegamento, ma sostengono che servono profili da centrista per sfondare in territorio trumpiano. Citano due esempi: Doug Jones e Conor Lamb, freschi conquistatori di seggi parlamentari in Alabama e in Virginia.
Sullo sfondo sono pronti almeno 15-20 potenziali pretendenti alla Casa Bianca. Alcuni di loro, come la senatrice Kamala Harris e il collega Cory Booker, si sono schierati apertamente con la «formula Stacey». Altri aspettano, con prudenza, il riscontro delle urne in autunno.

Repubblica 24.5.18
Mission impossible. Primarie Usa
Stacey, Amy, Lupe L’onda rosa dei democratici
Una nuova generazione di donne sfiderà Trump e i repubblicani
di Alberto Flores d’Arcais


NEW YORK C’è Stacey, c’è Amy, c’è Lupe e ci sono le altre. Volti nuovi e soprattutto donne.
È un’ondata rosa quella che si affaccia sulla scena politica democratica dopo un martedì di primarie in grandi Stati del sud dove da decenni il partito repubblicano ha vita facile. È su di loro, donne che hanno alle spalle avvincenti storie di vita, che gli elettori del partito democratico — che si sta ancora leccando le ferite per la bruciante sconfitta elettorale del 2016 con Hillary — hanno deciso di puntare per tentare di strappare al Grand Old Party alcuni seggi — chiave del Congresso e anche Governatori. Volti nuovi e non legati al sistema, appoggiati quasi ovunque anche dall’ala più liberal del partito, quella che non aveva mai digerito la candidatura di Hillary Clinton.
È storica la vittoria (anche se per ora solo di primarie si tratta) di Stacey Abrams in Georgia, bastione repubblicano di quel vecchio sud razzista (e dove i suprematisti bianchi con Trump hanno rialzato la cresta) che tenterà la missione impossibile: scalzare dal suo posto l’attuale governatore repubblicano. Se ce la dovesse fare, contro ogni previsione, diventerà la prima donna afro-americana a diventare governatore di uno Stato Usa.
Stacey ha avuto (fatto non scontato) sia l’appoggio di Hillary che quello di Bernie Sanders e per lei si è battuta anche Kamala Harris, la senatrice della California cui molti predicono un futuro da prima donna presidente degli Stati Uniti.
Nere, latine, lesbiche, non sono poche quelle che hanno un passato da militare o da poliziotta che le accomuna (e le rende popolari anche tra i repubblicani moderati che non vogliono votare candidati “trumpisti”). Donne espressione di quelle minoranze che sono la nuova linfa vitale di un partito democratico alla disperata ricerca di una nuova identità negli anni di The Donald. Una vittoria clamorosa quella alle primarie di Stacey, che ha conquistato oltre la stragrande maggioranza dei voti neri anche molti voti in contee bianche (e povere) degli Appalachi, terra da sempre conservatrice e repubblicana. «Stiamo scrivendo il prossimo capitolo della storia della Georgia, spero che mi accompagnerete tutti in questa grande sfida per il nostro futuro», ha gridato, commossa, durante la festa seguita al martedì elettorale.
C’è Lupe Valdez, 70 anni, lesbica ed ex sceriffo della contea di Dallas, anche lei in corsa per diventare la prima latina a guidare uno Stato. E non uno qualunque, ma il Texas della pena di morte e delle armi libere. Missione impossibile anche per lei. C’è Amy McGrath, tenente colonnello pilota di caccia della Marina, la prima donna a pilotare un F-18, che ha sconfitto seccamente il candidato che il partito aveva scelto e appoggiato. Ci sono due donne, anche loro gay dichiarate, una di origine sudamericana e l’altra filippina che hanno vinto a sorpresa la candidatura in due seggi decisivi per i democratici in Texas.
Primarie che premiano l’elettorato democratico che vuole cambiare, che è stufo dei vecchi volti, dei politici di professione, di chi non vuole tagliare il cordone con un modo di fare politica che ha fatto perdere troppi consensi al partito di Kennedy, Clinton e Obama. Tutti risultati che il partito democratico dovrà analizzare con cura, sia per la strategia da adottare a novembre ( quando si rinnoverà il Congresso) sia in previsione della ancora più importante sfida per la Casa Bianca 2020. Anno che non è poi così lontano, considerato che chi vuole candidarsi lo fa ormai con quasi due anni di anticipo.

La Stampa 24.5.18
Nella Grecia della crisi fra minestre per i poveri e negozi ancora chiusi
di Mariangela Paone


Negli anni peggiori della crisi in via Ermou, l’arteria commerciale di Atene che parte dalla piazza Syntagma, il tran tran sembrava all’apparenza quello di sempre. Bastava però girare lo sguardo per vedere i negozi chiusi e l’immancabile cartello Enoikiazetai, si affitta. Oggi, quasi un decennio dopo l’inizio della Grande Recessione, si vedono meno cartelli, alcuni negozi hanno riaperto e, sulla strada, in una mattina di metà maggio, si respira un’aria più leggera di quella pesante dei giorni delle grandi proteste contro l’austerità. Ma oggi come allora, la differenza la fanno i dettagli. A metà della stessa via, un gruppo di volontari si prepara per distribuire la minestra che cuoce dentro una grossa pentola messa su un fornello acceso in mezzo alla strada. Il gruppo si chiama «O Allos Anthropos», l’Altro Uomo. È nato nel 2012 e da allora non ha mai smesso di funzionare.
Senza chance
La Grecia a otto anni dalla firma del primo piano di salvataggio, è una storia di contrasti, di cicatrici che tarderanno a chiudersi. «I sentimenti che la maggior parte dei greci sentono sono stanchezza e sfiducia. Secondo i sondaggi, la maggioranza si aspetta che la propria situazione finanziaria peggiori anche se l’economia, dallo scorso anno, è iniziata a crescere», commenta Nick Malkoutzis, direttore del portale di analisi economica e política Macropolis. «Hanno perso fiducia nel governo per le promesse incompiute; nel sistema politico in generale per la cattiva gestione del passato; e nei creditori, che di tanto in tanto ammettono che i salvataggi sono stati mal disegnati, ma mostrano poca volontà di prendere decisioni coraggiose per dare alla Grecia una chance di uscire dal pozzo».
Il governo di Alexis Tsipras, che arrivò al potere tre anni e mezzo fa con la promessa di mettere fine all’austerità e che dopo le settimane agoniche dell’estate 2015 ha dovuto applicare le condizioni del terzo salvataggio del Fondo monetario, vuole ora un’uscita pulita dal programma. Per questo l’esecutivo, dopo aver raggiunto la settimana scorsa un accordo a livello tecnico con i creditori sulle misure da adottare per chiudere la quarta (e ultima) revisione, non vuole sentire parlare di una nuova linea di credito precauzionale.
L’accordo arriva oggi all’Eurogruppo, il penultimo prima di quello decisivo del 21 giugno. Atene promette di approvare le misure previste e sul tavolo restano la procedura di sorveglianza post-memorandum e la ristrutturazione del debito (al 180% del Pil). «Nell’Eurogruppo del giugno 2017, abbiamo accordato con i nostri creditori che la riduzione del debito avrebbe incluso due questioni: l’estensione della scadenza del debito e il cosiddetto meccanismo francese (che lega l’alleggerimento del debito al tasso di crescita). La discussione è ora sul fatto se questo meccanismo deve attivarsi automaticamente o no», ricorda Dimitris Tzanakopoulos, portavoce del governo greco. Seduto nel suo ufficio a Villa Maximos, sede del governo, Tzanakopoulos ripete che «la questione principale per la ristrutturazione del debito è l’allungamento della scadenza». Si dice poi ottimista sul fatto che anche sul meccanismo francese si arriverà a un accordo, nonostante le resistenze della Germania.
Lunedì Tsipras, presentando il piano di crescita per il dopo-memorandum, ha ribadito che Atene rispetterà gli impegni. Nel piano ci sono riduzione delle tasse nel 2020 e aumento del salario minimo, insieme ad altre misure che dovrebbero servire a mitigare, tra l’altro, gli effetti dei nuovi tagli alle pensioni che partiranno dal 2019.

