il manifesto 22.5.18
Nakba, la catastrofe infinita
di Tommaso Di Francesco
I
settant’anni dello Stato d’Israele sono anche i settant’anni della
Nakba, la «Catastrofe» del popolo palestinese, la cacciata nel 1948 di
centinaia di migliaia di palestinesi (da 700mila a un milione) in una
operazione di preordinata pulizia etnica che li ha trasformati nel
popolo profugho dei campi. A confermare laa doppiezza strabica degli
eventi nel rapporto di causa ed effetto, è arrivato lo spostamento
dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, la festa della «grande
riunificazione» di Netanyahu; proprio mentre la promessa elettorale
mantenuta di Trump provocava la rivolta e la strage di 60 giovani nel
tiro al piccione a Gaza. Secondo i versi del poeta palestinese Mahmud
Darwish: «Prigionieri di questo tempo indolente!/ non trovammo ultimo
sembiante, altro che il nostro sangue».
Invece sulla descrizione in
atto del massacro si esercitano gli «stregoni della notizia»: così
abbiamo letto di «ordini dalle moschee di andare correndo contro i
proiettili», di «scontri», di «battaglia» e «guerriglia». Avremmo dunque
dovuto vedere cecchini, carri armati e cacciabombardieri palestinesi
fronteggiare cecchini, tank e jet israeliani, con assalti di uomini
armati. Niente di tutto questo è avvenuto e avviene. Invece, nella più
completa impunità, la prepotenza dell’esercito israeliano sta
schiacciando una protesta armata di sassi, fionde e copertoni
incendiati. Per Netanyahu poi si tratterebbe di «azioni terroristiche».
Ma
la verità è che un popolo oppresso che manifesta contro un’occupazione
militare ricorda solo la nostra Liberazione e il diritto dei palestinesi
sancito da ben tre risoluzioni dell’Onu (una del 1948 proprio sul
«diritto al ritorno»). Sì, la festa triste di un popolo, guidato da
Netanyahu e dal nuovo «re d’Israele» Trump, vive della catastrofe di un
altro popolo. Che si allunga all’infinito con la proclamazione di
Gerusalemme «unica e storica capitale indivisibile di Israele». Altro
che due Stati per due popoli: nemmeno due capitali. Intanto per lo Stato
d’Israele il «diritto al ritorno» è costitutivo della natura esclusiva
di Stato ebraico.
Ai palestinesi al contrario è permesso solo di
vivere a milioni nei campi profughi di un Medio Oriente stravolto dalle
guerre occidentali e come migranti nei propri territori occupati
(Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est); di sopravvivere alla fame nel
ghetto della Striscia di Gaza. Questa è la condizione palestinese, con
il muro di Sharon che ruba terre alla Palestina e taglia in due famiglie
e comunità; posti di blocco che sospendono nell’attesa le vite umane;
lo sradicamento di colture agricole e le fonti d’acqua sequestrate; le
uccisioni quotidiane; e una miriade di insediamenti colonici ebraici che
hanno ormai cancellato la continuità territoriale dello Stato di
Palestina. Dopo tante chiacchiere di Obama che nel 2009 dal Cairo
dichiarava: «Sento il dolore dei palestinesi senza terra e senza Stato».
E dopo i voltafaccia dell’Ue che si barcamena sull’equidistanza
impossibile e tace, mentre ogni governo occidentale fa affari in armi e
tecnologia, e con patti militari – come l’Italia – con Israele, che è da
settant’anni in guerra e che occupa terre di un altro popolo.
Allora
o si rompe il silenzio complice e si prefigura una soluzione di pace
che esca dall’ambiguità di stare al di sopra delle parti – come se
Israele e Palestina avessero la stessa forza e rappresentatività, quando
invece da una parte c’è lo Stato d’Israele, potente e armato fino ai
denti, potenza nucleare e con l’esercito tra i più forti al mondo,
mentre dall’altra lo Stato palestinese semplicemente non esiste – oppure
sarà troppo tardi. Il nodo mai sciolto – Rabin a parte, non a caso
assassinato da un integralista ebreo – da tutti i governi israeliani
resta quello del diritto dei palestinesi di avere una terra e uno Stato,
fermo restando il diritto eguale d’Israele. Che se però non lo
riconosce per la Palestina perché dovrebbe pretenderlo per sé? I due
termini ormai si sostengono a vicenda oppure insieme si cancellano.
Tanto più che la demografia ormai racconta che le popolazioni arabe
hanno oltrepassato la misura di quelle ebraiche. O si avvia una
trasformazione democratica dello Stato d’Israele che decide di perdere
la sua natura etnico-religiosa di «Stato ebraico», con la pretesa
arrogante che i palestinesi occupati lo riconoscano come tale; oppure si
conferma la dimensione acclarata di Stato di apartheid come in
Sudafrica; con i territori occupati come riserve per i «nativi» nemici.
Scriveva
Franco Lattes Fortini nella sua Lettera aperta agli ebrei italiani nel
maggio 1989, nella la fase più acuta della Prima intifada: «Con ogni
casa che gli israeliani distruggono, con ogni vita che quotidianamente
uccidono e perfino con ogni giorno di scuola che fanno perdere ai
ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di
verità e di sapienza che, nella e per la cultura occidentale, è stato
accumulato dalle generazioni della diaspora, dalla sventura gloriosa o
nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e
recenti. Una grande donna ebrea e cristiana, Simone Weil, ha ricordato
che la spada ferisce da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere».
Provate a rileggere la grande lezione morale di S. Yizhar (Yzhar
Smilansky), il fondatore della letteratura israeliana, che in un piccolo
romanzo del 1949 Khirbet Khiza – significativamente un titolo in arabo,
conosciuto da noi come La rabbia del vento, che aprì un dibattito sulle
basi etiche del nuovo Stato – racconta la storia di una brigata
dell’esercito israeliano impegnata con la violenza a cacciare famiglie
palestinesi.
Il romanzo finisce con queste parole di dolore e
rammarico: «I campi saranno seminati e mietuti e verranno compiute
grandi opere. Evviva la città ebraica di Khiza! Chi penserà mai che
prima qui ci fosse una certa Khirbet Khiza la cui popolazione era stata
cacciata e di cui noi ci eravamo impadroniti? Eravamo venuti, avevamo
sparato, bruciato, fatto esplodere, bandito ed esiliato (…) Finché le
lacrime di un bambino che camminava con la madre non avessero brillato, e
lei non avesse trattenuto un tacito pianto di rabbia, io non avrei
potuto rassegnarmi. E quel bambino andava in esilio portando con sé il
ruggito di un torto ricevuto, ed era impossibile che non ci fosse al
mondo nessuno disposto a raccogliere un urlo talmente grande. Allora
dissi: non abbiamo alcun diritto a mandarli via da qui!».