il manifesto 22.5.18
Balcani, la bomba Erdogan
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e sua moglie Emine a Sarajevo
di Tommaso Di Francesco
«Sultan
Erdogan», «Sultan Erdogan» hanno urlato 15mila “turchi d’Europa” che
gremivano domenica scorsa il palazzetto di Zetra a Sarajevo, con
sventolio di bandiere turche e bosniache. Erdogan – dopo un giro
d’affari anche in Serbia – ha scelto il bagno di folla nella capitale
della Federazione croato-musulmana (ormai a stragrande maggioranza
islamica), a quasi un mese dalle elezioni politiche e presidenziali in
Turchia del 24 giugno, e di fronte al rifiuto dei suoi comizi da parte
di Germania, Austria e Olanda dopo il referendum di aprile 2017 sul
rafforzamento dei suoi poteri. Obiettivo dichiarato la diaspora turca di
più di tre milioni di elettori. Quello provocatorio, rimettere piede
nei Balcani a pochi giorni dal vertice Ue di Sofia sull’allargamento
all’Europa del sud-est e chiuso con un nulla di fatto o rigetto. Una
grave responsabilità Ue dopo avere legittimato, a inizi anni Novanta, i
nazionalismi riconoscendo le nuove patrie ex jugoslave proclamate su
base etnica. Una bomba quella di Erdogan. Innescata in terra ex
jugoslava devastata dalle guerre fratricide e a partecipazione Nato. E
tutt’altro che pacificata. Ogni Paese mostra ancora le sue ferite e
voragini di nodi irrisolti, al proprio interno e ai nuovi amari confini
che, da separazioni amministrative di uno stesso Stato, sono diventati
muri di separazione. Vale per i conflitti: tra Slovenia e Croazia, tra
Macedonia e Grecia, ora tra il Montenegro appena entrato nella Nato e
Albania; tra la Serbia e l’ex provincia del Kosovo, proclamatosi
unilateralmente indipendente nel 2008 grazie alla guerra e
all’occupazione della Nato, che molti Paesi Onu e quattro Ue non
riconoscono.
Ma la tensione più forte è in Bosnia Erzegovina, dove
la «pace di carta» di Dayton lascia sul campo una Federazione tra
croati e musulmani sempre in contrasto e la Repubblica serba di Bosnia,
invisa ad entrambi, identitaria e fortemente arroccata; né bastano
istituzioni sulla carta tripartite ed egualitarie. La tragedia del
sangue versato pesa come un macigno. Senza parlare delle rotte della
disperazione dei migranti che, allontanati dal Mediterraneo dall’Ue sono
stati poi «venduti» al dominio ottomano turco-libico. E senza
dimenticare i foreign fighters di ritorno qui dalle ultime guerre
mediorientali. Erdogan ha scelto Sarajevo, nella Bosnia che era parte
dell’Impero ottomano. E nei Balcani la storia non passa. Al di là delle
affermazioni identitarie islamiste, subito con lui si è schierato il
presidente di turno della presidenza bosniaca, il musulmano Bakir
Izetbegovic, per il quale «è stato Dio a mandare Erdogan al suo popolo».
Quale dio? Visto che né i rappresentanti serbi né quelli croati hanno
partecipato ai colloqui bilaterali.