il manifesto 24.5.18
La scomparsa di Philip Roth. Sfila il corteo delle sue incarnazioni, fantasmatici eroi del nostro tempo
Protagonisti. Alex Portnoy, David Kepesh, Peter Tarnopol, Nathan Zuckerman: tutte le anime del grande scrittore
di Francesca Borrelli


Ora che l’addio alla letteratura di Philip Roth è senza possibilità di ripensamenti, i suoi alter ego sfileranno, fantasmatici eroi dei nostri tempi, davanti alla sua bara nell’ordine con cui sono apparsi via via nei romanzi in cui hanno preso vita: per primo Alex Portnoy, che forse cambierà per l’occasione la natura del Lamento di cui Roth lo aveva reso protagonista nel 1967 e, balzato fuori dal romanzo, si materializzerà davanti al suo creatore. Certo, oggi è un po’ invecchiato, ma quando fece la sua entrée sulla scena del mondo editoriale Portnoy vestiva con una certa sfacciataggine i panni dell’ebreo erotomane e ipocondriaco, impegnato a raccontare nel suo incontenibile monologo indirizzato a un analista, le frustrazioni della sua miserevole vita, passata a inseguire ragazze gentili sulle quali riversava, senza mai appagarle, le sue smodate esigenze sessuali. «Dottore – gli fece dire Philip Roth – forse gli altri pazienti sognano le cose…a me succedono. Ho una vita senza contenuti latenti». Povero Portnoy, che avrebbe concluso la sua esistenza rappresentandosi a se stesso come il degno «protagonista di una barzelletta ebraica».
Dopo di lui, ancora animato da una certa baldanza, sfilerà a dolersi della scomparsa di Philip Roth la più lasciva delle sue ombre, David Kepesh, che esordì all’avventura letteraria trasformandosi… in un seno. Il fatto, increscioso per quanto corrispondente a desideri reconditi, avveniva nel corso di un racconto datato 1972, quando una «esplosione ermafroditica di cromosomi» aveva mutato l’esimio professor Kepesh in una enorme mammella: un metro e ottanta di stazza trasformati in una montagna adiposa, come la si potrebbe immaginare su una tela di Dalì. Cinque anni più tardi, recuperata la sua fisionomia umana e un certo status sociale, David Kepesh sarebbe tuttavia tornato a ribadire la natura del proprio animo in un romanzo non a caso titolato Il professore di desiderio, che Philip Roth dedicò alla sua compagna di allora, Claire Bloom, l’attrice resa celebre da Chaplin in Luci della ribalta.
Tra quelle pagine Kepesh compariva come il protagonista di un lento apprendistato che avrebbe dovuto portarlo a coniugare appetiti erotici e sentimenti, finché Roth, abbandonato il suo smagliante sarcasmo, si era preso l’estrema soddisfazione di regalare al suo alter ego il lusso della felicità domestica. Ma non durò a lungo, e presto Kepesh si ricongiunse al destino malevolo che Philip Roth aveva predisposto per lui. Dopo avere esordito nel ruolo di una mammella, avrebbe concluso la sua parabola come protagonista di un romanzo, L’animale morente, in cui ormai ultrasessantenne si innamorava di una magnifica ragazza cubana di ventiquattro anni, che si sarebbe ammalata di un cancro al seno. Ora che le sue tribolazioni sono finite, Kepesh sfilerà davanti a Roth per ricevere dal suo cadavere l’ultima virtuale benedizione, poi si ritirerà tra le pagine dei libri di cui è protagonista, quei libri in cui ha tante volte trovato soddisfazione ai suoi desideri.
TERZO TRA GLI ALTER EGO, piegato sotto il peso di sofferenze che non erano le sue, comparirà davanti alla salma dello scrittore americano la figura di Peter Tarnopol: verrà fuori dalle pagine di un romanzo del 1974 titolato La mia vita di uomo, dove Roth lo aveva incastrato nel ruolo di marito di una donna persecutoriamente bugiarda, una certa Maureen che con le sue gelosie, le scenate, le menzogne, i raggiri più vergognosi, gli aveva reso la vita insopportabile. Più Tarnopol si indignava e soffriva, più Philip Roth sentiva alleggerirsi il suo animo, perché quella moglie che ora scaricava al fianco di Tarnopol un giorno era stata sua: «Probabilmente nient’altro nella mia narrativa riproduce con maggiore esattezza un fatto autobiografico», confidò quattordici anni dopo lo scrittore americano, quando si premurò di convalidare come proprie le avventure di Peter Tarnopol, e rivelò che nei comportamenti di Maureen erano esemplificati quelli della sua prima moglie.
Naturalmente, questo era niente altro che il suo punto di vista, ma tanto Roth lo riteneva insindacabile che si premurò di titolare la sua pretesa autobiografia I fatti e finse di affidarne il vaglio a Nathan Zuckerman, nel frattempo salito al rango di ombra prediletta del suo Io. È lui, solenne e rancoroso, già da tempo congedato e forse mai davvero riconciliatosi con il suo creatore, che sfilerà per ultimo al funerale. Chissà se nella decisione di non scrivere più Philip Roth sia stato inonsciamente condizionato dalla malinconia del legame perduto con il suo doppio prediletto.
Nathan Zuckerman era entrato in campo nel ruolo dello Scrittore fantasma nel 1979 e venne congedato brutalmente da Roth nel 2007, dopo un trentennio di onorati servizi, distribuiti lungo una decina di romanzi, l’ultimo dei quali era stato eloquentemente titolato dallo scrittore americano Il fantasma esce di scena. All’epoca della sua comparsa, Zuckerman era un giovane entusiasta, focoso esploratore di mete sessuali e ardente neofita in ambito letterario, pendente dalle labbra del suo scrittore preferito, E. I. Lonoff, perché gli elargisse quella «convalida patriarcale» che il padre non sarebbe stato in grado di dargli: non solo perché altri non era se non un modesto pedicure, ma anche perché non aveva apprezzato il fatto che il figlio avesse trasferito una poco nobile storia di famiglia nel suo esordio romanzesco, compromettendo per sempre il loro buon nome e quello di tutti gli ebrei.
Quando Roth lo fece uscire di scena, Zuckerman era ormai un attempato, famoso scrittore, che i postumi di una operazione per un cancro alla prostata avevano reso incontinente e, quel che è peggio, ridotto all’impotenza. Disilluso e solitario, Zuckerman viveva allora in una casetta sui monti dei Berkshire, estraneo alle contingenze e proiettato nel passato, quel passato che gli rimandava i pochi ricordi dell’unica visita al maestro Lonoff. Ma le prospettive di una operazione che gli restituisse le funzioni perdute lo portarono a Manhattan, dove insieme alla speranza e a dispetto del disincanto si rianimarono i sensi tacitati, e insieme a questi le antiche insofferenze, la nostalgia, i ricordi.
NATHAN ZUCKERMAN era ormai un uomo che aveva finito da un pezzo di recitare «il dramma della scoperta di se stesso», ma ciò nonostante avrebbe finito con il precipitarsi nella direzione contraria a quella che la prudenza gli indicava. Aveva alle spalle un lungo a faticoso passato di alter ego, la cui performance più elaborata era stata probabilmente quella consumata tra le pagine di un romanzo del 1986, La controvita, nel quale era voce narrante e alternativamente oggetto del racconto di altri, creatura esemplarmente artificiosa e quindi convinta del fatto che tutt’al più possiamo fidarci delle interpretazioni, ma che la verità non esiste. «Essere Zuckerman è una lunga recita» – si lamentava – «esattamente l’opposto di ciò che si intende con l’espressione essere se stessi».
È PROBABILE CHE, in quanto cultori della materia, chiamati a scegliere le pagine migliori di Philip Roth, i suoi alter ego estrarrebbero dai libri di cui sono loro stessi protagonisti le pagine in cui risuona più forte il sarcasmo del loro creatore, e insieme tutte quelle in cui egli ha riversato le sue più private ossessioni: lo stereotipo dell’ebreo piccolo borghese di miserabili vedute, la cupidigia sessuale, il terrore della malattia e della morte. Eppure il talento di Philip Roth non risalta solo in virtù dei suoi eccessi. Nessuno meglio di Nathan Zuckerman potrebbe testimoniarlo, ricordando una delle stagioni narrative più felici di cui fu protagonista: quella che si era inaugurata con Pastorale americana ormai quindici anni fa. Qui, l’alter ego di Roth ripercorreva la vita di un uomo che tutti chiamavano lo Svedese, apparentemente così sicuro di sé nella sua mediocrità da far sospettare di non essere «incrinato dal pensiero». Niente di più sbagliato: quello stesso uomo, in realtà, viveva tormentato dalla responsabilità di una figlia che nel 1969, in piena guerra del Vietnam, aveva interpretato la sua protesta politica facendo scoppiare una bomba e uccidendo, così, un passante. «La gente pensa che la storia abbia il respiro lungo, ma la storia in realtà, ti si para davanti all’improvviso», aveva commentato Zuckerman. Che appena un anno dopo tornò a imporre la sua voce in un altro romanzo magistrale, Ho sposato un comunista, le cui vicende sono ambientate nell’America del maccartismo e riprendono il titolo del libro in cui la protagonista femminile, l’ex diva Eva Frame, racconta il suo matrimonio con Ira Ringold, attore radiofonico di umili trascorsi ma soprattutto simpatizzante comunista.
TRE ANNI DOPO, con le trecentosessanta pagine titolate La macchia umana, Philip Roth chiudeva la sua fortunata trilogia facendoci piombare nel cuore del feuilleton che vide protagonisti Clinton e Monica Lewinsky. Ma l’affaire non costituisce che lo sfondo: la scena principale, invece, è occupata da un ex docente universitario costretto a lasciare la sua cattedra in ragione di una pretestuosa accusa di razzismo. Nel raccogliere la rabbia di Coleman, nel risalire le tappe della sua vita già di per sé intricata quanto un romanzo, Nathan Zuckerman aveva scoperto che quella vita gli era diventata «più cara della sua»: era la vita di un uomo che nascondeva antenati di colore, un uomo mai rassegnato alla sua origine e dominato, perciò, dal risentimento.
Forte di queste sue performances alle spalle, ora Zuckerman potrebbe a buon diritto contestare a Philip Roth la decisione di averlo estromesso da alcuni romanzi che, infatti, orfani della sua voce hanno rivelato una insolita debolezza. Everyman, per esempio, che sostenuto da una scrittura veloce e da una trama essenziale ripercorre la decadenza fisica di un uomo senza nome: one of us, o meglio di quei personaggi che lo scrittore americano immagina insidiati dai fantasmi della malattia e della morte. E Indignazione, che racconta la storia di Marcus Messner ripercorrendo i passaggi tipici della vita di uno studente in attesa di unirsi alle migliaia di ragazzi americani che andarono a farsi ammazzare nella guerra di Corea, finché l’emozione seguita all’incontro con la prima ragazza significativa non lo induce a rivelarci che la sua voce è quella di un morto, e il suo racconto la ricapitolazione di una giovane vita, stroncata da un colpo di baionetta sulle colline assaltate dalle armate cinesi.
Naturalmente, non è un caso, e se lo è sembra un caso di finzione, che l’ultimo tra i romanzi licenziati da Philip Roth si intitoli Nemesi, quasi a sigillare preventivamente una stagione che già denunciava sintomi di stanchezza. Sinistro e dotato di risonanze tragiche, il titolo del romanzo evoca gli arbitrii della dea dispensatrice di giustizia e allude al risentimento per una disgrazia immeritata, l’epidemia di poliomielite che si abbatté, nell’estate del 1944, sulla cittadina di Newark, teatro consueto dei romanzi di Philip Roth.
E COSÌ, CON QUESTO BREVE romanzo tratto dalle memorie di una estate infantile, si è chiusa la carriera di quello che è stato forse il più dotato tra gli scrittori contemporanei, solipsisticamente concentrato sulle ossessive proiezioni del proprio Io, e perciò giudicato immeritevole di guadagnarsi il Nobel che, da anni, assume le virtù letterarie quali trascurabili effetti collaterali di non si sa bene quale geopolitico principio redentore.
Ora, forse sussurrando melliflue formulette d’antan sulla morte dell’autore, i suoi alter ego si prenderanno una rivincita sulle perfidie di cui Roth li ha resi protagonisti, sebbene alla fin fine toccherà loro rassegnarsi al ruolo di testimoni di una inappellabile volontà che tutti li trascende: la volontà dell’autore, appunto.

il manifesto 24.5.18
Philip Roth, le ossessioni che fecero grande uno scrittore per sempre nel canone
Protagonisti. È morto a 85 anni per insufficienza cardiaca. Da sei aveva annunciato il suo addio alla letteratura. Figlio di immigrati galiziani di origine ebraica, era nato nel 1933 a Newark, luogo elettivo del suo sarcasmo
di Luca Briasco


Se si vuole sintetizzare in una circostanza specifica la prodigiosa carriera di Philip Roth, è probabile che la si debba individuare nell’assegnazione del premio Pulitzer per la narrativa del 1998. I giurati si trovarono a dover scegliere tra quelli che rimangono forse, nella memoria collettiva, i due più grandi romanzi americani degli ultimi vent’anni. A vincere fu Roth, con Pastorale Americana, mentre il grande sconfitto fu Underworld, di Don DeLillo. Prescindendo da qualunque valutazione di ordine qualitativo – probabilmente inutile, di fronte a opere di questa portata – il successo di Roth ha tanto più oggi il valore di un vero e proprio spartiacque: a perdere la contesa, con Underworld, fu il romanzo-mondo, il megathon novel erede di una gloriosa tradizione che include alcuni capisaldi del postmoderno come Le perizie di Gaddis o L’arcobaleno della gravità di Pynchon; a prevalere, con Pastorale americana, fu essenzialmente un romanzo di famiglia, nel quale Roth si confrontava ad armi pari con l’amico e rivale John Updike ma soprattutto inaugurava una vera e propria «nuova tradizione», che ha nel Jonathan Franzen delle Correzioni e di Libertà o nel Jonathan Safran Foer di Eccomi i suoi esponenti più convinti.
Pastorale americana rimane oggi, a trent’anni da quel Premio Pulitzer, il libro più letto di Roth – e il più amato, insieme a Lamento di Portnoy e (forse) a Il teatro di Sabbath, anche se la fama dell’autore si era già consolidata in precedenza, se è vero che nel 1994 Harold Bloom aveva incluso ben sei suoi titoli all’interno del proprio Canone occidentale. Per comprendere il fascino e la centralità di Pastorale, anche a prescindere dalla «leva» immediata rappresentata dal conferimento del Pulitzer, è allora necessario ripensarne la struttura, le dinamiche interne e la collocazione all’interno della traiettoria dell’autore.
UN PERCORSO NARRATIVO, quello di Roth, particolarmente complesso, segnato da irrequietudini, spinte sperimentali e da un dialogo costante con la cultura e le tendenze letterarie di un cinquantennio e più. Erede e al tempo stesso decostruttore della tradizione ebraico-americana, Roth aveva contribuito – soprattutto nella prima fase della sua carriera, o quanto meno a partire da Lamento di Portnoy – a introdurre uno dei temi fondamentali del dibattito sul nuovo sperimentalismo che avrebbe dominato tutti gli anni Sessanta e buona parte dei Settanta. Il realismo di maestri quali Bellow e Malamud gli appariva non tanto contestabile per motivazioni formali, quanto superato e reso inattuale dallo sviluppo stesso della società americana, contraddistinta da un’inarrestabile velocizzazione delle relazioni come della trasmissione dei messaggi culturali, e dalla conseguente frammentazione e dispersione dell’identità. Identità che, in molti dei migliori romanzi di Roth, ci viene presentata attraverso il filtro dell’ossessione erotica e del sesso, in un percorso di indagine nel quale la polemica contro il perbenismo della società americana, il perseguimento del piacere e la scoperta di sé coincidono e si rafforzano a vicenda.
Questa posizione critica si era tradotta nello slancio sperimentale che Roth aveva introdotto progressivamente nella sua stessa opera, e che aveva trovato nella tetralogia di Zuckerman – con il suo raffinato intarsio tra fiction e autobiografia –, nella furibonda esuberanza de Il teatro di Sabbath e nel folle gioco di doppi e sosia su cui è incentrato Operazione Shylock i suoi momenti più intensi e convincenti.
In Pastorale si respira invece un curioso sentore di classicità. Il romanzo è prima di tutto la storia di una famiglia ebreo-americana e di un predestinato: Seymour Levov, detto lo Svedese, un uomo che dovrebbe aver avuto tutto, dalla vita. Alto, biondo, occhi azzurri: un aspetto fisico che sembra negare la sua stessa origine ebraica e aprirgli la via di una facile integrazione. Atleta impareggiabile, eroe del suo liceo, lo Svedese eredita la fabbrica di guanti del padre e si sposa con la reginetta del New Jersey, cattolica e irlandese.
UNA STORIA DI SUCCESSO che va però a urtare contro un evento destinato a trasformare la pastorale americana del titolo in tragedia: l’attentato a un ufficio postale in cui un uomo perde la vita e di cui è responsabile la figlia dello Svedese: Merry, una ragazza complessata, indocile e ribelle, pronta a contestare alla radice il sogno integrazionista e democratico che il padre era ormai a un passo dal consolidare.
Il conflitto generazionale è l’unica chiave di lettura degli eventi: almeno dalla prospettiva di Seymour, che mostra ben poco interesse per le ragioni e i torti della protesta anti-Vietnam cui Merry aderisce, e legge l’attentato come l’interruzione di una catena virtuosa, «la perdita della figlia, la quarta generazione americana… La figlia che lo sbalza dalla tanto desiderata pastorale americana e lo proietta in tutto ciò che è la sua antitesi e il suo nemico, nel furore, nella violenza e nella disperazione della contro pastorale: nell’innata rabbia cieca dell’America.»
Ora, però, c’è un punto che spesso, e proprio per l’intensità, la forza e la classicità della saga dei Levov, tende a sfuggire, quando si parla di Pastorale americana: anche in questo caso, il romanzo ha un narratore interno, e non uno qualsiasi, bensì quello stesso Nathan Zuckerman che Roth aveva messo al centro di alcuni tra i suoi libri più feroci e sulfurei, come Zuckerman scatenato e La lezione di anatomia. Compagno di scuola di Jerry Levov, il fratello minore di Seymour, Nathan è vissuto nel mito dello Svedese, ma è anche terrorizzato dalla sua perfezione, dall’apparente assenza, nell’eroe, di quella «macchia umana» (per citare il titolo del successivo romanzo di Roth) senza la quale non si dà progressione narrativa, tanto meno tragedia.
Per arrivare a raccontare «la tragedia dell’uomo impreparato alla tragedia: cioè la tragedia di tutti», Zuckerman è allora costretto a elaborare le poche informazioni raccolte sul conto dello Svedese e trasformarle in una «cronaca realistica», rinunciando a qualunque slancio metanarrativo. La soggettività dello Svedese, inventata e creata a partire dall’illeggibilità della sua perfezione, si apre al caos della storia, subisce la rivolta generazionale, vede la sua pastorale trasformarsi in contro pastorale.
QUELLA DI ROTH si configura dunque come una scelta deliberata: a partire da Pastorale (e proseguendo con La macchia umana e Ho sposato un comunista) si compie un’opera di sistematica ricodificazione dei temi già affrontati nelle opere precedenti, nella quale all’esplorazione diretta della scena contemporanea si sovrappone la rievocazione nostalgica di un tempo e di un sistema di valori e sogni ormai irrecuperabili. Di questa ricodificazione, che ha peraltro sancito in via definitiva l’ingresso di Roth nell’Olimpo dei classici, è testimonianza una serie di romanzi strutturalmente perfetti e sorprendentemente armoniosi, spesso imperniati su una qualche forma di conflitto generazionale e lontani dalla frenesia e dalla furibonda inventiva delle opere precedenti: serie che trova nelle due ultime opere, Indignazione e Nemesi, e nel silenzio che le ha seguite fino alla morte dell’autore, il proprio naturale compimento.

Il Sole 24.5.18
La conquista dell’identità. Un argomento continuo nella sua opera
Giacobbe postmoderno in lotta con la casa ebraica
di Giulio Busi


Non si diventa uno dei più grandi autori del secondo dopoguerra con un solo talento. Philip Roth ha battuto molte strade. Una delle sue vie porta dritto alle ossessioni sessuali. È un cammino di parole azzardate, di metafore crude, di ribellioni verbali ancor prima che morali. Un’altra via lambisce la morte, la decadenza, la sconfitta. Mai pietoso, mai eufemistico, Roth ha costruito il proprio stile con fenditure, graffi, discese verticali verso il fondo della pagina.
C’è qualcosa, nella sua prosa, che ricorda i tagli di Lucio Fontana. Slabbrature che inaugurano una nuova spazialità, oltre le convenzioni pittoriche, nel caso di Fontana. E crepacci del dire che impongono una diversa verità espressiva, nella scrittura di Roth. Le sue parole, negli anni Sessanta della ribellione generalizzata, suonano volutamente acide, corrosive, scandalose. A parecchi ebrei, Roth appare come un nemico.
Alla pubblicazione del Lamento di Portnoy, nel 1969, che consacra il suo successo, Gershom Scholem, il grande studioso di misticismo ebraico, scrive una recensione al vetriolo, in cui afferma, tra le altre cose: «questo è il libro che gli antisemiti pregavano di avere». Troppo cruda la rappresentazione del mondo ebraico, e troppo distante dai modelli rassicuranti del successo e dell’integrazione nel sogno americano.
Eppure, quasi tutta l’opera di Roth è anche una vasta, imponente casa ebraica. Un edificio in cui il lettore fatica a entrare, almeno quanto lo scrittore si sforzi faticosamente di uscirne. A esergo del suo primo romanzo, Goodbye Columbus, Roth scrive una sola, enigmatica frase: «Il cuore è un mezzo profeta», accompagnata dalla dicitura “Proverbio yiddish”. È come se venisse a prenderci sulla soglia di casa, con una promessa invitante ma subito smorzata. Perché “solo mezzo”? Chi deve metterci l’altra metà, in questo cuore, affinché le sue profezie si possano avverare?
La forza di Roth è stata quella di circumnavigare, libro dopo libro, i vuoti, le manchevolezze, le ombre del giudaismo proprio e altrui, senza abbellimenti. Parlavamo di tagli sulla tele e nella pagina. Se pensate che rovinino la superficie, quell’arte non fa per voi. In una difesa pubblicata negli anni Settanta, Roth scrive che «la disapprovazione che alcuni ebrei vedono nelle mie descrizioni ha più a che fare con la loro morale che con quella che essi stessi mi ascrivono. Talvolta vedono malvagità dove io ho invece visto energia, coraggio o spontaneità».
Energia, è questo che il giudaismo significa nell’opera di Roth.
Un’energia debordante, contradditoria, difficile da controllare. In uno dei suoi lavori più complessi, l’Operazione Shylock, del 1993, Philip Roth si trova a contrastare un suo sosia che - spacciandosi per lui - tenta di promuovere l’abbandono di Israele in favore della diaspora. Moishe Pipik, questo il nomignolo affibbiato al falso Roth, sostiene che Israele sia la fonte di tutti i mali, mentre la sola salvezza risiederebbe nel ritorno in Europa. Un gioco di specchi, in cui negatori e negati, amici e nemici, odio antisemita e autodenigrazione s’intrecciano continuamente. Lo scontro tra il “vero” Roth e il suo doppio diviene un vero e proprio agone fisico.
La casa ebraica, di cui cercavamo l’entrata, si trasforma qui in uno spazio notturno, carico di tensione, che non può che ricordare la lotta biblica di Giacobbe con l’angelo. Ma Roth è un Giacobbe postmoderno che si trova a combattere contro se stesso e, contemporaneamente, si divincola tra i sogni, o gli incubi, altrui. Il sosia Pipik non è certo solo un angelo, foss’anche quello della morte. È un fantasma nato dalle paure che si portano nell’anima, dalle pulsioni, dai desideri, allo stesso tempo fallaci e irresistibili.
La lotta di Philip Roth, durata ben più di una notte, è anche quella con l’ebraismo, tra dubbi sfinenti e riconquistate certezze. Il lettore che si lascia trasportare dal grande epos ebraico-americano di Roth non deve aspettarsi ricompense immediate. Bisogna conquistarsela, quella metà della profezia che il cuore non sa immaginarsi. Non è questione di opporsi alle tradizioni, o di lasciarsi traviare dai difetti ebraici, veri o presunti. La profezia che manca viene dalla lotta, dai lati sfrangiati del racconto, dall’incompletezza.
La parte che non c’è è la più necessaria. Per questo esistono i proverbi yiddish, perché si possa esser certi che manca ancora molto, prima di giungere alla meta. E di quel molto, che ci piace chiamare letteratura, Roth è stato un maestro ineguagliato.

Repubblica 24.5.18
Addio, maestro
Philip Roth. Lo scrittore esce di scena
di Nicola Lagioia


È morto a 85 anni il profeta del grande romanzo americano Autore di oltre trenta opere, da sempre candidato al Nobel, abbandonò la scrittura sei anni fa. Aveva lasciato detto: “Distruggete i miei archivi”
Rimane il fatto che capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando». È a questo punto di Pastorale americana, uno dei migliori romanzi del secondo Novecento, che Philip Roth, se non il più grande in assoluto (come lui nati nei Trenta: Thomas Pynchon, Toni Morrison, Cormac McCarthy) probabilmente il più robusto, il più tenace, il più influente, il più completo scrittore americano della sua generazione e di quelle a seguire, portava il suo alter ego Nathan Zuckerman a nutrire i primi dubbi sulla propria ricerca e noi lettori a morire di piacere tra le pieghe di una storia in cui nulla è come sembra. Oggetto dell’indagine: Seymour Levov, lo “Svedese”, ex atleta modello, simbolo di una presunta innocenza americana e vecchia conoscenza dell’io narrante.
Addentrarsi nella vita di Levov ormai anziano – scoprire, dietro la rispettabilità borghese, una tragedia privata resa più insopportabile dal sale della commedia – porterà Zuckerman a smantellare uno dopo l’altro (la famiglia, il matrimonio, il patriottismo, il diritto alla felicità) tutti i pilastri su cui gli Stati Uniti avevano creduto di reggersi.
Adesso che Philip Roth è morto e Donald Trump non smette di twittare, guardiamo ammirati quel formidabile libro come un’oasi di intelligenza in un deserto di qualunquismo, un inno alla complessità scagliato contro un tempo che punta tutto sulla semplificazione. Ma gli esseri umani non sono semplici per niente, e su questo Roth ci ha impartito per mezzo secolo una lezione magistrale. E modesta. Il suo addio alla scrittura annunciato nel 2012 si accompgna alle sue ultime volontà: distruggere gli archivi affinché nulla resti che non sia perfetto come ciò che ha pubblicato in vita.
Pastorale americana è del 1997. Il romanzo lascia tutti di stucco.
Massimo della complessità nel massimo della leggibilità. La cosa più stupefacente è la serie di capolavori che Roth in quel periodo riesce a licenziare uno dietro l’altro senza fermarsi un attimo. Operazione Shylock è del 1993, Il teatro di Sabbath del 1995, Ho sposato un comunista del 1998, La macchia umana del 2000, L’animale morente dell’anno successivo. Quale altro scrittore americano – eccettuato forse Faulkner nel decennio 1929-39 – era riuscito a dare così tanto in così poco tempo? Aggiungete che lo scrittore sessantaquattrenne di Pastorale era anche quello che, quasi trent’anni prima, aveva provocato già un terremoto pubblicando Lamento di Portnoy, un magnifico gesto di indipendenza e insieme un atto d’amore verso le debolezze della natura umana (così ridicola, sconcia, imprevedibile) scambiato per oltraggio al pudore. Certo Roth ha eccelso in ogni disciplina a cui si è dedicato. È stato un ottimo autore di short stories (l’esordio di Addio Columbus), ha raccontato mirabilmente la follia del sesso (da Portnoy in poi), si è emancipato dalle proprie origini in modo pressoché istantaneo (indignò l’ala più ortodossa della comunità ebraica dai primi racconti pubblicati sul New Yorker) ma al tempo stesso ci ha regalato uno dei più alti esempi di amore filiale e autofiction ante litteram con Patrimonio, tutto incentrato sulla morte di suo padre. Ha inventato uno degli alter ego più riusciti di sempre (il ciclo di Zuckerman, ma non dimentichiamo David Kepesh), e ha reso omaggio ai suoi maestri senza lasciarsene schiacciare (Saul Bellow) o arrivando quasi a parodiarli (probabilmente c’è Bernard Malamud dietro Lo scrittore fantasma). Ha raccontato divertendosi gli Stati Uniti di Nixon ( Cosa Bianca Nostra) e in modo sublime l’America ai tempi dell’affaire Lewinsky ( La macchia umana). Addirittura Roth si è cimentato in una distopia che rischia adesso di apparire una premonizione ( Il complotto contro l’America è tornato tra gli scaffali delle librerie americane dopo l’elezione di Trump).
Roth il più grande naturalista del secondo Novecento? Nasciamo senza averlo deciso, preghiamo un dio che non esiste, in una famiglia che amandoci rischia di distruggerci, siamo schiavi del sesso, lottiamo per ottenere un premio che non ci renderà felici, fraintendiamo ogni cosa quanto più ci sentiamo vicini alla soluzione di un problema, a un certo punto moriamo ed ecco tutto – sono questi pochi accordi che danno vita, prodigiosamente, all’infinità di combinazioni capaci di far risplendere da secoli l’arte di raccontare storie.
Questo per Philip Roth è certamente vero, ma c’è altro. Se Pastorale americana e Lamento di Portnoy sono i suoi libri più famosi, il più estremo e forse il più bello è Il teatro di Sabbath. Qui il comico acquista una profondità ulteriore, il sesso rima perfettamente con la morte, e attraverso l’unico dei suoi campioni non borghesi, il burattinaio dissoluto Mickey Sabbath, così vitale, disperato, violento, Roth riesce a ingaggiare a un certo punto un dialogo con Shakespeare: il cimitero dove Sabbath si masturba sulla tomba dell’ex amante Drenka è lo stesso in cui Amleto vede il teschio di Yorick, un cimitero, un castello, la stanza di un hotel, la dimensione altra in cui l’arte, mostrando le colonne d’Ercole dell’uomo, lo scopre sotto una luce che in natura non esiste.

Corriere 24.5.18
Philip Roth 1933 - 2018
Rischiò se stesso attraverso i romanzi
Adesso tocca a noi
di Richard Ford


Ho conosciuto Mr. Roth soltanto attraverso i suoi romanzi e i suoi racconti, che ho letto con enorme ammirazione letteralmente attraverso tutta la mia — ormai piuttosto lunga — vita. Era uno scrittore avventuroso, che aveva il coraggio di raccontare e immaginare quelle verità spesso dolorose con le quali non sempre siamo in grado di fare i conti dentro di noi.
Le nostre vite di esseri sessuali, il nostro ruolo nelle nostre famiglie (il ruolo di padre, di figlia), le nostre identità di cittadini della nostra repubblica, la nostra — presunta — identità religiosa.
Usò se stesso — come uno scrittore o una scrittrice fanno, quando ne hanno la forza — come cavia umana, per il beneficio altrui.
La mia paura più grande — che sento con forza nel giorno della morte di Mr. Roth — è che questo coraggio, da parte degli scrittori, sia in via d’estinzione, destinato a essere ulteriormente soffocato dalla correttezza politica, dal potere coercitivo del denaro sulle industrie che, storicamente, hanno supportato la scrittura e l’immaginazione, e (specialmente in America, che è stata uno dei grandi argomenti affrontati da Mr. Roth) dai laidi, violenti effetti della censura che scaturisce dall’opportunismo politico.
Roth ha sofferto per aver fatto uso della libertà della sua immaginazione. Spero che noi che restiamo possiamo essere disposti a correre rischi con i nostri libri, proprio come ha fatto lui.

Corriere 24.5.18
Il nichilista che svelò l’America
Ossessionato dalla caducità della vita umana e dalle sue contraddizioni, per raccontare le sue storie partiva sempre dall’io. E dalla cucina di casa
di Alessandro Piperno


Philip Roth — insieme a un paio di scrittori morti secoli fa — è l’individuo che non conosco con cui ho passato più tempo in tutta la mia vita. Lo frequento da quando arrampicandomi sulla libreria dei miei genitori in salotto, su su fino all’ultimo scaffale zeppo di romanzi proibiti, misi le mani sul Lamento di Portnoy . Allora scoprii che tre anni prima della mia nascita qualcuno aveva saputo parlare del cuore nero dell’adolescenza in un modo che nessuno (neanche il compagno di classe più intraprendente e sboccato) avrebbe potuto eguagliare.
Da allora ho recuperato dapprima i romanzi dei tardi anni Settanta e dei primi anni Ottanta mal editati (almeno in Italia) e così sfortunati, per poi lasciarmi andare sempre più sbigottito alla gigantesca, stupefacente resurrezione che, per dirla con Coetzee, ha sfiorato «vette shakespeariane» tra il ’95 e il ’97, quando Roth diede alle stampe Il teatro di Sabbath e Pastorale americana, ovvero quanto di più toccante e ambizioso uno scrittore abbia prodotto nell’ultimo mezzo secolo.
Ieri mattina mentre si diffondeva la notizia della sua morte — preso dal sentimentalismo corrivo e melenso che ogni tanto ci illanguidisce i cuori e di cui subito ci vergogniamo — ho mandato un messaggio a un amico con cui da lustri condivido l’idolatria rothiana: «Gli avevo a stento perdonato la decisione di non scrivere più, ma questo?». La risposta, non meno retorica in fondo, mi è sembrata un magnifico epitaffio: «Si finisce per scambiare l’immortalità della carta con l’immortalità della carne».
La beffa è che se c’è un romanziere che non ha scommesso sull’eternità, quello è Philip Roth. Anzi, prevedeva che nel corso di un quarto di secolo i lettori di narrativa si sarebbero assottigliati al punto da ridursi al novero di cultori della poesia latina. Mi auguro che avesse torto — se non altro per la salute del mio conto in banca — ma riconosco in tale affermazione tutto il realismo rothiano, inteso come buon senso della realtà.
Roth appartiene ai rari giganti della letteratura — da Montaigne a Joyce — che non se la sono mai raccontata. Che non hanno mai scambiato la propria dedizione all’arte per una cosa seria e indispensabile per il resto dell’umanità. Che hanno lavorato indefessamente, senza mai illudersi che ciò avrebbe potuto cambiare qualcosa. E lo hanno fatto perché non poteva essere altrimenti. «Lavoro tutto il giorno, mattina e pomeriggio, sette giorni su sette. Se mi ci metto per due o tre anni, alla fine ho un libro». Semplice, no? Sì, se hai la carica sexy di Philip Roth, il suo carisma morale, la sua sfrontatezza artistica. Del resto, è difficile spiegare a chi non lo capisce quanto persuasivi, vitali, euforizzanti siano gli inconfondibili giri di frase rothiani, l’eloquenza, la sintassi teatrale, gli avverbi ossessivi e tonitruanti. E i punti interrogativi? Chi altro ha saputo dare un simile lustro alle forme interlocutorie?
Il fatto è che Roth è attratto dalle contraddizioni, e da tutto ciò che è storto e non funziona, è animato dal sospetto che nella vita i conti tornino raramente. In tal senso è un autentico moralista. In uno dei passi più celebri di Pastorale americana scrive: «Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi; sbagliando».
Era dai tempi di Port Royal che uno scrittore non parlava in modo tanto franco e ossessivo dell’ineluttabilità della morte e della caducità della vita umana. E ciononostante la narrativa di Roth, con tutte le sue divagazioni cimiteriali, i suoi affreschi plumbei, le patologie invalidanti, è gioiosa, come sanno essere gioiose solo le cose belle e le cose vere. Lo so, forse, date le circostanze, sarebbe più saggio e didascalico soffermarsi sull’America, sul sesso, sulla misoginia (che d’altronde io non ho mai riscontrato), sull’onanismo, sull’assimilazione ebraica, sui conflitti etnici, sull’epica e sull’ambizione, insomma sui temi à la page che impreziosiscono la narrativa rothiana; ma si dà il caso che, almeno per me, il cuore dell’opera di Roth sia racchiuso nel titolo di uno dei suoi libri meno belli: My Life as a Man, la mia vita di uomo. E Dio ha voluto che la sua vita combaciasse con la letteratura, in un matrimonio talmente difficile che a un certo punto Roth ha chiesto il divorzio, appendendo la penna al chiodo. «Anche l’arte è vita» si accalorava con un’intervistatrice di un noto settimanale francese. «Capisce? Isolamento è vita, meditazione è vita, fingere è vita, fare congetture è vita, contemplare è vita, la lingua è vita».
Ciò che molti detrattori hanno confuso per egotismo altro non è che la constatazione che la sola maniera per scrivere qualcosa di decente è partire da sé, tornare ossessivamente a se stessi, a costo di essere equivocati o vilipesi. Gli alter ego rothiani — Alex Portnoy, Nathan Zuckerman, David Kepesh e Philip Roth stesso con tanto di sosia annessi — non svolgono la stessa funzione degli pseudonimi in Stendhal o degli eteronimi di Pessoa. Roth non li inventa per nascondersi o per reinventarsi. Lo fa per essere ancora più schietto e spietato. Nell’intervista alla «Paris Review» del 1984 Hermione Lee gli chiede: «Quando scrive in testa ha un lettore in particolare?». La risposta è tanto spiritosa quanto emblematica: «No. A volte mi capita di avere in testa un lettore anti-Roth. E penso, come odierà questa cosa. Il che può rivelarsi proprio la spinta di cui ho bisogno». Non è facile resistere alla tentazione di compiacere il lettore, ma provocarlo deliberatamente è un esercizio ancor più complicato. E tuttavia riuscire a metterlo con le spalle al muro, alle corde, di fronte al suo perbenismo e al suo puritanesimo, può dare gioie impagabili. Ecco un’altra lezione da tenersi stretti.
C’è una cosa piccola di Philip Roth che mi ha sempre sorpreso e intenerito. Se date un’occhiata ai suoi ultimi libri in hardcover — le edizioni americane naturalmente — troverete la sua biografia zeppa di onorificenze che neanche un ambasciatore o un generale pluridecorato. Premi su premi, e tra i più internazionalmente prestigiosi. Ripeto: la cosa mi ha sempre sorpreso e intenerito. Mi dicevo: che te ne fai di questa roba? Sei Philip Roth. Sei tu che dai lustro a quelle bigie istituzioni, non viceversa. Del resto, ho sentito dire che il Nobel mancato fosse un serio problema per lui. Anche questo mi sembra incredibile. Il Nobel? A che ti serve il Nobel? Non ti basta esserti inventato Mickey Sabbath, Drenka Balich e il loro funambolico amore adulterino?
Eppure, pensandoci bene, anche questo esprime al meglio la contraddittorietà di Philip Roth. Immagino che quei riconoscimenti avrebbero riempito di orgoglio i suoi genitori, soprattutto il padre per cui Philip aveva un’autentica venerazione. Roth passa per il grande distruttore delle famiglie, l’accusatore indefesso dell’istituzione patriarcale. È lui ad aver detto: «Quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita». È così che stanno davvero le cose? C’è uno scrittore che, nel suo sostanziale ateismo, materialismo, nichilismo, abbia coltivato un culto per gli avi, per i penati, in poche parole per la genealogia familiare più di Philip Roth? A me pare proprio di no.
A un tratto, ne La controvita, durante un litigio tra i fratelli Zuckerman, Henry chiede con sarcasmo a Nathan: «Dimmi una cosa, è mai possibile, almeno fuori dai tuoi libri, che tu abbia un quadro di riferimento un po’ più vasto del tavolo della nostra cucina di Newark?»; Nathan gli risponde: «Il caso vuole che il tavolo di quella cucina di Newark sia la fonte di tutti i miei ricordi ebraici».
Ora che la sua vita è finita, che la sua opera è chiusa per sempre, è facile notare come Roth abbia impiegato metà dei suoi libri a fuggire da quella cucina, e l’altra metà provando a rientrarci. È così che funziona, no? Da ragazzo non pensi che a scappare di casa, da adulto metti in atto i propositi libertari, da vecchio faresti di tutto per tornare all’ovile. Troppo tardi: ogni cosa che ti faceva palpitare e infuriare è venuta meno e ciò che resta parla una lingua aliena.

La Stampa 24.5.18
Philip Roth
Il sesso, la vanità i legami sociali
La sua ironia nulla risparmiò
di Elèna Mortara


Era una giornata di cielo terso e sole splendente. Accanto alle finestre aperte sulla vista di Manhattan, abbiamo trascorso quasi tre ore in conversazione intensissima, costellata di ricordi e talvolta di grandi risate. Avviandoci verso la porta di casa, mi aveva indicato i disegni satirici appesi alle pareti accanto all’ingresso, ispirati al suo romanzo Il seno: versione rothiana, grottescamente autoironica, del racconto di Kafka La metamorfosi, ove si racconta del prof. David Kepesh che, ossessionato dal sesso, si trova trasformato in una gigantesca mammella. Con il tono tra il serio e lo scherzoso, aveva osservato, un po’ rivendicativo: «Con questo romanzo, io ho anticipato la cultura transgender!». Sapeva di essere stato un rivoluzionario e di non essere stato sempre capito.
In questo momento di grande dolore per la perdita di Philip Roth, la perdita dello scrittore, la perdita dell’uomo, se ne ricerca la voce nei suoi libri, che rimarranno monumentali a raccontare l’America, a partire dalla condizione di quella enclave ebraica a lui familiare che stava entrando nel mainstream americano negli anni del suo esordio, a raccontare la condizione umana in tutta la sua imperfezione e i suoi conflitti. Ma per chi lo ha conosciuto, è un dovere condividere anche, per quanto possibile, il ricordo della sua voce di uomo.
Racconterò un momento molto particolare del nostro incontro. Stavamo parlando del primo testo ripubblicato nella nuova splendida raccolta di saggi uscita in America nel 2017, Why Write?, che si apre con un suo saggio-racconto del 1973 dedicato a Kafka: un testo di natura ibrida, che inizia in forma saggistica per poi diventare racconto di invenzione, in cui lo scrittore immagina che Kafka, sopravvissuto e arrivato in America da profugo, fosse diventato il suo insegnante alla Hebrew School, il doposcuola ebraico che Roth aveva frequentato da ragazzo nel suo amato quartiere di Newark.
Ricordo che in quel saggio-racconto,Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno, ovvero, guardando Kafka, a un certo punto lei parla di una associazione di famiglia di oltre duecento persone. Questo è qualcosa che viene dalla realtà, dalla sua esperienza reale?
«Ora le mostro una foto. Vede qui? (si alza, invitandomi a seguirlo, e mostra una grande fotografia appesa alla parete, in cui compaiono circa 150 persone elegantemente sedute a tavola lungo le pareti di un salone) Oh, qui c’è mia mamma! E dov’è mio padre? Eccolo! Sono tutte persone della mia famiglia, dalla parte della mia nonna paterna».
È meraviglioso, è incredibile!
«Sì, questo era molto comune in America negli Anni 20 del Novecento. Le famiglie ebraiche ebbero il diritto di andarsene dall’Europa orientale tra il 1880 e il 1900. E la prima generazione lottò, ma i loro figli, che erano saliti un poco sulla scala sociale, erano più borghesi, formavano queste associazioni familiari, che erano molto comuni tra gli ebrei. Erano una sorta di società assistenziali, prestavano denaro per le sepolture o se qualcuno era malato, avevano un fondo di borse di studio per i ragazzi che andavano al college, per quelli che si trovavano a non aver soldi. E poi c’era un grande sentimento familiare tra loro. Da piccolo, adoravo andarci. Penso che quando è stata scattata questa foto ero ormai troppo sofisticato... Questa è stata scattata nel 1949. Avevo sedici anni. Ero troppo vecchio!»
Era l’inizio dell’età della ribellione... Ma dunque, queste persone erano tutte imparentate?
«Erano tutti imparentate dalla parte di mia nonna paterna. In effetti, è la famiglia della madre di mia nonna: un matriarcato. Questa è la mamma di mio padre, e noi solevamo andare a trovarli ogni domenica mattina a Newark, in una sezione povera della città, dove lei viveva e dove è cresciuto mio padre. Con le nonne ho avuto un legame molto forte. Sì, le ho amate entrambe, sì».
Per andare a casa delle sue nonne si doveva attraversare un cimitero. Questo può aver avuto qualche influenza sulle molte scene di cimitero nella sua narrativa?
«Odiavo passare per quel cimitero, mi spaventava. E durante la guerra, quando la benzina era razionata, per cui avevamo soltanto quel tanto di benzina per l’auto alla settimana, e mio padre aveva bisogno della macchina per il lavoro, così la domenica eravamo soliti andare a piedi. Perciò passavamo a piedi oltre il cimitero».
E dunque chissà se questa esperienza ha lasciato un segno, quando più tardi il tema dei cimiteri è ritornato a galla nella sua mente?
«No, non è così. Penso che sia successo quando ho iniziato ad andare così spesso ai funerali, quando ho superato i 65 anni. I miei amici che avevano quindici o venti anni più di me hanno cominciato a morire, ed io ho iniziato ad andare così spesso ai funerali…».
Ci siamo salutati con un abbraccio, sull’uscio del suo appartamento nell’Upper West Side di New York. Nel salutarlo, lui ancora alto e diritto, affettuoso, credevo fosse un arrivederci, e invece era un addio.

La Stampa 24.5.18
Sferzò il sogno americano
Il Nobel non se ne accorse
di Paolo Bertinetti


A Philip Roth, morto ieri all’età di 85 anni, il Premio Nobel avrebbero dovuto darlo almeno venti anni fa, dopo l’assegnazione dal Premio Pulitzer per Pastorale americana: un capolavoro assoluto, un romanzo che offre un ritratto acutissimo e amaro della società americana, dagli anni del dopoguerra fino a quelli del Vietnam, dalle illusioni e dalle follie della giovane generazione anti-sistema alle illusioni e alle sconfitte di quella uscita dalla guerra. Una generazione che spronata dal clima di esaltazione collettiva che si affermò dopo la fine del conflitto (e dei sacrifici) si lanciò con convinzione ed entusiasmo nella costruzione di un’America più ricca e più grande che mai; e che dopo, come nel caso del suo protagonista, si ritrovò a dover nascondere i fallimenti dietro la facciata del benessere. È in questo romanzo che Roth ha raggiunto il vertice della sua produzione letteraria.
Roth era nato a Newark nel 1933. Suo padre, Herman Roth, figlio di ebrei emigrati negli Stati Uniti dalla Galizia, era un esponente di spicco della comunità ebraica che popolava il quartiere di Newark chiamato Weequahic. Il quartiere e la scuola stessa di Weequahic dove si era diplomato nel 1950 sono stati lo sfondo di molti dei suoi romanzi. Più che lo sfondo: sono stati il terreno fecondo su cui ha fatto crescere la sua invenzione romanzesca, trasformando nei personaggi della finzione, nelle loro vicende, nei loro dilemmi quanto aveva osservato nei suoi anni di formazione.
Questo avvenne tuttavia in un secondo tempo, anche se l’identità ebraica è centrale già nei suoi primi lavori. Ma come oggetto di satira, tant’è vero che il lavoro d’esordio, Goodbye Columbus, gli valse l’etichetta di «ebreo che odiava se stesso per il fatto di essere ebreo». L’accusa, accompagnata dallo scandalo, fu ampiamente rinnovata in occasione della pubblicazione nel 1969 del Lamento di Portnoy, uno dei libri più osceni, scrisse il New Yorker, «che mai siano stati pubblicati». Ma quello che Roth voleva rappresentare era la rivolta della sua generazione contro il perbenismo repressivo dell’ambiente familiare. Alexander Portnoy, un nevrotico giovanotto di Weequahic, ricorre alle cure di uno psicanalista. Il romanzo è il suo monologo sul lettino del terapeuta: una scelta formale brillante, che consente a Roth di sbizzarrirsi in un parlato di irresistibile vivacità - e comicità.
Portnoy non parlava solo della giovane generazione ebraica; ma di tutta quella generazione, e non solo quella americana. Anche per questo fu un successo strepitoso, tanto in Europa quanto in America. Ma fu anche motivo di attacchi durissimi contro Roth, che decise di defilarsi. Nel 1972 si recò a Praga per «rendere omaggio» a Kafka; e al suo ritorno a New York si dedicò allo studio del ceco e alla frequentazione della comunità ceca, prendendo le distanze dall’ambiente letterario newyorchese.
In seguito si trasferì a Londra, insieme all’attrice Claire Bloom (che sposò più tardi), dove trascorse sei mesi all’anno fino al 1989, quando tornò in America per essere vicino al padre gravemente malato. I romanzi più notevoli degli anni londinesi sono quelli che hanno come protagonista lo scrittore Nathan Zuckerman, il suo alter ego: Lo scrittore fantasma, Zuckerman scatenato, La lezione di anatomia e il postmoderno La controvita. Il vertice della sua produzione romanzesca giunse però più tardi, con la trilogia in cui, a partire dalla rivisitazione della sua città natale, delle sue strutture sociali e dei suoi rapporti famigliari al loro interno, seppe offrire una riflessione sull’America del dopoguerra (e sulla sua Storia) che parla non solo agli americani, ma anche a tutti noi.
Pastorale americana, Ho sposato un comunista e La macchia umana compongono una trilogia che affronta temi centrali della realtà americana, la guerra in Vietnam, il maccartismo, la discriminazione razziale, attraverso una scrittura diventata molto più asciutta di quella dei primi lavori ma capace di improvvise impennate liriche, molto «costruita» ma al tempo stesso piena delle cadenze dell’oralità. Anche in seguito, soprattutto in Indignazione e in Il complotto contro l’America, che alcuni considerano un’anticipazione dell’era Trump, Roth seppe riproporci i nodi della Storia attraverso le sue storie, da grande maestro di linguaggio e di invenzione romanzesca.
Il Nobel non glielo hanno dato. Peggio per il Nobel.

La Stampa 24.5.18
Tra sarcasmi e manie rappresentò l’identità ebraica di oggi
di Elena Loewenthal


«Scommetto che hai scritto tante di quelle metamorfosi di te stesso da non sapere più chi sei e chi sei stato» dice al suo creatore Nathan Zuckerman, il personaggio più famoso nonché ricorrente alter ego di Philip Roth. E prosegue, parlando da dentro quello che è, sempre secondo lui, il libro di Roth che ha per protagonista «il meno riuscito dei tuoi personaggi» (cioè l’autore in carne ed ossa). Si tratta de I fatti. Autobiografia di un romanziere, uscito nel 1988: l’unico libro in cui Roth parla esplicitamente in prima persona, ma lo fa subendo le angherie verbali del petulante e implacabile Nathan Zuckerman, presente qui come in tanti suoi romanzi.
Se infatti non c’è nessuno dei libri di Roth in cui l’autore non faccia capolino con le sue verità, le sue angosce e i suoi desideri più o meno inconsci, non è del tutto sbagliato ciò che Zuckerman gli rinfaccia in quelle pagine magnificamente avvitate su se stesse, in cui lo scrittore parla di sé in un continuo alterco con un suo personaggio, il quale a sua volta non gli perdona proprio nulla, a cominciare dal fatto di averlo creato. Proprio in questa autobiografia in cui i ruoli si invertono, Roth diventa il personaggio e Zuckerman una specie di demiurgo - «sei un testo ambulante», gli rinfaccia ancora - si scioglie quello che è il cuore della sua narrativa: l’ossessione ebraica. Roth non ci stava a farsi collocare dentro la «letteratura ebraica» - definizione piuttosto ambigua -, e tuttavia nessuno meglio di lui e dei suoi vari alter ego - a cominciare da Nathan Zuckerman - ha raccontato l’anima ebraica contemporanea, i confini di questa identità che sono per un verso nettissimi e per l’altro inafferrabili, pieni di cose che è quasi impossibile esprimere a meno di non mettere in conto dolore e rimpianti, troppa memoria, speranze sfumate ma anche un ottimismo latente che è fatto soprattutto di amore per la vita. «Non credo di essermi sentito fuori posto solo per il fatto di essere ebreo» racconta ancora Roth. Sta parlando degli anni dell’Università, nell’immediato dopoguerra. Poi nel 1959 pubblica sul New Yorker un racconto che desta il suo primo polverone ebraico: oggi lo si definirebbe poco politicamente corretto. Tre anni dopo, durante una tavola rotonda alla Yeshiva University di New York viene accusato di fomentare l’antisemitismo. «Non scriverò mai più sugli ebrei», racconta nella autobiografia, ma qualche riga dopo aggiunge: «quello fu il vero inizio della mia schiavitù... lo scontro alla Yeshiva, anziché indurmi a non trattare più temi ebraici in narrativa, dimostrava come non mai quanto fosse forte quella rabbia aggressiva che rendeva la questione dell’autodefinizione dell’ebreo e della fedeltà alla causa ebraica così incandescente» insomma, non poteva più fare a meno di scrivere di ebrei.
Ed è stato proprio così, da allora: raccontando se stesso attraverso i suoi romanzi, Roth ha saputo esprimere meglio di chiunque altro l’inestricabile matassa di fede e dubbi, sicurezza e fragilità, angosce e speranze che compone l’identità ebraica di oggi, e forse di sempre.

Il Sole 24.5.18
Crociere
Crescono i passeggeri e le destinazioni tra i ghiacci


Nel 2017 i passeggeri saliti a bordo delle navi da crociera nel mondo è stato pari a 26,7 milioni, al di sopra delle previsioni che si fermavano a 25,8 milioni. È quanto registra Clia, l’associazione internazionale dell’industria crocieristica, che per il 2018 prevede, grazie anche alle nuove imbarcazioni sul mercato, un’ulteriore crescita, fino a 28 milioni di crocieristi. Per l’anno in corso, inoltre, si sta evidenziando un aumento delle preferenze per le destinazioni “fredde”, come il Baltico, il Canada, l’Alaska e l’Antartico (nella foto una nave da crociera di Silversea Cruises tra i ghiacci antartici). Il Nord America (Usa e Canada), col 49%del volume di passeggeri e un incremento annuo del 5% resta la prima area di riferimento; segue l’Europa col 26% (+2,5%) . L’Asia è terza col 15% ed ha registrato nel 2017 la crescita maggiore: +20,5%. Secondo i dati Clia, nel 2017 l’età media di chi seglie un crociera è di 47 anni; i crocieristi italiani, però, sono quelli con l’età media più bassa al mondo (42), mentre i britannici sono i più anziani (57 anni di media). L’anno scorso il comparto ha prodotto un giro d’affari a livello mondiale di 126 miliardi di dollari.